Incontri di discernimento e solidarietà
 
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L’ALLELUIA DEL POVERO

l’hallel egiziano

I salmi 113 e 114 sono i primi di una raccolta detta Hallel egiziano (113-118); essi sono cantati nel corso del banchetto pasquale e ripresi in occasione di tutte le grandi feste del calendario liturgico di Israele. I salmi dello Hallel egiziano sono così intimamente legati con la celebrazione delle feste che, secondo un divieto rabbinico, è proibito cantarli nei giorni non festivi, ché altrimenti diventerebbero festivi. Il canto di questi salmi, infatti, suscita e fa la festa.

Dunque testi da prendere in considerazione con particolare impegno anche perché rinviano a momenti decisivi della salvezza: l’Esodo e il banchetto pasquale. Durante l’ultima cena anche il Signore ha pregato con questi salmi: il banchetto si apre con i primi salmi della raccolta, si chiude con gli ultimi, a cui si aggiunge il grande Hallel, il salmo 136.

Il salmo 113 si apre con l’alleluia. L’alleluia scandisce puntualmente la successione dei salmi dello Hallel egiziano. Alleluia: lodate il Signore. Non sono i primi salmi alleluiatici. Per la prima volta nel salterio l’alleluia risuona immediatamente dopo il salmo 104; da questo salmo in poi l’alleluia ritorna insistentemente per raggiungere la sua espressività piena proprio nei salmi dello Hallel egiziano.

I salmi che accompagnano la celebrazione del banchetto pasquale rievocano per grandi linee quello che fu l’itinerario dell’esodo compiuto dai padri quando furono liberati dalla schiavitù e furono condotti lungo le strade del deserto fino alla soglia della terra promessa. Disposti nella sequenza tradizionale questi salmi ci consentono di ricostruire il tracciato di quel percorso, tracciato non solo di ordine geografico, ma interiore: l’itinerario pasquale è costantemente rivissuto come evento di conversione, come liberazione sempre attuale ad opera di Dio che vuole rivelarsi nella sua gloria.

il canto che rende liberi

Il salmo 113 è un canto di lode che rievoca la schiavitù egiziana, quando nella notte fonda veniva celebrato il banchetto dell’agnello. L’agnello è stato immolato e con il suo sangue sono state segnate le porte delle case in cui abitano i figli d’Israele. In quelle case, durante la notte, viene celebrato il banchetto pasquale. Il salmo 113 si articola in due sezioni: la prima (primi quattro versetti) è un invitatorio, la seconda è una breve catechesi liturgica.

Prima sezione. Essa si sviluppa al modo di un dialogo: al vero e proprio invito, nel v. 1, segue la risposta di una assemblea già consapevole dell’impegno per il quale è stata convocata e che dimostra tutta la propria disponibilità ad assumerlo con esultanza festosa. «Lodate, servi del Signore, lodate il nome del Signore». L’invito alla lode è rivolto a coloro che sono chiamati servi. Il termine ebraico potrebbe essere tradotto con «schiavi». È il termine con il quale si indica una situazione di vita miserabile e oppressa. I figli di Israele in Egitto sono sottoposti a un penosissimo regime di schiavitù. Proprio a coloro che sono schiavi viene rivolto l’invito: lodate il nome del Signore. Coloro che sono schiavi vengono identificati non più in riferimento all’Egitto (al faraone, all'organizzazione della società egiziana per cui è imposto il regime della schiavitù), ma in rapporto al Signore. Lodate, servi del Signore. In questo invito coloro che sono ancora in Egitto, schiavi del faraone, già vengono identificati in rapporto al Signore che li libera: servi del Signore e quindi già liberi. Questa loro libertà è dimostrata dal fatto che sono in grado di lodare il Signore. Chi loda Dio già è libero, quale che sia il regime di schiavitù a cui è sotto posto.

