03 novembre 2015
Primo incontro del ciclo 2015-2016
Gli eredi della prima evangelizzazione, quella che proviene dai primissimi discepoli, da quella prima Chiesa, il grembo fecondo da cui ha preso avvio la missione al servizio dell’Evangelo che sta dilagando nel mondo, manifestano la loro preoccupazione: è come se la novità cristiana fosse ridotta a un riferimento di ordine teologico, astratto e quindi evanescente; è diventato un vezzo, un’etichetta e la militanza che rende coerente la vita nuova nella prospettiva di un cammino di conversione, che è sempre più esigente e sempre più coinvolto nella relazione con la novità del Signore, nell’appartenenza a Lui, laddove la sua Pasqua redentiva ha segnato la svolta determinante nella storia umana, sembra svaporare riducendo la novità cristiana a una pura definizione teorica, astratta, inconcludente. E si rivolgono a coloro che provengono dal paganesimo, a cristiani che, dichiaratamente, ufficialmente, programmaticamente, condividono l’appartenenza a un unico disegno di salvezza; partecipano al cammino dello stesso discepolato, ma la ricaduta in forme di paganesimo per questi maestri della tradizione giudeo-cristiana costituisce un rischio prossimo e massimamente preoccupante. E scrivono: Giacomo, Giuda e ora Pietro con la sua seconda Lettera. Sono nomi di grandi personaggi che sono stati anche altrove celebrati come le grandi figure che, nel momento decisivo della prima evangelizzazione, danno una forma inconfondibile alla Chiesa madre di Gerusalemme. Ricordate che Paolo nella Lettera ai Galati parla delle “colonne” e si riferisce a Giacomo, a Pietro e Giovanni, l’altro autore di cui noi non ci siamo occupati che sta come figura di riferimento per quell’altra sezione di scritti che contribuiscono a comporre le sette Lettere Cattoliche; le tre Lettere di Giovanni sono una sezione imprescindibile di questa raccolta. Ma noi abbiamo preso in considerazione la Lettera di Giacomo, quella di Giuda e le due Lettere di Pietro. Lasciamo da parte la prima Lettera di Pietro, che ha caratteristiche tutte proprie, sulla quale potremo tornare in altre occasioni e proseguiamo nella lettura di quella serie di scritti con cui ci siamo già confrontati nel corso dell’anno passato e ritroviamo in pieno il clima pastorale che abbiamo percepito leggendo e rileggendo queste pagine; adesso, nel momento in cui abbiamo ormai sotto gli occhi la seconda Lettera di Pietro che è lo scritto più tardivo rispetto agli altri; forse è lo scritto più tardivo tra tutti quelli che compongono il Nuovo Testamento: siamo all’inizio del II secolo d.C.
Abbiamo a che fare con un maestro che appartiene alla tradizione giudeo-cristiana su cui ci siamo intrattenuti in tanti modi e che usa un greco molto raffinato. Già ne parlavamo mesi addietro: i tre capitoli della seconda Lettera di Pietro messi insieme, si sviluppano nell’arco di 61 versetti nei quali compaiono 56 hápax legómena, cioè 56 termini che compaiono una volta sola in tutto il Nuovo Testamento; praticamente quasi ogni versetto contiene una parola che nessun altro ha usato prima di lui e nessun altro usa nell’ambito della letteratura neo-testamentaria. E’ un greco per specialisti e dobbiamo considerare che il greco è la lingua dei pagani; lui parla, dunque, la lingua dei pagani a partire da quella radice giudeo-cristiana certamente costitutiva di un’identità che è determinante per quanto riguarda l’impegno a servizio dell’Evangelo, nella sua autenticità e radicalità e per quanto riguarda ogni responsabilità di ordine pastorale nella vita della chiesa.
Noi abbiamo letto fino alla fine del primo capitolo. Credo di avervi detto che possiamo utilmente suddividere la Lettera in tre sezioni corrispondenti ai tre capitoli dello scritto: un’indicazione pratica che ci soccorre nel momento in cui affrontiamo un testo che esige una certa attenzione e cautela man mano che ci inoltriamo nel discernimento di questi versetti.
