Incontri di discernimento e solidarietà
 
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L’Apocalisse: il Mistero Pasquale luce della storia



Secondo incontro del ciclo 2006-2007

7 novembre 2006



Vizi e virtù della Chiesa


Riprendiamo il nostro cammino leggendo i capitoli 2 e 3 dell’Apocalisse.

Ricordate, nel capitolo primo, la grande visione introduttiva. Nel giorno del Signore, mentre è in corso la celebrazione dell’Eucaristia, Giovanni “vede”. E’ il Signore Vivente, è Lui morto e risorto, è Lui che opera nella storia degli uomini mediante la missione affidata alla Chiesa. E’ in corso la celebrazione del Mistero Pasquale e Giovanni si rivolge a noi da cristiano che cerca la condivisione con altri cristiani di questa esperienza piena, matura che riguarda esattamente la partecipazione al mistero della nostra salvezza e il mistero mediante il quale Dio, rivelandosi a noi, ha realizzato il suo disegno per l’umanità intera. E’ la storia degli uomini che oramai ha assunto, in modo inconfondibile, la fisionomia di una storia di salvezza.

Su tutto si impone la signoria del Figlio che è disceso e risalito, che è vittorioso sulla morte.

Nei capitoli 2 e 3 di cui dobbiamo occuparci stasera con una certa speditezza senza perderci nei dettagli, troviamo il testo delle sette lettere inviate alle Chiese, che già sono state menzionate nel versetto 11 del capitolo primo.

L’incarico affidato a Giovanni era già segnalato in quel versetto: “Quello che vedi scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese”. Ed ecco ora il messaggio che Giovanni, in qualità di profeta, invia alle sette Chiese che sono tutte le Chiese; è la Chiesa, sempre e dappertutto. Le sette Chiese che adesso vengono interpellate sono in realtà una raffigurazione sintetica di quello che la Chiesa è, sempre e dovunque, nell’adempimento della sua missione.

Le lettere sono costruite in modo schematico: si ripetono formule che ci consentono di ricostruire puntualmente la struttura di ciascuna di esse, ma ognuna delle Chiese è interpellata con sue specifiche, inconfondibili caratteristiche .

E’ sempre il Signore vivente, proprio Lui, che si fa avanti e che, attraverso il ministero profetico affidato a Giovanni, interpella la Chiesa che a Lui appartiene, la Chiesa che è da Lui “conosciuta”. In tutte e sette le lettere, il Signore vivente dichiara puntualmente questa intimità affettiva che è espressa mediante il verbo conoscere: “Io ti conosco”. Sappiamo bene come nel linguaggio biblico questa conoscenza esprima un coinvolgimento vitale e una partecipazione affettiva. E’ la Chiesa a cui il Signore si rivolge perché è legata a Lui: è il popolo di Dio, presente nella storia degli uomini, impegnato nella testimonianza e nella evangelizzazione; e così di Chiesa in Chiesa.

La Chiesa a cui il Signore si rivolge riceve da parte del Figlio dell’uomo, che è oramai intronizzato nella gloria e che è e rimane per sempre il protagonista della storia umana, un messaggio che possiamo ricondurre a due intonazioni fondamentali: un messaggio di rimprovero per un verso, un messaggio di elogio per altro verso. Le lettere dispari – prima, terza, quinta e settima – sono caratterizzate da un’intonazione, per così dire, contestativa. Badate bene: là dove il Signore si rivolge alla sua Chiesa e la richiama, la rimprovera, è sempre per un motivo di affetto intenso; è sempre perché la Chiesa gli appartiene ed è proprio lo strumento di cui il Signore vivente si serve nel corso della storia umana per realizzare l’opera della salvezza di cui Egli è il protagonista.

In ogni caso le lettere dispari sono riconoscibili facilmente notando la presenza di un imperativo (che in greco è “metanóison”) e che qui nella nostra Bibbia è tradotto con “Ravvediti o convertiti”. La Chiesa è sollecitata a rendersi conto della necessità urgente, davvero vitale, di prendere sul serio la provocazione che esige da essa un impegno di radicale conversione. “Ravvediti!”.

Le lettere pari - seconda, quarta, sesta – sono invece caratterizzate da un’intonazione elogiativa. Il Signore vivente vuole incoraggiare ed esprimere la sua approvazione. Ci sono Chiese rimproverate ed altre Chiese elogiate. In realtà è sempre “la” Chiesa che per un verso è richiamata, per un altro verso è incoraggiata; è oggetto di contestazione da parte del suo Signore e nello stesso tempo è osservata, custodita, accompagnata da uno sguardo che è espressione di una profonda ammirazione.

Noi leggiamo adesso di seguito le sette lettere, ma seguendo quell’itinerario che vi suggerivo: dapprima le lettere dispari, poi le lettere pari.