Il v. 1 del salmo custodisce in se stesso tutta la ricchezza del messaggio pasquale: essere servo del Signore vuol dire essere libero rispetto a qualunque altro condizionamento di ordine culturale, sociale, politico, affettivo. Qualunque sudditanza che possa essere imposta agli uomini rendendoli schiavi di un potere che approfitta di loro, è rimosso nel momento stesso in cui si assume la consapevolezza di essere liberi per lodare il Signore. I discorsi intorno alla mensa preparata per la ricorrenza pasquale (pregare con il salmo 113) significano già assumere un atteggiamento di libertà che esclude qualunque ossequio nei confronti della prepotenza con cui il faraone pretende di dominare il mondo. Quale che sia la potenza esercitata dal faraone, noi siamo liberi: siamo qui per lodare il Signore, perché apparteniamo al Signore, perché siamo suoi servi e non c’è altro interlocutore che sia in grado di determinare la nostra identità, se non lui, il Signore. Lodate, servi del Signore, lodate il nome del Signore.

Su questo aspetto insiste la tradizionale interpretazione rabbinica con una sapienza arricchita dalla lunga esperienza di oppressione del popolo di Israele. Quante Pasque celebrate in regime di schiavitù! Quale che sia il faraone di turno, noi siamo liberi, proprio perché cantiamo l’alleluia.

Il v. 2 riprende l’invito. L’invito ottiene già una risonanza, suscita una eco pressoché immediata: «Sia benedetto il nome del Signore, ora e sempre. Dal sorgere del sole al suo tramonto, sia lodato il nome del Signore. Su tutti i popoli eccelso è il Signore, più alta dei cieli è la sua gloria».

Si fanno avanti coloro che sono stati invitati e che si dichiarano desiderosi di imparare a benedire il Signore. Sia benedetto il nome del Signore, ora e sempre. Chi loda Dio non è più sottoposto ai limiti che dipendono dalle scadenze temporali: ora e sempre; chi loda Dio non è più prigioniero di quei confini che intersecano gli spazi di questo mondo: dal sorgere del sole al suo tramonto sia lodato il nome del Signore. Dall’alba al tramonto, su tutti i popoli, sotto qualunque cielo, in qualunque condizione, in qualunque luogo, dappertutto, ininterrottamente sia lodato il nome del Signore. Chi loda Dio è a casa propria in ogni luogo e in ogni momento. Coloro che ancora si trovano in Egitto, che ancora si trovano nel luogo della schiavitù, che hanno a che fare con la notte dell’oppressione, sono liberi, qui e dappertutto. Chi loda Dio, chi canta l’alleluia è cittadino del mondo ed è in grado di interpretare ogni momento come occasione propizia per testimoniare la propria festosa libertà: sia benedetto il nome del Signore, ora e sempre.

Insistentemente ricorre il nome del Signore in questi versetti, ben cinque volte; comparirà una sesta volta all’inizio della seconda sezione, nel v. 5. Per sei volte nel salmo 113 è invocato il nome del Signore, un nome di per sé impronunziabile, un nome che custodisce in sé tutto il mistero del Vivente, il mistero delle sue intenzioni di comunione e di amore. Questo mistero ora ci è rivelato: il suo nome, per sei volte. C’è una settima volta in cui il nome del Signore compare ed è esattamente nel grido liturgico: allelu-ia. Coloro che nella storia umana sono schiavi, sprofondati e risucchiati fino a giacere nel fondo dell’inferno, costoro sono servi del Signore e già sono in grado di cantare l’alleluia. Non appartengono al faraone, appartengono al Signore. La loro condizione miserabile non può essere interpretata in riferimento al potere del faraone, ma in riferimento al nome del Signore, che a quelle creature schiacciate nel fondo dell’inferno manifesta le sue intenzioni di amore e di salvezza: in Egitto alle prese con la notte profonda, sono servi del Signore, cioè già liberi cantano l’alleluia.

sul trono, si piega: la discesa dell’amore

Nella seconda sezione in forma catechetica viene precisato il motivo per cui è opportuno lodare il Signore.