Dopo il saluto introduttivo, la prima sezione e siamo arrivati alla fine del capitolo: un richiamo dottrinario, ma una dottrina sempre carica di tensioni, slanci, provocazioni affettive. E’ in questione quella che qui, in tanti modi e momenti, viene detta la “conoscenza del Signore”; ma la conoscenza non è riservata agli intellettuali e agli studiosi. E’ la conoscenza nel senso di un coinvolgimento vitale, affettivo; è proprio un’adesione che implica tutta la partecipazione del vissuto; non è in alcun modo riducibile a sentenze, formule dottrinarie, dichiarazioni anche se solenni che però restano esterne. E per quanto possano essere dichiarazioni pubbliche non coinvolgono necessariamente la radicalità di un impegno vitale che invece accompagna lo svolgimento di un cammino di conversione che è stato avviato, ma che ancora ha bisogno di ulteriori conferme e testimonianze, fino al martirio. E’ proprio questo invece il clima teologico e pastorale che caratterizza lo scritto che ora leggiamo e che ha una particolare sottolineatura proprio per quanto riguarda questa partecipazione affettiva, questa testimonianza che trascina tutto il vissuto in un atto di consegna, di affidamento, di coinvolgimento nella relazione d’amore con la novità del Signore, dunque con l’Evangelo che da Lui abbiamo ricevuto, perché l’autore di questa Lettera si presenta a noi come Pietro nell’atto di lasciare ai suoi un testamento: è il testamento di un morente, di qualcuno che se ne va, che finisce. Questa nota caratteristica della Seconda Lettera di Pietro certamente ci commuove; ce ne siamo già resi conto a suo tempo leggendo il capitolo primo dove l’autore si presenta a noi nei panni di un moribondo che lascia in eredità ciò che ha di più prezioso che è la sua testimonianza evangelica: il suo martirio.
Non siamo alle prese con chiarimenti di ordine dottrinario, che pure sono sempre utili e servono alla vita del popolo cristiano, ma con la necessità di accogliere l’Evangelo, aderire ad esso, porsi al suo servizio, consumarsi nella testimonianza che trasmette l’Evangelo ricevuto fino al martirio: un coinvolgimento totale, vitale, senza divagazioni superflue.
Abbiamo letto la prima sezione della Lettera: la novità della vocazione cristiana. Pietro ci ha parlato. Chiamiamo pure Pietro l’autore di questo scritto: non vuole ingannarci presentandosi a noi sotto mentite spoglie perché la maschera che assume è dichiarata pubblicamente. Non tiene ad apparire in prima persona perché non cerca pubblicità per quanto riguarda la sua identità personale, ma ci tiene invece a ribadire il valore della sua testimonianza in quanto è onestamente eredità che esso stesso ha ricevuto da parte dei primi, dei primissimi; di coloro che hanno avviato tutto il grande cammino che, adesso, di generazione in generazione si sta evolvendo sulle strade del mondo, al servizio dell’Evangelo, coinvolgendo sempre più i pagani fino agli estremi confini della terra. Sono le parole di Pietro nel momento in cui va incontro alla morte. Lascia in eredità la sua testimonianza e rievoca l’evento grandioso della Trasfigurazione del Signore: “Noi abbiamo contemplato la grandezza del Volto nel momento in cui, nella Sua risposta al Padre che lo chiamava, si è consegnato per andare incontro alla morte. Ed ecco: da quel Volto al nostro volto; dal Volto del Signore al volto di un cristiano che muore. E, di volto in volto, l’Evangelo procede lungo un itinerario che ha bisogno di parole, di gesti, di dottrine e di tutto quello che man mano si viene raccogliendo come strumento adatto allo scopo; ma è la crescita dell’Evangelo che ha bisogno di questa luminosità del volto di un martire che offre come testimonianza vittoriosa sulla morte quell’obbedienza d’amore che è sacramento vivo, efficace, fecondo di quell’evento che ha avuto luogo una volta per tutte; da dove l’obbedienza d’amore del Figlio alla voce del Padre ha fatto di lui il punto di luce da cui prende significato – e significato nuovo – lo svolgimento di tutta la storia umana. Per quanto riguarda il futuro? Noi siamo in questa prospettiva; ma anche per quanto riguarda il passato di tutto quello che man mano gli antichi avevano tentato di interpretare. Ricordate quella lampada accesa in un ambiente oscuro. “Ma adesso è venuto il giorno”, diceva Pietro e non c’è più bisogno di una lampada come al tempo degli antichi profeti: adesso spunta il sole, siamo alle prese con la luce del Volto glorioso del Signore, del Volto del Servo, del Figlio che, nella sua obbedienza d’amore, va incontro alla morte. Ed ecco, da quel Volto al volto dei discepoli e di volto in volto, di generazione in generazione, l’Evangelo cresce e crescerà in questa continuità di un’onda luminosa che passa attraverso il volto dei cristiani che muoiono in un atto d’amore.