A Efeso: hai abbandonato il primato dell’amore

Prima lettera, nel cap. 2. vv.1-7.

All’angelo della Chiesa di Efeso scrivi…”. Notate che tutte le lettere sono indirizzate all’angelo della Chiesa, l’angelo di cui già si parlava nella visione introduttiva. Ricordate: le sette Chiese raffigurate nelle sette lampade sono la Chiesa che opera nella storia degli uomini; le sette Chiese rappresentate dalle sette stelle nella mano del Signore vivente sono la Chiesa celeste, la Chiesa gloriosa, la Chiesa trionfante. E’ l’unica Chiesa militante e gloriosa. Sette candelabri, sette stelle. Le sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese, diceva il v. 20, l’ultimo versetto del capitolo primo. Gli angeli delle sette Chiese sono da intendere come quelle figure che garantiscono nella Chiesa quella pienezza di fecondità sacramentale che corrisponde alla realtà definitiva, alla realtà celeste. L’angelo della Chiesa di Efeso è la figura che possiamo assimilare a quella di quel personaggio, quel responsabile, quella figura di riferimento che è portatore di tutta la fecondità sacramentale che noi siamo abituati a chiamare il Vescovo, in un contesto in cui ancora non è chiarito come si dispongano i ruoli, come si attribuiscano alle diverse presenze nella comunità dei discepoli del Signore le competenze che verranno man mano meglio identificate, denominate, così come poi ci siamo abituati a esprimerle anche noi. Ma, tanto per intenderci, l’angelo della Chiesa è quella figura che svolge un ruolo di responsabilità e che garantisce nella Chiesa, a vantaggio della Chiesa, la pregnanza di tutto l’apparato sacramentale in riferimento alla pienezza gloriosa.

Fatto sta che è interpellata la Chiesa. E’ interpellato l’angelo perché è la Chiesa che è destinataria del messaggio che adesso viene messo per iscritto sotto forma di lettera. In questo modo le lettere che noi adesso stiamo leggendo anticipano quello che sarà lo sviluppo di tutto il libro che ha assunto fin dall’inizio un’impostazione epistolare: è il messaggio con cui il Signore vivente si rivolge alla sua Chiesa e il tramite di questa comunicazione è Giovanni, in qualità di profeta. Se Giovanni “vede” non è per una sua soddisfazione personale, è per essere coinvolto in un servizio pastorale di cui prima destinataria è la Chiesa.

All’angelo della Chiesa di Efeso scrivi: Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro”. Tutte e sette le lettere si aprono con un riferimento alla figura del Figlio dell’uomo; Colui che è morto e risorto; Lui, vivente così come Giovanni l’ha contemplato nella prima grande visione introduttiva. E’ Lui che prende posizione, è Lui che si propone in qualità di mittente, è Lui che si presenta dando risalto agli elementi che concorrono a identificare la Sua realtà di Signore glorioso. E qui, più esattamente, si presenta in quanto è Colui che tiene (meglio tradurre, in questo caso, “stringe”) le sette stelle nella sua destra “e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro”. E’ il Signore della Chiesa, di tutte le Chiese, è Colui che si muove nella Chiesa, è Colui che agisce nella Chiesa, la attraversa, vi cammina in mezzo, la tiene stretta nella sua mano destra. Così si presenta e adesso (vv. 2 e 3) dichiara la sua conoscenza. Già accennavo a questo uso del verbo “conoscere” qui nella prima lettera e poi in tutte le altre sei lettere; mediante questa dichiarazione di “conoscenza” viene attestata una comunione di vita; un’intensa, profonda, radicale, intimità d’amore.

Conosco le tue opere”. Io ti conosco. Vedete: non è la conoscenza di chi è curioso e scruta, né quella dell’intellettuale che vuole mettere a punto un certo sistema concettuale; è la conoscenza di chi si è espresso con il linguaggio di un coinvolgimento affettivo tale per cui la vita intera è implicata; tutte le relazioni vitali sono valorizzate a questo scopo.