«Chi è pari al Signore che siede nell’alto» (v. 5). Sarebbe meglio tradurre: «che si eleva sul trono». Qui, per la sesta volta viene menzionato il nome del Signore: colui che si eleva sul trono. E’ una forma interrogativa: perché è necessario lodare il Signore? Perché il Signore è altissimo. È una motivazione che sembra superare tutte le nostre capacità di comprensione. Chi è pari al Signore nostro Dio che siede nell’alto? Determinato così il motivo per lodare il Signore, ci sentiamo sbaragliati. Il Signore è colui che nel suo mistero insondabile sorpassa tutte le nostre capacità di discernimento.

Si colloca qui la svolta decisiva nella argomentazione catechetica, v. 6: «e si china a guardare nei cieli e sulla terra». Colui che siede sul trono si china a guardare nei cieli e sulla terra. La contraddizione si esplicita nel modo più scandaloso: il sovrano è piegato, il giudice che siede sul seggio è in ginocchio; colui che è al di sopra di tutto e di tutti nella sua immensità celeste, è proteso verso la terra in modo da realizzare un contatto affettuoso, premuroso con tutti e con ciascuno. Si china a guardare nei cieli e sulla terra. Il movimento di colui che è seduto nell’atto di scendere è progressivo, e quasi indentifichiamo i successivi gradini di questa discesa. Il suo sguardo si incunea attraverso i cieli per raggiungere le creature che sono nel mondo. Si china a raccogliere la polvere, e quella polvere nella sua mano è un grumo di realtà a cui il Signore onnipotente conferisce il valore di una creatura amata. In ebraico è usata la parola hal, che vuol dire sottile, esile, tanto esile da scomparire, come uno strato di polvere su un piano. Dio scende e sembra posare la mano e raccogliere questo impercettibile strato di polvere. «Solleva l’indigente dalla polvere». Alleluia! Chi canta l’alleluia è proprio chi si trova nella condizione dell’inconsistenza; chi ha dovuto rendersi conto di essere sfiorato da una carezza, di essere preso in mano e sollevato con tutto lo sconcerto che questo comporta, il timore, forse le proteste. C’è qualcuno che ti ha preso in mano, c’è qualcuno che ha fatto del tuo granellino di polvere un oggetto di amore. Sei servo del Signore. Lodate il nome del Signore perché è colui che tiene in pugno la polvere, il Signore.

v. 7, «Dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, tra i principi del suo popolo». C’è un gradino in più lungo quella discesa che abbiamo evocato precedentemente: adesso non soltanto abbiamo a che fare con la superficie della terra, ma abbiamo a che fare con il sottoterra, l’immondizia. Non si limita, colui che discende, a sfiorare la superficie polverosa, ma raggiunge le zone inferiori, là dove sono relegati i detriti, i rifiuti, le sconcezze, le immondezze. Proprio a partire da questa profondità sotterranea, rialza il povero, ebion. L’ebion è il povero in quanto immondo, rifiutato, svuotato. Non è soltanto qualcuno che si è venuto disintegrando fino a essere ridotto a granellino di polvere; qui abbiamo a che fare con una situazione più violenta, c’è di mezzo uno schiacciamento, una oppressione: non resta che una carcassa immonda che deve essere calata nell’abisso sotterraneo. Dall’immondizia rialza il povero per farlo sedere tra i principi del suo popolo.

la risalita: la gioia della sterile

Mentre noi contempliamo questo itinerario in discesa di colui che siede nell’alto, constatiamo che gli effetti prodotti sono sempre più sconcertanti per quanto riguarda la risalita. Tiene in mano quella creatura inconsistente che ha raccolto come polvere sulla superficie della terra e la solleva più in alto, fino a farla sedere tra i principi del suo popolo. Finalmente, terza figura, v. 9 «Fa abitare la sterile nella sua casa, quale madre gioiosa di figli». La situazione tragica nella quale si trova la donna sterile è più penosa di quella in cui si trova l’indigente ridotto ad immondizia. Una donna sterile, un grembo vuoto, un grembo inutile: che tristezza! E' la tristezza più profonda di ogni altra situazione di povertà che possa mai essere sperimentata. Ebbene, il Signore nostro Dio è colui che fa della donna sterile una madre gioiosa di figli, la fa abitare nella sua casa; dà una casa alla madre e dà una madre ai figli.