C’è la dottrina, ma in una dimensione pastorale che fa appello a motivi di straordinaria profondità emotiva, di commozione affettiva in quanto la relazione con il Figlio di Dio nella sua carne umana è relazione che implica la sensibilità, gli affetti, tutto l’impianto della nostra vita interiore e i nostri sentimenti; e da questo sarà tutto l’apparato operativo della nostra esistenza che prenderà un’andatura coerente con la novità del Signore. La preoccupazione del maestro è che, per i cristiani provenienti dal paganesimo con cui ha a che fare e che pure sono coloro che hanno ufficialmente accolto, hanno aderito e si sono impegnati, ormai quella novità sia ridotta a una pura dichiarazione di principio. E’ come se l’incarnazione fosse ormai vanificata; l’urgenza, la potenza innovativa, l’energia creativa di quella Parola che è entrata nella storia umana e che è esplosa nell’evento pasquale non coinvolge più la vita. I cristiani sono tali perché si vanno a collocare sotto una definizione che può essere curiosa per quanto riguarda le conoscenze umane, ma che rimane astratta, teorica, ideale finché si vuole, ma inconcludente. Non c’è più militanza, non c’è la Vita nuova. Ci sono idee che tendono a diventare ideologie piuttosto pericolose. E’ come se, in realtà, questi, che pure sono cristiani – e con loro Pietro vuole intrattenere in tutti i modi una relazione positiva – fossero in difficoltà nel prendere realmente contatto con quella novità che è il Mistero di Dio così come si è rivelato attraverso il Figlio che nella carne umana ha compiuto l’evento decisivo. Tutto quello che ci riguarda nella nostra condizione terrena è tutto segnato da questa novità di cui Dio è protagonista. Da qui la necessità di ritrovare in pieno quella novità che è giunta a noi attraverso l’Evangelo – dice il maestro – e che ci parla di Dio e del mondo. Chi è veramente Dio? Qual è la straordinaria pienezza di valore, di trasfigurazione che investe le creature di questo mondo?
I falsi maestri ingannano e sfruttano
Cap. 2, vv. 1-3. Leggiamo la seconda sezione della Lettera che coincide con il 2° capitolo; il testo è un po’ faticoso; il maestro sviluppa gli elementi propriamente polemici. La lettura della Lettera di Giuda, a suo tempo, già ci ha fornito tutti gli elementi essenziali che ora quest’altro maestro, che si presenta sotto il nome di Pietro, ripropone a noi.
Tre versetti impostano lo svolgimento polemico: “Ci sono stati anche falsi profeti (nei versetti precedenti alla fine del capitolo primo faceva appello alla profezia del tempo antico. L’esperienza dei falsi profeti è nota per come sono andate le cose nella storia del popolo d’Israele, nella storia della salvezza, ma ora fa appello ai falsi profeti per dire che “non è strano che ci siano falsi maestri fra di noi”) tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di impropèri. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma la loro condanna è già da tempo all'opera e la loro rovina è in agguato”. Il maestro scende in campo e fa notare che la presenza di falsi maestri non ci può stupire ed è un fatto che deve essere registrato nella sua empirica oggettività. Ci sono falsi maestri e questo falso magistero comporta la riduzione dell’Evangelo a eresie, a prese di posizione puramente verbali; l’insistenza, l’ossessiva pretesa di ridurre l’essenziale della novità cristiana (che chiama “conoscenza del Signore”) a un puntiglio dottrinario, discriminante, esclusivo che diventa un’affermazione di principio che si impone come la lama tagliente che incide il tessuto della comunità cristiana, della vita nuova secondo l’Evangelo in maniera discriminante. “Falsi maestri che introducono eresie perniciose”: c’è di mezzo, di fatto, il rinnegamento dell’opera redentiva del Signore che li ha riscattati e, mentre la rinnegano, rivendicano il valore assoluto della loro presa di posizione ideale rifacendosi a principi di ordine dottrinario che servono a discriminare, giudicare, condannare. In questo modo quei falsi maestri esprimono un vero e proprio disprezzo nei confronti della vita cristiana secondo l’Evangelo; “per colpa loro la via della verità (la “via della verità” è la vita evangelica; non è riservata ai filosofi) sarà coperta di impropèri”: bestemmiata, disprezzata, rinnegata, tradita. D’altronde c’è di mezzo il rinnegamento dell’evento redentivo che si è realizzato nella carne umana perché ormai quello che conta è abbarbicarsi, come uno sciame di api, lì dove sembra di aver finalmente trovato il miele di cui compiacersi all’infinito, il gusto di quel conflitto di idee che diventa motivo per ingaggiare inesauribili scontri e dedicare il proprio impegno a dimostrare l’errore altrui e condannare. E’ disprezzata la vita nuova secondo l’Evangelo e la prospettiva è quella di una rovina. Il maestro usa espressioni formulate in maniera molto serena, ma sono espressioni molto energiche, pesanti. “Rovina”. E, di fatto, questa rovina incalza e, se si va oltre l’immagine esterna di una maschera autoritaria che vuole proclamare il valore delle proprie sentenze, abbiamo a che fare con personaggi che vivono in una condizione penosissima, senza pace. “…nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false”: sono degli imbroglioni. La traduzione è piuttosto blanda e benevola. Il maestro dice che sono parole predisposte proprio per fare lo “sgambetto”, per far cadere il prossimo, per ingannare e costringere gli interlocutori che sono quelli che arrancano nel cammino della vita nuova, di chiesa in chiesa, in modo tale da esercitare quel ruolo di autorità che spetta al magistero che ha come obiettivo di mostrare la miseria altrui. E’ un imbroglio, dice Pietro: “…nella loro cupidigia vi sfrutteranno, ma la loro condanna è già da tempo all'opera”. Vivono male; più li conosci e provi ad avvicinarli ad ascoltare il loro linguaggio interiore più ti accorgi che la loro rovina è in agguato”.