Conosco le tue opere”. La Chiesa di Efeso è qui descritta in modo essenziale e non stentiamo affatto a renderci conto della particolare responsabilità missionaria e pastorale di cui essa è stata dotata. Efeso è capoluogo della provincia d’Asia; la sua Chiesa è Chiesa metropolitana, da cui l’evangelizzazione si è irraggiata in tutto il territorio circostante; ha svolto un ministero prezioso e fecondissimo; detiene un ruolo di riferimento per tutte le altre Chiese che le sono “suffraganee”, come diremmo noi oggi. Le compete un primato di ordine pastorale e, infatti, in questi termini viene conosciuta: “Conosco le tue opere, la tua fatica, la tua costanza, per cui non puoi sopportare i cattivi; li hai messi alla prova – quelli che si dicono apostoli e non lo sono – e li hai trovati bugiardi. Sei costante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti”. Dunque la Chiesa di Efeso è qui segnalata per la fatica e per la pazienza con cui si è dedicata all’evangelizzazione. Notate come la Chiesa di Efeso ha dimostrato di essere anche insofferente a riguardo di falsi apostoli che imperversano qua e là e compromettono tante cose ed ha dimostrato di essere capace di operare un discernimento coraggioso e fedele in modo corrispondente alla propria responsabilità pastorale: è la Chiesa madre. “Io ti conosco”. E ti conosco nell’esercizio del tuo ministero. Ti conosco nella fedeltà della tua radicale appartenenza al Signore. Però: vv. da 4 a 6, ecco alcuni rimproveri che riguardano proprio la Chiesa di Efeso, proprio in quanto è quella Chiesa che abbiamo più o meno adesso identificato. E insieme con i rimproveri le raccomandazioni. “Ho però da rimproverarti che hai abbandonato il tuo amore di prima”. Interessante: l’amore primario, l’amore di prima nel senso di quel primo amore che fu esperienza del primo incontro, della prima relazione, del primo contatto. Ma, vedete, non solo amore di prima andando indietro nel tempo, ma il “primato” dell’amore: l’amore che viene prima di tutto. E quell’amore che è primario nel senso che qualifica lo stesso primato pastorale della Chiesa. “Questo è il motivo per cui ti rimprovero, perché hai abbandonato il primato dell’amore”. E’ Chiesa primaziale quella di Efeso? Oggettivamente tale rimane, ma il Signore si rivolge alla sua Chiesa per precisare la gravità del rischio che essa sta correndo perché se venisse meno il primato dell’amore quale altro primato la Chiesa di Efeso potrebbe mai vantare? “Ti rimprovero per questo”. E incalza, aggiungendo al rimprovero subito le raccomandazioni: “Ricorda dunque da dove sei caduto, ravvediti (questo è quell’imperativo che già segnalavo precedentemente: metanóison), convertiti. Le opere di prima non sono soltanto quelle del passato, ma sono quelle relative al primato, così come è stato messo a fuoco nel versetto precedente). “Compi le opere di prima”. Notate come è accorato questo richiamo, come è affettuoso questo invito a ritornare al primato, che è il primato dell’amore. “Compi le opere di prima” e insiste: “se non ti ravvederai verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto”. E’ quasi una minaccia; ma una minaccia affettuosa, che ancora una volta conferma l’intensità patetica di una comunione nell’amore. “Se non ti ravvederai” la tua posizione di responsabilità pastorale, il tuo “candelabro” sarà rimosso dal suo posto. Tuttavia notate come, insieme ai rimproveri, subentrino ancora elementi positivi: la Chiesa di Efeso merita comunque tanta riconoscenza e qui viene segnalato un ulteriore motivo per esprimerle devota simpatia. “Tuttavia hai questo di buono, che detesti le opere dei Nicolaiti, che anch’io detesto”. Di questi Nicolaiti si parla ancora nelle lettere (non vorrei adesso che ci disperdessimo troppo). Dicendo “Nicolaiti” si intende la presenza nelle Chiese di cristiani – perché tali ufficialmente sono dichiarati e come tali vanno riconosciuti – che sono coinvolti in un macroscopico, anche se spesso mascherato, fenomeno di rinnegamento, di traviamento, di corruzione; laddove è proprio in questione il contenuto essenziale dell’Evangelo, perchè l’incarnazione del Figlio di Dio ha perso di valore, la vita cristiana si è ridotta a una pura parvenza, ad una elaborazione intellettuale od a moralismi superficiali con tutte le ambiguità spregevolissime che qui vengono rigorosamente denunciate. Ebbene, vedete, la Chiesa di Efeso a questo riguardo è rimasta coerente; non si è lasciata inquinare dalle opere dei Nicolaiti.

E, quindi, ecco il congedo della lettera: “Chi ha orecchie ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”. Il congedo di ogni lettera riproporrà questa formula, con un anticipo di quelle grandi visioni finali che incontreremo a suo tempo quando saremo giunti al termine del nostro libro, nei capitoli 21 e 22. Qui, nel congedo di ogni lettera un anticipo di quelle immagini, di quelle figure (na volta che saremo arrivati in fondo all’Apocalisse potremo renderci conto meglio di quello che adesso vi sto anticipando). Intanto leggo: “Chi ha orecchie ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio”. Ogni lettera, nel congedo, fa appello alla presenza viva dello Spirito Santo che nelle Chiese e, dall’interno della vita di coloro che sono divenuti discepoli del Signore, ripete il messaggio che il Figlio dell’uomo rivolge alla sua Chiesa. E’ Lui che parla alla Chiesa; è Lui che vuole comunicare alla Chiesa le sue raccomandazioni e i suoi elogi ed è lo Spirito di Dio che dal di dentro della Chiesa, nell’intimo della vita cristiana, ripete, riecheggia, ripropone quel messaggio che viene dal Signore vivente. “Chi ha orecchie ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”. Quel che mediante la lettera viene inviato alla Chiesa come messaggio dal suo Signore lo Spirito Santo lo accoglie e lo ripropone con il linguaggio della sua efficace pedagogia interiore.

