Incontri di discernimento e solidarietà
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03 maggio 2016

Libro di Tobia - quarta parte

Nella prova si cresce e si impara a vivere

Sesto incontro del ciclo 2015-2016



Abbiamo letto i primi nove capitoli del Libro di Tobia, un racconto didattico che esige una riflessione sempre attenta, che comporta sviluppi imprevisti e incoraggia a intrattenerci in un atteggiamento di ricerca orientato in molteplici direzioni, sempre all’interno di quella grande ricerca che riguarda l’apprendistato alla vita, tema fondamentale di tutta la tradizione sapienziale. Più esattamente imparare a vivere in un contesto di fede che non è un’alternativa alla vocazione alla vita ma è componente intrinseca, motore che, dall’interno, struttura la vocazione alla vita. La storia dei personaggi che abbiamo incontrato ci presenta il popolo dei credenti disperso, alle prese con le situazioni più imprevedibili e sconcertanti. Più vado avanti più avverto il desiderio di andare indietro, di ripartire da capo, di andare un po’ più a fondo per cogliere i valori di certe sfumature che, peraltro, spesso interpretano alcune pieghe del nostro vissuto, che normalmente non sono oggetto di discernimento e che invece acquistano un rilievo determinante nell’economia complessiva della nostra esistenza.

Nella prima parte del racconto (i primi tre capitoli) abbiamo incontrato due personaggi con le loro tribolazioni; nella seconda parte (capitoli 4-11) il racconto del viaggio di Tobia, che è l’elemento della parabola che serve ad esplicitare come la gloria di Dio si rivela nella storia degli uomini in maniera tale da cucire insieme vicende di personaggi derelitti e sconfitti che invocano la morte all’interno di un’economia redentiva. È la gloria di Dio che si introduce nella storia umana passando attraverso vicende periferiche, compromesse, segnate dalle avventure (e disavventure) dei credenti che sono alle prese con le contraddizioni più amare e feroci.

Dal cap. 4 abbiamo seguito le istruzioni che Tobi rivolge a suo figlio Tobia e poi i preparativi per il viaggio e l’incontro con il compagno (che svolgerà un ruolo decisivo nel corso del cammino), l’angelo Raffaele che si presenta sotto il nome di Azaria. Dal cap. 6 il racconto del viaggio che suggerivo di suddividere in due tappe fondamentali: la prima è il viaggio di andata fino a Ecbàtana, la seconda (che leggeremo stasera) è il viaggio di ritorno a Ninive. Da Ninive sono partiti Tobia e il suo compagno, guida, maestro; colui che gli spiega quali sono i passaggi da cui dipende la crescita positiva nella risposta alla vocazione alla vita. Ricordate l’impatto con il mostro marino, il male, la prontezza nell’affrontarlo e la determinatezza nel superare quell’ostacolo, in modo tale che l’avversità diventa un punto di appoggio su cui ci si può impiantare in vista di un affaccio su orizzonti più ampi: si cresce così. Ed è dal conflitto con il pesce che derivano quelle “medicine” che verranno usate per guarire Sara e Tobi, il padre, che è rimasto a casa cieco.

Come ricordavo nel nostro ultimo incontro abbiamo parlato del viaggio di andata e dell’incontro con la sposa che è “sorella” all’interno della parentela, all’interno di una comune vocazione trascendente. Ed è l’incontro con la sposa che fa tutt’uno con quell’inserimento, per Tobia, che è figura emblematica nel racconto che stiamo man mano interpretando, nella relazione con l’umanità, con tutto ciò che riguarda le vicende, le esperienze, i drammi di tutti gli uomini sempre e dovunque.

Tobia incontra la sposa a Ecbàtana. Il viaggio era progettato inizialmente per raggiungere Rage, una località ancora più remota dove Tobi aveva lasciato parecchi anni prima una buona somma di denaro presso un vecchio amico. E, invece, il viaggio si ferma per le nozze di Tobia, tanto è vero che, come leggiamo nel capitolo 9, è quell’amico, custode del deposito di denaro che, opportunamente informato, si reca a Ecbàtana per partecipare ai festeggiamenti.