Dio libera
Vv. 4-8. Pietro non ci tiene a entrare direttamente in conflitto con quei tali; ha detto la sua e ci ha anche dichiarato che gli fanno pena, che sono dei disgraziati che vivono male, malissimo. E sta parlando di figure che, all’interno della comunità dei discepoli del Signore, svolgono un ruolo di riferimento; ed è preoccupato. Quello che gli preme mettere in evidenza, dal v. 4, è l’operare di Dio. Come opera Dio? C’è un lungo periodo che si sviluppa come un periodo ipotetico. All’inizio del v. 4 bisogna mettere “Se” e bisogna inserirlo fino al v. 8. Tutto quello che è scritto dal v. 4 al v. 8 si chiama protasi del periodo ipotetico (così si esprimerebbero i professori che insegnano la sintassi del periodo). Fa tre esempi di come opera Dio che prende, naturalmente, dalle scritture antiche; come avviene che Dio opera nella storia umana così da discernere l’empietà e spremerla, espellerla perché la storia umana, opportunamente filtrata dall’azione di Dio, è la storia nella quale l’opera del Signore si realizza come redenzione, liberazione, salvezza.
Primo esempio, v. 4: “Se Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell'inferno, serbandoli per il giudizio”. Gli angeli ribelli Dio li ha relegati in una prigione tenebrosa in vista del giudizio. La ribellione è stata trattata da Dio non in vista di una punizione, ma in modo tale da favorire il contesto nel quale la fedeltà degli angeli che obbediscono alla vocazione loro assegnata sia valorizzata; nell’espellere l’empietà Dio opera in maniera tale da favorire una promozione dell’intenzione positiva che Egli persegue da sempre. Non è la punizione per la punizione, mai.
Secondo esempio, v. 5: “Se non risparmiò il mondo antico (il diluvio), ma tuttavia con altri sette salvò Noè (erano 8: Noè, la moglie, tre figli e tre mogli), banditore di giustizia, mentre faceva piombare il diluvio su un mondo di empi”. Il mondo antico nella catastrofe. Dio rifiuta l’empietà e in quel contesto Noè fu l’iniziatore di un’umanità, di una storia, di un mondo nuovi: un mondo corrispondente alla giustizia di Dio che vede la giustizia degli uomini attraverso Noè.
Terzo esempio, vv. 6-7-8: “Se (bisogna sempre aggiungere il “se”) condannò alla distruzione le città di Sòdoma e Gomorra, riducendole in cenere, ponendo un esempio a quanti sarebbero vissuti empiamente. Liberò invece Lot” (Ecco il punto: Sodoma e Gomorra città incenerite, ma in quel contesto c’è la liberazione di Lot), angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto infatti, per ciò che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta per tali ignominie”. Lot viene descritto dal maestro come un uomo che vive angosciato in un ambiente inquinato, perverso, corrotto; in un mondo di criminali alle prese con il tormento che lo affligge intimamente per quello che vede e che ascolta e che non può non vedere e non ascoltare. Lot liberato in quel contesto in cui il mondo, rappresentato simbolicamente da Sodoma e Gomorra, è abitato da un’inquinità perversa, capillare, strutturale: il tormento del giusto. Ma l’opera di Dio incenerisce Sodoma e Gomorra, perché quell’esperienza del tormento del giusto è l’esperienza che si evolve come avvio di un nuovo percorso di liberazione; è un nuovo modo di stare al mondo e di interpretare lo svolgimento integrale della storia umana. C’è di mezzo la sorte di Sodoma e Gomorra, come c’è di mezzo la sorte del mondo che è alluvionato dalla pioggia torrenziale, come ci sono di mezzo anche gli angeli ribelli. E’ il modo di operare di Dio nella storia umana: affronta l’empietà in maniera tale da valorizzare quelle situazioni nuove di cui Lui stesso è il provocatore, il suscitatore, il creatore e che diventano principio di una novità che ha un’efficacia ampia, larga, capiente, universale. Gli angeli fedeli; Noè e gli altri sull’arca; Lot il tormentato dall’angoscia.