Il banchetto pasquale si apre con il canto del salmo 113: canta così chi ha ricevuto nella povertà la rivelazione del nome del Signore; che nella povertà ha imparato a cantare la lode di quel nome, a proclamare l’alleluia e a considerare tutto quello che avviene sulla scena del mondo, in rapporto a una storia di liberazione. Coloro che poveri in Egitto hanno imparato a cantare l’alleluia, sono ora in grado di interpretare il senso di ogni situazione, di ogni vicenda, in rapporto al Signore e non più in rapporto al faraone.

una lingua nuova

Il salmo 114 è famosissimo. E’ un componimento breve e denso. La rievocazione dei fatti che ci sono raccontati nel libro dell’Esodo, giunge qui al momento decisivo, uno strappo. Gli avvenimenti precipitano e anche il testo del salmo 114, nel suo dettato letterario,è un testo brusco, segnato come da un nervosismo incandescente, da una fretta intrattenibile, sempre, comunque, ritmata dal risuonare dell’alleluia: alleluia! «Quando Israele uscì dall’Egitto»: l’esodo, dopo la notte del banchetto, che è già la notte della libertà. Il salmo si articola in tre strofe, vv. 1-2, vv. 3-6, vv. 7-8.

«Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, Giuda divenne il suo santuario, Israele il suo dominio».

Israele esce dall’Egitto. Ma più esattamente il protagonista di questa uscita è il Signore: quando Israele uscì dall’Egitto, Giuda divenne il suo santuario, santuario del Signore, Israele il suo dominio, dominio del Signore. Il nome del Signore non compare mai nel salmo 114. Nella nostra traduzione al v. 7 leggiamo: «Signore», ma in ebraico c’è un termine comune. Nel salmo 114 il nome non risuona, l’evento si impone per se stesso. L’alleluia produce l’evento senza bisogno di ulteriori risonanze canore, liturgiche. E’ il Signore che si muove, che prende posizione, che viene ad abitare in Giuda, facendo di Giuda il suo santuario; che prende posizione per Israele facendo di Israele il suo dominio. E' lui che esce dall’Egitto e il popolo gli va appresso.

Nella tradizione rabbinica del salmo, nel v. 1 l’uscita dall’Egitto viene caratterizzata come abbandono di un popolo barbaro, un popolo che parla un’altra lingua. L’esodo, più ancora che una dislocazione di ordine geografico, viene configurato come un evento culturale, con il quale viene impostato un altro linguaggio. Uscire dall’Egitto significa a imparare a parlare con un’altra lingua: la lingua di Dio. Non più la lingua dell’Egitto. La lingua è qui intesa non soltanto come fenomeno sonoro ma come modo di interpretare il mondo. In Egitto si parla una lingua barbara, è la lingua del faraone, per cui la cattiveria esercita il potere e tutto deve essere compreso in obbedienza alla cattiveria umana. Uscire dall’Egitto significa per Israele dimenticare quella lingua e impararne un’altra. Questo nuovo linguaggio è all’inizio balbettante: appena qualche sussurro, qualche gemito, come di una creatura appena uscita dal grembo, un neonato. Sta balbettando.