Là dove Tobia incontra la sposa incontra il mondo e la prospettiva si ribalta: non è più Tobia che si inoltra lungo i territori impervi, spesso drammatici, qualche volta mostruosi che bisogna attraversare nel mondo e nella storia dell’umanità per imparare a vivere, ma è il mondo che va incontro a lui, gli si stringe attorno. E Tobia adesso scopre che gli ostacoli di ogni genere, le difficoltà, incertezze, contrarietà che ha incontrato si trasformano in figure collaborative, ossequiose, benefiche; tutto nel mondo diventa segno di fraternità o di sororità, come canta San Francesco nella sua indimenticabile composizione contemplativa. Là dove Tobia sta festeggiando le nozze con la sposa tutto sembra trasformarsi nel segno di un’economia domestica che è docile, accogliente, benefica.

Ripartiamo dalla fine del cap. 9 dove Gabael, quell’amico che si è recato a Ecbàtana per consegnare il deposito di denaro che Tobia gli aveva lasciato e per partecipare alla festa di nozze; saluta Tobia e riconosce nel suo volto l’immagine del padre. “Benedetto Dio, poiché ho visto mio cugino Tobi, vedendo te che tanto gli somigli!”.

Adesso si passa alla seconda tappa del viaggio di Tobia che ormai non è più solo (c’è la sposa) per tornare a Ninive dal padre. Le due tappe del viaggio sono una premonizione inconfondibile di quelle che sono le movenze del grande viaggio, quello che ricapitola tutta la storia della salvezza, che si compie in maniera definitiva nella Pasqua di morte e resurrezione del Signore, nella Sua discesa e risalita, nel Suo andare e tornare; quel viaggio che diventa rivelazione di quell’unico, immenso abbraccio mediante il quale la vita intima di Dio si spalanca, il mistero di Dio si rivela e dove tutto della storia umana è riconciliato in obbedienza alla Sua originaria volontà d’amore. Il libretto di Tobia, in questo senso, è una testimonianza che, nell’Antico Testamento, è dotata di una singolare pregnanza neo-testamentaria; tanto è vero che il Libro di Tobia e deuterocanonico cioè non è accolto nel canone delle scritture ebraiche. È stato riconosciuto e accolto come scrittura sacra nel canone dei libri che le Chiese, dall’inizio e nel corso dei secoli, hanno ritenuto come Parola rivelata. Stando così le cose, per quanto il racconto contini ad esprimersi con un linguaggio dimesso e quasi banale, in realtà ci trasmette la testimonianza di una contemplazione teologica di altissimo livello. Oltretutto le parti mobili della Messa per la festa della SS. Trinità – da quanto esiste una liturgia che viene celebrata con questa dicitura, da epoca medioevale – sono tratte dal Libro di Tobia. Questo vuol dire che, nel corso dei secoli, la Chiesa che legge questo libro coglie in esso, nella semplicità del racconto, con tutta la sapienza didattica che mette in movimento, questa intuizione teologica che è proiettata verso l’epifania del Mistero trinitario del Dio vivente. Ecco come il Padre si è fatto conoscere, si è fatto vedere: nel volto del Figlio. Ed ecco come tutta la creazione e l’intero svolgimento della storia umana trovano compimento in quell’abbraccio che riconcilia tutte le creature disperse in risposta all’iniziativa d’amore di Dio creatore.


Tobi e Anna litigano

Cap. 10, vv. 1-7: “Ogni giorno intanto Tobi contava le giornate, quante erano necessarie all'andata e quante al ritorno. Quando poi i giorni furono al termine e il figlio non era ancora tornato, pensò: «Forse sarà stato trattenuto là? O sarà morto Gabael e nessuno gli darà il denaro?». Cominciò così a rattristarsi. La moglie Anna diceva: «Mio figlio è perito e non è più tra i vivi, perché troppo è il ritardo». E cominciò a piangere e a lamentarsi sul proprio figlio dicendo: «Ahimè, figlio, perché ho lasciato partire te che eri la luce dei miei occhi!». Le rispondeva Tobi: «Taci, non stare in pensiero, sorella; egli sta bene. Certo li trattiene là qualche fatto imprevisto. Del resto l'uomo che lo accompagnava è sicuro ed è uno dei nostri fratelli. Non affliggerti per lui, sorella; tra poco sarà qui». Ma essa replicava: «Lasciami stare e non ingannarmi! Mio figlio è perito». E subito usciva e osservava la strada per la quale era partito il figlio; così faceva ogni giorno senza lasciarsi persuadere da nessuno. Quando il sole era tramontato, rientrava a piangere e a lamentarsi per tutta la notte e non prendeva sonno”. Tobi fa i suoi calcoli e Anna piange; Tobi fa i suoi calcoli, Anna protesta e strepita. In realtà sono in attesa e solo il ritorno di Tobia restituirà luce agli occhi ciechi del padre e restituirà luce anche agli occhi severi e sprezzanti di Anna: “è colpa tua se mio figlio è perito”.