Gli empi ridotti a spettatori
Vv. 9, 10.: “Il Signore sa liberare i pii dalla prova (questa è l’opera del Signore) e serbare gli empi per il castigo nel giorno del giudizio”. Questo significa ancora una volta intervenire nella storia umana in modo tale che si apra e si allarghi quello spazio che consente agli empi – che vengono relegati al posto loro e opportunamente sconfitti – di essere costretti a far da spettatori di una novità che corrisponde, nella prospettiva finale, all’intenzione originaria del Creatore. E ci sono i pii che vengono liberati dalla prova e coinvolti in questa operosità di Dio che conferisce proprio a loro un ruolo di testimonianza che non si può confondere con la soddisfazione di escludere, di eliminare, di condannare. Tutt’altro. E’ un ruolo di testimonianza; è quel martirio riservato ai pii estratti da quel contesto nel quale sono peraltro coinvolti anche loro. Lot a Sodoma e Gomorra ci vive, ma è tormentato; è l’emblema dei pii che diventano testimoni di quella novità per cui Dio realizza un’opera di salvezza. Questa è la novità primigenia, dotata in sé e per sé di una fecondità assoluta di cui fu protagonista il Figlio. Gesù Cristo, colui che è il contestatore dell’empietà umana, è il Redentore di tutti gli empi. Nel suo essere contestatore è redentore, è salvatore e liberatore; è guaritore. La novità evangelica sta qui. Il maestro dice che la salvezza non sta nel fatto che adesso ci sono dei maestri che dicono di saperla più lunga degli altri. Questa è una soluzione ingannevole, un imbroglio, un tradimento, un rinnegamento dell’Evangelo.
Duemila anni dopo noi ancora siamo alle prese con vicende che ci pongono dinanzi agli stessi snodi di una vicenda che continua a coinvolgere il popolo cristiano nella necessità di un discernimento evangelico.
Il v. 9 dice che: “Il Signore sa liberare i pii dalla prova e serbare gli empi per il castigo nel giorno del giudizio” perché gli empi nel compimento finale del Disegno saranno coinvolti nella pienezza di un’opera redentiva che adesso passa attraverso il filtraggio di quel vissuto umano che è così sofferto, amareggiato, contrastato, piagato, ferito; ma è il vissuto umano dei discepoli del Signore che sono in grado di accogliere la bellezza, la bontà, la beatitudine dell’Evangelo perché è la conoscenza del Signore Gesù Cristo che fa di loro i testimoni in grado di evangelizzare. Così l’Evangelo è accolto e trasmesso. V. 10, “soprattutto coloro che nelle loro impure passioni vanno dietro alla carne e disprezzano il Signore”. Sta parlando degli empi e avvertiamo nell’accorato intervento del maestro il dispiacere per come la vocazione alla vita cristiana viene trascurata, banalizzata, corrotta, compromessa: vocazioni regredite. Il rischio di una ricaduta nel paganesimo è sempre attuale. E qui parla di impure passioni che vanno dietro alla carne; un ripiegamento all’interno dei quella condizione umana che vuole affermarsi come protagonista e che, in nome del suo proprio protagonismo, l’iniziativa umana vuole addirittura assumere il valore di un principio, di una verità, di un’autorità assoluti, divini. In realtà disprezzano il Signore perché il Signore non ha operato così. Disprezzano la signoria di Cristo.