l’acqua e la roccia

Il salmo prosegue, vv. 3-6, con la descrizione di quel che avviene nell’ambiente circostante. È come se quel balbettio di cui dà prova il popolo appena uscito dall’Egitto ridondasse nell’ambiente fisico e nell’ambiente storico. Tutta la creazione è commossa, interpellata, partecipe di questa novità: manda segnali sconcertanti, qualcuno potrebbe dire, strampalati. Un’altra lingua: è la lingua di Dio, è la lingua dei poveri che sono servi del Signore; è la lingua che stanno apprendendo quei tali che cantano l’alleluia. L’alleluia non è solo un canto liturgico, ma struttura linguistica di una nuova cultura. Tutta la creazione partecipa a questo fenomeno sconcertante. «Il mare vide e si ritrasse, il Giordano si volse indietro». È percorso con un rapido colpo d’occhio tutto l’itinerario che va dal mare dei giunchi fino al Giordano. Ma non solo: «I monti saltellarono come arieti e le colline come agnelli di un gregge». Sono citate due creature come esempio di ostacoli: l’acqua e la catena montuosa. Ciò che si erge davanti a noi come impedimento, ciò che trattiene il passo o addirittura lo rende impossibile viene meno in modo sbalorditivo: il mare si ritrae, l’acqua del fiume addirittura si volge all’indietro, scorre nel verso opposto di quello che le è naturale e i monti si sollevano come agnellini di un gregge. E' una nota festosa:, la grazia di un agnellino! Ci manca solo un fiocchetto o un campanello ed ecco proprio il motivo perché dei bambini coi boccoletti battono le mani. I monti saltellarono come arieti, le colline come agnelli di un gregge.

C’è qualcuno che sta imparando ad esprimersi con un’altra lingua, che sta imparando a interpretare la presenza di quell’acqua, di quella barriera rocciosa in tutt’altra prospettiva, rispetto a quella che appariva come unica, stando alla lingua barbara dell’Egitto. I servi del Signore stanno imparando a parlare. E tutta la creazione sta balbettando all’unisono con i neonati che sono apprendisti alla scuola di Dio. C’è anche una interrogazione: «Che hai tu mare per fuggire, e tu Giordano perché torni indietro? Perché voi monti saltellate come arieti e voi colline come agnelli di un gregge?».

Ormai il male, che stando alla lingua barbara dell’Egitto, domina il mondo, ha perso la presa. Sono i servi del Signore che se accorgono, sono i poveri che stanno maturando nell’apprendistato. Cantano l’alleluia e stanno imparando a guardare il mondo, a intendere il senso della storia umana, a prendere contatto con il mare e con la roccia, con ogni ostacolo, impedimento e difficoltà. Sono testimoni di un parto, una nuova creatura sta nascendo. Anzi, l’Egitto, proprio l’Egitto, acquista la fisionomia di un grembo fecondo. E’ strano ma è proprio così: quei servi del Signore, che escono dall’Egitto, evangelizzano l’Egitto; la loro uscita dall’Egitto coincide con la loro capacità di testimoniare all’Egitto che non è un inferno, che è un grembo in grado di generare.

Ed ecco l’ultima strofa, vv. 7-8: «Trema o terra davanti al Signore, davanti al Dio di Giacobbe, che muta la rupe in un lago, la roccia in sorgenti d’acqua». La strofa fa perno attorno al verbo che leggiamo all’inizio del v. 8, colui che muta, colui che trasforma. È l’opera del Signore che si compie: la terra emerge là dove avevamo a che fare con l’immensità dell’oceano; l’acqua si asciuga. Dio fa nuovo il mondo, trasforma quella situazione scandalosa, che era motivo di inciampo, ossia l’immensità dell’oceano, in una occasione propizia per procedere; là dove si riscontrava la presenza di un oppositore, adesso viene dato un aiuto. Il verbo tradotto con «tremare» in ebraico allude per un verso alle contrazioni della partoriente e per altro verso ai movimenti ritmici di una danza. La terra emerge al ritmo di successivi passi di danza, come di un dolore fecondo.

Immediatamente dopo viene l’immagine di colui che muta la rupe in un lago, la roccia in sorgenti d’acqua. Là dove era la roccia zampilla acqua sorgiva; dov’era l’acqua, il terreno solido. È il Signore onnipotente che parla la sua lingua. Ci sono apprendisti alla sua scuola, coloro che escono dall’Egitto, attraversano il mare, urtano contro le pietre del deserto e ormai sempre e dappertutto sono in grado di constatare come gli scandali di cui fanno esperienza sono divenuti occasioni di vita. Sono i poveri che parlano la lingua di Dio. Alleluia


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La povertà 1997-98