Ritorno di Tobia

Vv. 8-14. “Compiutisi i quattordici giorni delle feste nuziali, che Raguele con giuramento aveva stabilito di fare per la propria figlia, Tobia andò da lui e gli disse: «Lasciami partire» (Tobia non ha dimenticato la casa di suo padre e di sua madre. La figliolanza di Tobia emerge in queste pagine in maniera sempre più precisa e determinante; vuole ritornare dal padre e ritrovare il grembo fecondo della madre che partorisce con le lacrime). “Sono certo che mio padre e mia madre non hanno più speranza di rivedermi (Tobia è perfettamente consapevole di quel che immagina stia succedendo a Ninive). Ti prego dunque, o padre, di volermi congedare: possa così tornare da mio padre. Già ti ho spiegato in quale condizione l'ho lasciato». Rispose Raguele a Tobia: «Resta figlio, resta con me. Manderò messaggeri a tuo padre Tobi, perché lo informino sul tuo conto». Ma quegli disse: «No, ti prego di lasciarmi andare da mio padre»”. La missione che il padre ha affidato a suo figlio Tobia era mirata a recuperare il denaro, ma ci siamo resi conto che l’obiettivo era incontrare la sposa, l’umanità. E ora comprendiamo in modo ancora più preciso e interessante per noi che il vero compimento della missione affidata a Tobia avverrà quando ritornerà al padre e alla madre e si presenterà in qualità di sposo portando con sé la sposa (e tutto il suo corredo, la dote, quel che emblematicamente viene descritto come il patrimonio che Tobia ha potuto acquisire nel corso del suo viaggio). È la sposa dell’umanità. Il ritorno al padre coincide con questo coinvolgimento della moltitudine umana nella fondazione e rifondazione dell’unica famiglia umana. Non vuole accontentarsi di mandare dei messaggeri, vuole tornare lui in qualità di figlio e in qualità di sposo. “Allora Raguele, alzatosi, consegnò a Tobia la sposa Sara con metà dei suoi beni, servi e serve, buoi e pecore, asini e cammelli, vesti, denaro e masserizie. Li congedò in buona salute (in pace, nella piena prosperità, nel benessere, nella gratificazione per i beni che la sposa porta con sé; ed è un modo per sintetizzare in maniera efficace quello che è il contributo che si viene man mano accumulando nel corso della storia umana: il viaggio del figlio che è disceso e risale accompagnato da questa dote nuziale che consente a Sara, che rappresenta la vicenda umana con tutte le sue drammatiche contraddizioni, di inserirsi nel grembo della famiglia che ormai si costituisce come luogo di fraternità ecumenica). A lui poi rivolse questo saluto: «Sta’ sano, o figlio, e fa’ buon viaggio! Il Signore del cielo assista te e Sara tua moglie e possa io vedere i vostri figli prima di morire». Poi abbracciò Sara sua figlia e disse: «Onora tuo suocero e tua suocera, poiché da questo momento essi sono i tuoi genitori, come coloro che ti hanno dato la vita. Và in pace, figlia, e possa sentire buone notizie a tuo riguardo, finché sarò in vita». Dopo averli salutati, li congedò”. Il padre rivolge a Sara questo saluto che allude al suo prossimo ingresso in una famiglia che genererà dei fratelli per lei. È un linguaggio al quale siamo ormai abituati: c’è di mezzo l’attivazione di quelle relazioni piene, definitive ed esaurienti per cui nella storia umana – dove è la gloria di Dio che opera – è la famiglia dei fratelli che si viene componendo. Interviene anche Edna, la madre di Sara: “Da parte sua Edna disse a Tobia: «Figlio e fratello carissimo, il Signore ti riconduca a casa e possa io vedere i figli tuoi e di Sara mia figlia prima di morire, per gioire davanti al Signore. Ti affido mia figlia in custodia. Non farla soffrire in nessun giorno della tua vita. Figlio, và in pace. D'ora in avanti io sono tua madre e Sara è tua sorella. Possiamo tutti insieme avere buona fortuna per tutti i giorni della nostra vita». Li baciò tutti e due e li congedò in buona salute”. Raguele, il padre, ha consegnato una parte consistente del suo patrimonio; la madre consegna un patrimonio affettivo. Sono distinzioni sempre un po’ evanescenti, ma la duplice eredità merita un opportuno riscontro. È vero che i beni portano con sé anche un’eredità affettiva, di sapienza ed esperienza. Ci sono di mezzo la fatica, l’impegno, le competenze, tutto l’intreccio di relazioni che, a partire da epoca remotissima, di generazione in generazione, consentono di attivare quei contatti con le cose del mondo che lo trasformano e ne fanno il corredo che partecipa anch’esso alla festa preannunciata nel grembo glorioso della vita di Dio; ma c’è un’eredità di affetti che, attraverso la figura di Edna, viene messo in risalto. E, nel momento in cui Edna si rivolge a Tobia e alla figlia, dà loro un appuntamento (Possiamo tutti insieme avere buona fortuna per tutti i giorni della nostra vita) che è un atto di fiducia per chi affronta adesso una separazione. Raccomanda a Tobia di non far soffrire sua figlia, si augura di poter vedere loro e i suoi nipoti per “gioire davanti al Signore”. Ed è davanti al Signore che quello che è un momento di separazione, uno strappo, si prospetta come la fiducia in un appuntamento che darà modo a tutti (la prospettiva è sempre ecumenica) di riconoscersi nell’esperienza di una gioiosa pienezza affettiva che ricapitola in sé tutti gli strappi, le separazioni, gli incidenti; tutte le esperienze, occasionali o durature, di separazione o di estraneità.