Disprezzano la creazione e apprezzano l’effimero
Vv. 11,14. “Temerari, arroganti, non temono d'insultare gli esseri gloriosi decaduti, mentre gli angeli, a loro superiori per forza e potenza, non portano contro di essi alcun giudizio offensivo davanti al Signore. Ma costoro, come animali irragionevoli nati per natura a essere presi e distrutti, mentre bestemmiano quel che ignorano, saranno distrutti nella loro corruzione, subendo il castigo come salario dell'iniquità”. L’attenzione si concentra sempre più all’interno della comunità cristiana. L’empietà dei falsi maestri che, in maniera così presuntuosa, assumono la posizione di coloro che condannano “gli essere gloriosi” e sono giudici che ritengono di essere autorizzati a disprezzare “le glorie”. Che cosa vuol dire? La mia Bibbia parla degli angeli decaduti; qui, propriamente sono gli angeli, sì; ma gli angeli, nella concezione che si è sviluppata negli ultimissimi secoli della storia del popolo di Dio, presiedono alle diverse componenti, alle diverse funzioni del creato; tutte le realtà del creato sono accompagnate, nella loro funzionalità, da una mediazione angelica e tutto poi fa capo alla corte celeste dove ci sono angeli super specializzati, gli angeli della pace, che compaiono davanti all’Onnipotente. Tutto un sistema su cui ora è inutile discutere. Ci sono stati periodi in cui teologi dell’oriente discutevano sui grandi temi dell’angeologia; adesso questo forse interessa poco, ma, qui è la realtà creata che è una realtà custodita, rincalzata, governata. E “quei tali, temerari arroganti” (dice il maestro) disprezzano il mondo, disprezzano la creazione; assumono un atteggiamento imperioso, autoritario, prepotente; l’atteggiamento di coloro che condannano le creature di questo mondo, quando, dice, gli angeli che svolgono la loro missione secondo quello che è il piano originario del Creatore, a loro superiori per forza e potenza, non portano contro di essi alcun giudizio offensivo davanti al Signore”. Gli angeli non hanno mai niente da recriminare contro gli uomini; non ci sarà mai un angelo che vorrà farci lo sgambetto. L’angelo è sempre operante per promuovere la nostra vocazione di creature umane; non porta mai alcun giudizio offensivo davanti al Signore. E invece loro si permettono di giudicare e di condannare; e condannare le creature perché con gli angeli è come dire il funzionamento del mondo, l’ordine del creato e lo svolgimento della storia umana. Costoro sono “animali irragionevoli”; c’è di mezzo un testo del Libro della Sapienza e un Salmo, il Salmo 49 che citava spesso Pio: “L'uomo nella prosperità non comprende/è come gli animali che periscono”. Come stupidi animali “mentre bestemmiano quel che ignorano”, sentenziano, disprezzando il mondo (la realtà del creato e della storia umana; il vissuto umano giudicato) quando essi ignorano. Che cosa ne sanno, che cosa ne capiscono? Che cosa pretendono di giudicare con le loro sentenze? “…saranno distrutti nella loro corruzione, subendo il castigo come salario dell'iniquità”. L’unico risultato che ottengono è quello di consumarsi nella corruzione propria e che poi si diffonde in maniera contagiosa.
Adesso li guarda più da vicino questi falsi maestri che sono presenti nella comunità dei discepoli del Signore, nella comunità cristiana; e sono presenza che Pietro non sta condannando; è esattamente la pretesa di condannare che non condivide in alcun modo. Li sta svelando, sbugiardando, li sta costringendo a rendersi conto di come sono proprio loro a essere inseriti in un disegno nel quale la corrente dell’Evangelo passa attraverso la testimonianza dei miti, dei poveri, quelli che poco prima chiamava “i pii”; un termine che in italiano non è molto espressivo, ma siamo reduci dalla Festa dei Santi, abbiamo ascoltato il Vangelo delle Beatitudini e ci siamo in pieno.
Adesso li guarda in faccia. V. 13: “Essi stimano felicità il piacere d'un giorno; sono tutta sporcizia e vergogna; si dilettano dei loro inganni mentre fan festa con voi (sono i cultori della gratificazione immediata ed effimera, del successo, del prestigio, l’affermazione che si compiace del momento di splendore, ma sono “sporcizia e vergogna”; espressioni sferzanti anche se con un tono sempre pacato. E’ la metodologia dell’inganno, una convivialità superficiale, mirata ad adescare le persone instabili); han gli occhi pieni di disonesti desideri e sono insaziabili di peccato, adescano le anime instabili (quando parla di disonesti desideri parla di un approccio adulterino alle relazioni in modo tale da trarne un beneficio per il proprio successo, la propria carriera). E’ un fenomeno abbastanza rilevante negli ambienti ecclesiastici ma non solo; è rivelazione efficace, potente, travolgente di quello che avviene nella storia degli uomini che sono ancora prigionieri dell’empietà. Ma l’Evangelo è quella novità che è opera di Dio per la salvezza degli uomini e riguarda gli empi; è l’Evangelo che scardina l’empietà, che opera quello “scasso” per cui l’impianto delle cose secondo l’empietà umana viene man mano sgretolato, sbriciolato, rimesso in discussione. C’è di mezzo la testimonianza di quell’obbedienza d’amore che fa dei discepoli del Signore i testimoni che proclamano e già realizzano in sé la novità del mondo, della storia, del cuore umano. Dice: “adescano anime instabili, hanno un cuore rotto alla cupidigia”. C’è un’abilità che viene acquisita con un certo allenamento. In certi nostri ambienti sembra che tutto sia fatto apposta come una specie di palestra per imparare il mestiere. Hanno il cuore rotto alla cupidigia, un cuore disposto, educato; figli di maledizione. E’ un’avidità che viene perseguita in maniera sistematica e che va direttamente in quella direzione che ha tutte le caratteristiche di un precipizio in cui la vita si autodistrugge.
L’esempio di Balaàm
Vv. 15,16: “Abbandonata la retta via, si sono smarriti seguendo la via di Balaàm di Bosòr, che amò un salario di iniquità” (Pietro rievoca quell’episodio che conosciamo perché se ne parla anche negli scritti che abbiamo letto. Balaàm, convocato dal re di Moab, doveva maledire Israele, ma poi non lo ha fatto. Ma se leggiamo un altro testo, Balaàm si è venduto, è stato comprato; e qui viene rievocato l’episodio nel quale Balaàm, che pure è profeta autorizzato a compiere gesti di valore sacro, dimostra di essere uno sciocco che non riesce ad interpretare la realtà delle situazioni mentre l’asina su cui è montato è molto più sapiente di lui) ma fu ripreso (questa venalità, di Balaàm di cui si parla nel Libro dei Numeri, coincide con la demenza, la stupidità, l’insulsaggine) per la sua malvagità: un muto giumento, parlando con voce umana, impedì la demenza del profeta”. La demenza del profeta smarrito dietro ai suoi pensieri corrotti, prigioniero di quell’esasperazione della sua posizione personale. In nome di Dio? Questo affermare la soggettività umana come valore sacro e divino è una suprema bestemmia. E, d’altra parte, l’atteggiamento di rifiuto, di condanna, di giudizio intransigente, severo, che esclude, che maledice il mondo e tutte le realtà di questo mondo è un insulto a Dio perché Dio si è rivelato a noi proprio come colui che si prende cura di tutte le sue creature nella gratuità della sua opera d’amore per la salvezza universale.
L’insidia della mediocrità
Vv. 17, 19: “Costoro sono come fonti senz'acqua e come nuvole sospinte dal vento (sono annunciatori di un messaggio che non ha alcuna efficacia, non ha fecondità, è sterile): a loro è riserbata l'oscurità delle tenebre”. Fanno ombra invece di essere trasparenti perché la luce – la prima delle creature, il principio della nuova creazione – possa affermarsi in tutta la sua potenza, possa splendere come garanzia del mondo nuovo che ormai è stato inaugurato. Essi proiettano coni d’ombra sulla scena del mondo. “Con discorsi gonfiati e vani adescano mediante le licenziose passioni della carne coloro che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell'errore coloro che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell'errore”. Parla ancora una volta di adescamento che è rivolto a quei tali che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell’errore e sono quei cristiani evangelizzati che provengono dal paganesimo; coloro che si sono appena convertiti dal regime dell’egoismo umano che li teneva prigionieri, intrappolati in tutto quel sistema, quel regime di vita, quell’impianto della società umana, quel modo di impostare le motivazioni, discriminare, discernere le ragioni profonde, determinanti nelle scelte. E’ il mondo dell’empietà. Ebbene, questo adescamento di cui sono responsabili i falsi maestri tende a ricondurli a quei livelli di mediocrità e questo è un fenomeno che ci riguarda tutti: come la novità cristiana viene costantemente minacciata da questa eventualità, da questo rischio e anche da questa dinamica che acquista un’evidenza travolgente nelle cose di questo mondo, per cui ci si ritrova a identificare la novità cristiana con la mediocrità dell’esistenza più stupida, più banale, più pagana che mai. Il maestro, a questo riguardo, è lucidissimo; parla di una vera e propria truffa. Dicevo che la lettura di questa sezione è un po’ faticosa anche perché ci sentiamo un po’ messi in discussione per il suo modo di procedere nell’esposizione della sua esortazione.