Tobia parte: “Allora Tobia partì da Raguele in buona salute e lieto, benedicendo il Signore del cielo e della terra, il re dell'universo, perché aveva dato buon esito al suo viaggio. Benedisse Raguele ed Edna sua moglie con quest'augurio: «Possa io avere la fortuna di onorarvi tutti i giorni della vostra vita»”. La partenza avviene portata da questa onda che va di benedizione in benedizione e, nel momento in cui Tobia parte e non da solo, benedice il Signore del cielo e della terra; è l’universo intero. Non ci può essere uno sguardo proiettato su un’ampiezza più comprensiva di questa. Tra cielo e terra è la creazione intera. Chi si muove tra cielo e terra è sempre a casa sua, al posto suo e presente dappertutto; è il mondo che è diventato la sua casa. Per Tobia viaggiare è dimorare nello stesso tempo; ha imparato a benedire il Signore del cielo e della terra. E il suo viaggio di ritorno assume in maniera inconfondibile il significato di una epifania rivelativa di quell’abbraccio cosmico che ricapitola tutto il mondo nel grembo della comunione di vita che è l’intimo segreto di Dio.


Tobi e Anna accolgono il figlio

Cap. 11, vv. 1-14: “Quando furono nei pressi di Kaserin, di fronte a Ninive, disse Raffaele (man mano che il viaggio procede il ritmo di fa più precipitoso, gli eventi incalzano): “«Tu sai in quale condizione abbiamo lasciato tuo padre. Corriamo avanti, prima di tua moglie, e prepariamo la casa, mentre gli altri vengono» (c’è un’urgenza escatologica in questa accelerazione del passo e l’obiettivo è la cura da dedicare alla cecità di Tobi. Questo è l’obiettivo del viaggio, la ricapitolazione di tutto). Allora s'incamminarono tutti e due insieme. Poi Raffaele gli disse: «Prendi in mano il fiele». Il cane li seguiva”. L’angelo, il cane, il mondo superiore, quello inferiore; Tobia si muove sempre e comunque avvolto da queste figure che rappresentano la realtà del mondo nella sua interezza. È lo sposo che torna alla casa del padre e in quanto sposo adesso il padre lo vede. Vedere il figlio per Tobi significa vedere lo sposo, vedere colui che torna a casa portando in carico tutto ciò che è la realtà creata, la realtà mondana, umana. È la carne piagata del figlio che ritorna a casa. Siamo nel cuore del mistero cristiano. È la carne dolente, la carne sposata che ritorna a casa; è la rivelazione del Padre nel riconoscimento di quel Figlio. Ecco il Padre: ha riconosciuto quel Figlio e in quel Figlio riconosciuto è la carne derelitta della nostra condizione umana che è introdotta nella figliolanza di Dio. “Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli” dice il Salmo 22. È il Salmo che recita “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”: è la preghiera di Gesù moribondo. Quel tale, che sta morendo come un verme (sono un verme e non un uomo/rifiutato da tutti), dice: “Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli”. È la paternità di Dio. Da questo momento in poi ogni essere umano che muore, come è inevitabile stando alle conseguenze del fallimento originario, è in grado di riconoscerTi come Padre.