Ma abbiamo a che fare con un moribondo che detta il suo testamento e vuole trasmettere a noi ciò che di importante, di essenziale e di decisivo è stato il motivo della sua vita: l’Evangelo deve continuare a procedere nel corso della storia umana in modo tale che, di generazione in generazione, la novità del Signore sia operante fino alla pienezza ultima e l’instaurazione del Regno.
E dice: questi tali “adescano mediante le licenziose passioni della carne coloro che si erano appena allontanati da quelli che vivono nell'errore. Promettono loro libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l'ha vinto”. C’è una promessa di libertà che invece consiste in una clamorosa ricaduta in uno stato di schiavitù che esalta il trionfo della corruzione.
Rifiuto consapevole dell’Evangelo
Vv. 20,22: “Se infatti, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore (ritorna quel termine che conosciamo bene: la conoscenza del Signore; quel coinvolgimento affettivo che ci ha legati a Lui, che ci ha introdotti nella comunione con Lui, nella partecipazione alla sua Pasqua redentiva di morte e resurrezione; un’intimità di pensieri, di affetti, dove la nostra carne è incorporata nella Sua Carne gloriosa.) e salvatore Gesù Cristo (è un’espressione forte questa). Noi, dopo aver fuggito le corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del Signore, in virtù di questa relazione che è stata instaurata, l’Evangelo l’abbiamo accolto con il battesimo che ci ha consacrati nell’adesione all’Evangelo; consacrati, sigillati, confermati in quella conoscenza del Signore che è Salvatore.
Se, dopo quello che è avvenuto “ne rimangono di nuovo invischiati e vinti, la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima”. Qui non c’è di mezzo il rifiuto professato, insegnato, ma il rifiuto di fatto nel vissuto dell’incarnazione e quindi il rifiuto di un effettivo cammino di conversione perché ormai la novità cristiana è acquisita; quella famosa etichetta che possiamo appendere al bavero della giacca. Se le cose stanno così la condizione ultima è divenuta peggiore della prima: una concezione ideologica di Dio che, in realtà, non accoglie la Sua rivelazione; un atteggiamento sentenzioso e dispregiativo nei confronti del mondo che in realtà non coglie, non interpreta, non contempla, non ammira, non discerne il valore preziosissimo di ogni creatura in quanto il mondo è di Dio. E’ una ricaduta di fatto nel paganesimo in connessione, oltretutto, con una presunzione di superiorità circa le cose di questo mondo; condizione di superiorità quando poi le cose di questo mondo vengono esasperate fino all’ossessione; “la loro ultima condizione è divenuta peggiore della prima. Meglio sarebbe stato per loro non aver conosciuto la via della giustizia, piuttosto che, dopo averla conosciuta, voltar le spalle al santo precetto che era stato loro dato. Si è verificato per essi il proverbio (una citazione dal Libro dei Proverbi):
Il cane è tornato al suo vomito
e la scrofa lavata è tornata ad avvoltolarsi nel brago”.Vedete che scena disgustosa.
Dobbiamo però cogliere questo guizzo splendido, luminosissimo, glorioso che il maestro fa brillare qui, alla fine della sua sezione polemica. Quando parla del “santo precetto” è quello che il Signore ha lasciato ai discepoli durante l’ultima cena: “Amatevi come io vi ho amato, amatevi perché io vi ho amato, amatevi in quanto io vi ho amato: questo è il mio comandamento” dice la traduzione corrente. “Questo è il mio lascito testamentario. Lascio a voi quello che è mio”. E’ quello che leggiamo nel Vangelo secondo Giovanni: Gesù consegna se stesso: “Ecco, lascio a voi; questa è l’eredità che ricevete da me; quello che c’è di mio e che rimane per voi”. Il comandamento non è un ordine autoritario, è la trasmissione generativa di quel che, attraverso l’evento di cui è protagonista, la sua Pasqua di morte e resurrezione, diventa principio di vita nuova in tutti noi che abbiamo accolto l’Evangelo; e così per quella vocazione a cui tutti gli uomini, in ogni luogo e in ogni tempo, continuano ad essere convocati e per la quale sono attesi. C’è di mezzo il tradimento dell’Evangelo che è invece l’eredità che Pietro e il maestro che ha scritto per noi queste pagine vuole trasmettere a noi come eredità preziosissima. Siamo in presenza con un cristiano che muore.
Nella terza sezione avremo direttamente a che fare con un’esplicita dichiarazione di obbedienza all’amore di Dio che viene messa a disposizione di tutti, vicini e lontani, per tutte le generazioni che verranno attraverso la consegna della vita che si spegne, si consuma, si riempie nell’abbraccio di Dio.