Tobia avanza accompagnato dall’angelo e dal cane che li seguiva. La vulgata, la traduzione in latino di San Gerolamo, qui amplia il testo perché dice “il cane, che era stato con loro sulla strada, corse avanti e avanza come un messaggero, manifestando gioia nello scuotimento della sua coda”. “Nuntius adveniens” è uno dei titoli di un documento famoso di Paolo VI che parla dell’evangelizzazione e “nuntius adveniens” è il cane del libro di Tobia.

Anna intanto sedeva a scrutare la strada per la quale era partito il figlio. Le parve di vederlo venire e disse al padre di lui: «Ecco viene tuo figlio con l'uomo che l'accompagnava»”. È un’attesa trepidante e, d’altra parte, Anna quando dichiarava di esser diventata cieca avendo perso la “luce dei suoi occhi” in realtà scrutava con perspicacia insaziabile fino a che non vede e riconosce il figlio e lo annuncia a Tobi: “È tuo figlio che viene”. Al padre cieco viene annunciato il ritorno del figlio dalla madre? Sono immagini delicate da trattare con una certa cautela; ma è il Mistero trinitario che si rivela. Non per niente se le parti mobili della Messa della SS. Trinità sono tratte dal Libro di Tobia vuol dire che siamo incoraggiati a leggere e rileggere queste pagine in quella prospettiva. È il Mistero trinitario ed è lo Spirito effuso, quella pioggia di lacrime che continua a irrorare la terra nel tempo, nello spazio, nel mondo, nel visibile, nell’invisibile. È nell’effusione dello Spirito Santo che quel figlio derelitto (che ritorna dopo essersi fatto carico di tutte le vicissitudini, i drammi, le tragedie, le miserie, la morte della condizione umana) viene riconosciuto: “È tuo Figlio”. Lo diceva Gesù nel Vangelo di ieri: “Il Paraclito mi rende testimonianza”. È Anna che dice a Tobi: “è Tobia, tuo figlio!”.

Raffaele disse a Tobia prima di avvicinarsi al padre: «Io so che i suoi occhi si apriranno. Spalma il fiele del pesce sui suoi occhi; il farmaco intaccherà e asporterà come scaglie le macchie bianche dai suoi occhi. Così tuo padre riavrà la vista e vedrà la luce»”. Vedere la luce per Tobi significa riconoscere Tobia come il figlio (che corrisponde al suo compiacimento) che si presenta sposo dell’umanità derelitta.

Anna corse avanti e si gettò al collo del figlio dicendogli: «Ti rivedo, o figlio. Ora posso morire!» (Anna può permetterselo perché, benché dicesse “ho perso la luce degli occhi”, ci vede benissimo. E la sua visione è così lucida che ormai splende anche laddove qualunque ombra di morte possa annunciarsi). E pianse (piange sempre: è un’immagine sacramentale. Ricordate come ne parla San Paolo ai Romani: “Gemiti imperscrutabili, il pianto che irrora la creazione; il sospiro, il gemito, l’eco misteriosissima di quella profondità che è il soffio del Dio vivente nella sua eterna volontà d’amore). E Tobi si alzò (ecco il Padre) e, incespicando, uscì dalla porta del cortile (è cieco, traballa, è abituato a camminare solo se qualcuno lo aiuta). Tobia gli andò incontro, tenendo in mano il fiele del pesce. Soffiò sui suoi occhi e lo trasse vicino, dicendo: «Coraggio, padre!». Spalmò il farmaco che operò come un morso, poi distaccò con le mani le scaglie bianche dai margini degli occhi. Tobi gli si buttò al collo e pianse, dicendo: «Ti vedo, figlio, luce dei miei occhi!»” (Tobia incoraggia il padre e adesso Tobi ci vede. L’espressione usata qui, che compariva anche precedentemente, è quella stessa che nel Vangelo secondo Luca leggiamo nella famosa parabola del padre e del figlio: quando il figlio che se ne è andato di casa ritorna, il padre gli corre incontro, gli si getta al collo e piange). E aggiunse: «Benedetto Dio! Benedetto il suo grande nome! Benedetti tutti i suoi angeli santi! Benedetto il suo grande nome su di noi e benedetti i suoi angeli per tutti i secoli. Perché egli mi ha colpito ma poi ha avuto pietà ed ecco, ora io contemplo mio figlio Tobia»”. La guarigione per Tobi fa tutt’uno con questa sovrabbondante effusione di benedizioni. È il mistero di Dio che si rivela così, laddove Tobi ora è in grado di riconoscere in ogni esperienza della disgrazia umana il volto di suo figlio: “Ti vedo figlio, luce dei miei occhi, benedetto sia Dio”. Nel padre non c’è più segnale di quella ribellione, ostilità, perversione, ingiustizia che abbrutisce il volto della creatura umana che non sia ormai vista da lui come una trasparenza del volto di suo figlio. Vede suo figlio in ogni disgrazia umana. “… mi ha colpito ma poi ha avuto pietà ed ecco, ora io contemplo mio figlio Tobia»”.


Le nozze di Tobia

Vv. 15-20. “Tobia entrò in casa lieto, benedicendo Dio con quanta voce aveva. Poi Tobia informò suo padre del viaggio che aveva compiuto felicemente, del denaro che aveva riportato, di Sara figlia di Raguele, che aveva presa in moglie e che stava venendo e che si trovava ormai vicina, alla porta di Ninive”. Adesso Tobia racconta quello che è successo, i fatti, gli incontri e – sintesi di tutto – lo sposalizio con Sara. Tobia parla con suo padre di tutte le notizie che vengono dal mondo, tutte le voci che passano attraverso i rumori della vicenda umana, i tempi, le sequenze, le alternanze, le pesanti e penose ripetitività della storia dell’uomo.

Intanto alle porte di Ninive è ormai giunto il corteo e la sposa si presenta. “Allora Tobi uscì verso la porta di Ninive incontro alla sposa di lui, lieto e benedicendo Dio. Quando la gente di Ninive lo vide passare e camminare con tutto il vigore di un tempo, senza che alcuno lo conducesse per mano, fu presa da meraviglia (stupore generale perché gli occhi del padre si sono aperti sulla scena del mondo: sono aperti, occhi che vedono, occhi che vedono il figlio. Nel corteo che viene, si raccolgono lungo il percorso tutte le componenti, tutte le manifestazioni e tutti i dolori e i fallimenti della storia umana); Tobi proclamava davanti a loro che Dio aveva avuto pietà di lui e che gli aveva aperto gli occhi. Tobi si avvicinò poi a Sara, la sposa di suo figlio Tobia, e la benedisse: «Sii la benvenuta, figlia! Benedetto sia il tuo Dio, perché ti ha condotta da noi, figlia! Benedetto sia tuo padre, benedetto mio figlio Tobia e benedetta tu, o figlia! Entra nella casa che è tua in buona salute e benedizione e gioia; entra, o figlia!». In quel giorno ci fu una grande festa per tutti i Giudei di Ninive e Achikar e Nadab suoi cugini vennero a congratularsi con Tobi. E si festeggiarono le nozze di Tobia con gioia per sette giorni”. La casa di Tobi è il luogo della grande festa, una festa che trova riscontro nella famosa parabola del Vangelo secondo Luca laddove la grande festa ha la rilevanza di una celebrazione nuziale. “Era morto ed è tornato in vita” ci ricorda il padre e c’è di mezzo un evento pasquale, redentivo, nuziale che implica il viaggio compiuto per intero, nella discesa e nella risalita, nella morte e nella resurrezione. E c’è una partecipazione corale di tutta la città; parenti, nipoti, cugini che (lo sappiamo per altre vie) sono passati anche loro attraverso molte disavventure.


Tobia ricompensa chi lo ha accompagnato

Cap. 12, vv. 1-5. È la terza parte del racconto. Si pone la necessità di fornire una ricompensa che premi il compagno-istruttore di Tobia nel corso del viaggio. Abbiamo a che fare con la rivelazione di Raffaele che è la figura rivelativa del disegno provvidenziale che si svolge nel corso della storia umana: è il mistero di Dio che si rivela; è Lui, il Dio vivente che è il vero accompagnatore. È così che la gloria di Dio affiora dal di dentro della nostra vicenda umana.

Quando furon terminate le feste nuziali, Tobi chiamò il figlio Tobia e gli disse: «Figlio mio, pensa a dare la ricompensa dovuta a colui che ti ha accompagnato e ad aggiungere qualcosa d'altro alla somma pattuita». Gli disse Tobia: «Padre, quanto potrò dargli come salario? Anche se gli lasciassi la metà dei beni che egli ha portati con me, io non ci perderei. Egli mi ha condotto sano e salvo, mi ha guarito la moglie, è andato a prendere per me il denaro e infine ha guarito te! Quanto posso ancora dargli come salario?» (merita un premio ingente, testimonianza di una gratitudine che tiene conto di un valore che supera le misure salariali comunque le si potesse computare). Tobi rispose: «È giusto ch'egli riceva la metà di tutti i beni che ha riportati». Fece dunque venire l'angelo e gli disse: «Prendi come tuo salario la metà di tutti i beni che tu hai portato e và in pace»”. Siamo giunti sulla soglia di quella rivelazione che abbiamo intuito e che ora viene esplicitata. È il mistero di Dio, la provvidenza gloriosa mediante la quale l’intenzione di Dio si realizza nella storia umana. Dobbiamo tener presente il valore emblematico dei nomi che nel racconto sono attribuiti ai personaggi: Azaria (il Signore aiuta) e Tobia (il Signore è buono; è la definizione del Mistero di cui siamo spettatori e nel quale siamo coinvolti, un aiuto mirato esattamente a rivelare e dimostrare con inconfondibile puntualità la Sua provvidenza misericordiosa).


L’angelo invita a ringraziare e benedire Dio

Vv. 6-7: “Allora Raffaele li chiamò tutti e due in disparte e disse loro: «Benedite Dio (tutto quel che segue ha a che fare con questo richiamo, insegnamento, compito o missione che l’angelo affida a Tobi, a Tobia e a tutti coloro che hanno a che fare con le proprie e altrui vicende insieme a quelle comuni nella storia umana. La prospettiva è ribaltata: non sono loro che sono in grado di fornire una ricompensa a lui, ma è l’angelo che spiega che il compito loro affidato è quello di benedire Dio. E questa benedizione viene orientata in due direzioni fondamentali): e proclamate davanti a tutti i viventi il bene che vi ha fatto, perché sia benedetto e celebrato il suo nome”. Attenzione al verbo “proclamare” che altrove è tradotto con “ringraziare”, “manifestare”, “rendere grazie”; è un verbo che ha tutto un retroterra biblico estremamente interessante. Possiamo cogliere qui un’indicazione che ha una rilevanza propriamente eucaristica. “Benedire Dio” per l’angelo significa imparare a ringraziare perché le opere di Dio sono rivelazione continua di un’inesauribile attenzione d’amore per tutte le creature viventi. Questo ringraziamento acquista una rilevanza pubblica. È una prima risposta all’interrogativo che abbiamo colto fin dalla prima lettura: che ci stanno a fare i credenti nel mondo, in giro, esuli e deportati, sottoposti a situazioni di disagio con tutte le amarezze di cui ci siamo resi conto? L’angelo dice: “benedite Dio” e questo significa “ringraziate Dio sempre e dappertutto, davanti a tutti i viventi; una responsabilità pubblica: “sulla scena del mondo voi ci state per questo, per ringraziare Dio”. “Fate conoscere a tutti gli uomini le opere di Dio, come è giusto, e non trascurate di ringraziarlo. È bene tener nascosto il segreto del re, ma è cosa gloriosa rivelare e manifestare le opere di Dio. Fate ciò che è bene e non vi colpirà alcun male”.

Proseguendo la lettura della Lettera man mano si viene delineando un’altra indicazione che serve ad esplicitare quella raccomandazione fondamentale. “Benedite Dio”: benedire Dio significa in primo luogo ringraziarLo sulla scena del mondo, davanti a tutti i viventi: è compito primario, responsabilità fondamentale, è un vero e proprio impegno missionario.


L’angelo si rivela

Vv. 8-15: “Buona cosa è la preghiera con il digiuno e l'elemosina con la giustizia. Meglio il poco con giustizia che la ricchezza con ingiustizia. Meglio è praticare l'elemosina che mettere da parte oro. L'elemosina salva dalla morte e purifica da ogni peccato. Coloro che fanno l'elemosina godranno lunga vita. Coloro che commettono il peccato e l'ingiustizia sono nemici della propria vita. Io vi voglio manifestare tutta la verità, senza nulla nascondervi: vi ho già insegnato che è bene nascondere il segreto del re, mentre è cosa gloriosa rivelare le opere di Dio. Sappiate dunque che, quando tu e Sara eravate in preghiera (chiedevano di morire; condizioni diverse, personaggi eterogenei accomunati da questa esperienza di disfatta ritenuta irreparabile) io presentavo l'attestato della vostra preghiera davanti alla gloria del Signore. Così anche quando tu seppellivi i morti. Quando poi tu non hai esitato ad alzarti e ad abbandonare il tuo pranzo e sei andato a curare la sepoltura di quel morto, allora io sono stato inviato per provare la tua fede, ma Dio mi ha inviato nel medesimo tempo per guarire te e Sara tua nuora. Io sono Raffaele, uno dei sette angeli che sono sempre pronti ad entrare alla presenza della maestà del Signore»”. L’angelo dice: “Io sono Raffaele, uno dei sette “angeli del volto”, gli angeli intercessori; sono i sette che raccolgono tutte le informazioni provenienti dalla storia umana e sono incaricati di mantenere il contatto con tutti gli eventi e tutti i popoli della terra; sono coloro che riferiscono, intercedono. Notate, nel v. 12, il termine “attestato”: è un termine tecnico (il “memoriale”) che ha direttamente a che fare con l’elemosina nel senso di quel modo di affrontare e gestire le relazioni alla pari, nel senso che noi siamo bisognosi di accoglienza come altri hanno bisogno di accoglienza presso di noi. Ne parlavamo a suo tempo. Qui, l’elemosina si evolve fino a configurarsi come intercessione universale davanti a Dio; come far memoria di tutto e di tutti davanti a Dio. “Per questo siamo dispersi nel mondo, spiega l’angelo: per questo siete dispersi nel mondo perché, nella relazione con tutto ciò che avviene, voi vi carichiate di una responsabilità che si esprime come intercessione davanti a Dio”. In primo luogo allora benedire Dio significa ringraziarLo sulla scenda del mondo e in secondo luogo significa fare memoria di tutto quello che avviene al mondo davanti a Lui. È la benedizione, un circuito completo: ringraziare Dio davanti ai viventi, e farsi carico nella memoria attiva, elemosinante nel senso più profondo dell’espressione. È un’elemosina condividente, comunicante; un’intercessione responsabilizzata che di tutto si rende responsabile alla presenza del Santo, il Dio vivente. L’angelo Raffaele dice a Tobi: “per questo sei stato provato, sei stato messo in difficoltà: per renderti conto che là dove hai affrontato quegli ostacoli che ti hanno messo così pesantemente a disagio, ti hanno compromesso l’esistenza e complicato la vita, sei diventato cieco; e hai trovato le medicine che guariscono. Io sono stato inviato per sottoporti alla prova ma, al tempo stesso, per guarirti. Quelle prove sono diventate l’occasione propizia per trovarti inserito in quell’unica grande vicenda dove tutte le difficoltà che affliggono la condizione umana interferiscono con il tuo vissuto e tu benedici Dio, ne fai memoria presso Dio.


L’angelo ascende a Dio

Vv. 16-22. “Allora furono riempiti di terrore tutti e due; si prostrarono con la faccia a terra ed ebbero una grande paura. Ma l'angelo disse loro: «Non temete; la pace sia con voi. Benedite Dio per tutti i secoli. Quando ero con voi, io non stavo con voi per mia iniziativa, ma per la volontà di Dio: lui dovete benedire sempre, a lui cantate inni. A voi sembrava di vedermi mangiare, ma io non mangiavo nulla: ciò che vedevate era solo apparenza (la volontà di Dio che si rivela nell’inesauribile fecondità della Sua volontà d’amore è mossa da un’intenzione buona che non ruba niente alla terra. Per questo l’angelo non mangiava). Ora benedite il Signore sulla terra e rendete grazie a Dio. Io ritorno a colui che mi ha mandato. Scrivete tutte queste cose che vi sono accadute». E salì in alto. Essi si rialzarono, ma non poterono più vederlo. Allora andavano benedicendo e celebrando Dio e lo ringraziavano per queste grandi opere, perché era loro apparso l'angelo di Dio”.

Tra cielo e terra è ormai instaurato questo rapporto di comunione indissolubile. Qui si inserisce il Cantico di Tobia che leggeremo in un’altra occasione.

È il cielo che si spalanca e la terra che è abilitata a offrire come risposta il proprio cantico di benedizione. E Cantico di benedizione non vuol dire esercizio di arte canora; vuol dire la fatica di stare al mondo senza sottrarsi ad alcuna contraddizione e senza dimenticarsi di nessuno.

Lectio divina


Incontri 2015-2016 - Lettere cattoliche


  • 03 maggio 2016
    Libro di Tobia - quarta parte
    Nella prova si cresce e si impara a vivere