Tutte le lettere sono rivolte alla Chiesa in modo tale da identificare il “vincitore”. Il vincitore è colui che condivide la vittoria di Cristo, è colui che è immerso nell’opera redentiva, è colui che risponde alla vocazione ricevuta, è il Mistero Pasquale che trova nella storia degli uomini un riscontro corrispondente. Il vincitore è colui che condivide la vittoria di Cristo che poi, in realtà è la prospettiva nella quale prende senso la vocazione cristiana del popolo cristiano ed è il motivo per cui è presente la Chiesa con la sua missione. Le lettere sono indirizzate alla Chiesa proprio in questa prospettiva: perché la vittoria di Cristo, che è risorto dai morti, ottenga il riscontro che si esprimerà attraverso la testimonianza del popolo cristiano; attraverso la faticosa, ma gioiosissima, avventura di ogni cristiano; attraverso la presenza paziente, feconda, sacramentalmente efficace della Chiesa nella storia dell’umanità. “Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio”. Il giardino a cui si accenna qui – il Paradiso di Dio – è il mondo intero in rapporto al quale la Chiesa svolge il suo servizio pastorale.


A Pergamo: il tuo idolo è il potere

Terza lettera, cap.2, dal vv. 12-17: “All’angelo della Chiesa di Pergamo scrivi". Pergamo è città che anticamente fu capitale di un regno famoso, nel suo particolare contesto, la sua Chiesa risente di questa fisionomia che Pergamo ha conservato nel corso delle generazioni: il tono è quello della capitale. La città è ammantata di quel vezzo tipico del protagonista che vuole imporsi e dominare e che – nel contesto storico in cui Giovanni vede e scrive – diventa un riflesso dell’immagine della potenza che domina il mondo che è il potere dell’impero romano. La Chiesa di Pergamo vive, opera, svolge il suo ministero pastorale nel clima della città segnato inconfondibilmente dalla cultura del potere, subendo anch’essa le conseguenze di tutto un modo di gestire le relazioni, di guardare il mondo, di operare sulla scena pubblica che fa puntualmente e costantemente riferimento al potere come valore assoluto considerandolo, in quanto tale, degno di culto. Ebbene alla Chiesa di Pergamo il Signore si presenta così: è Lui che ha la spada affilata a due tagli, è Lui il Signore della Parola, in forza della quale Egli interpella la Chiesa. “So, conosco, che abiti dove satana ha il suo trono” (a Pergamo). E, d’altra parte, questa Chiesa di Pergamo, come dicevo, risente di quel certo clima culturale, di quel certo assetto istituzionale e di quella devozione connaturata all’animo degli abitanti di quella città, nei confronti del potere che domina, che vince, che si impone in forza di se stesso e in forza di quel valore assoluto che è scontato attribuirgli. “So che abiti dove satana ha il suo trono, tuttavia (notate che questa Chiesa di Pergamo ha già combattuto le sue battaglie) tu tieni saldo il mio nome e non hai rinnegato la mia fede neppure al tempo in cui Antipa, il mio fedele testimone, fu messo a morte nella vostra città, dimora di satana”. Dunque, c’è stato addirittura un martire nella Chiesa di Pergamo, non si scherza. Vedete come questa Chiesa ha resistito, in riferimento al “nome” del Signore, rischiando nei termini di quella libertà che l’ha sottratta all’ossequio che la devozione corale degli abitanti rivolge al potere imperiale. Certo… “Ma (v. 14) ho da rimproverarti alcune cose: hai presso di te seguaci della dottrina di Balaàm, il quale insegnava a Balak a provocare la caduta dei figli di Israele, spingendoli a mangiare carni immolate agli idoli e ad abbandonarsi alla fornicazione”. Qui vengono rievocate pagine del Libro dei Numeri che, senza scendere troppo nei particolari, ci aiutano a comprendere come la Chiesa di Pergamo, in seguito a un certo sviluppo degli avvenimenti che sommariamente sono stati rievocati, si è abituata al compromesso con l’idolatria. Ecco, questo è il punto: si è abituata al compromesso. “Così pure hai di quelli che seguono la dottrina dei Nicolaiti” (di cui si è accennato precedentemente e che sono imparentati con quei tali che seguono la dottrina di Balaàm di cui si parla adesso). E il v. 16 aggiunge: “Ravvediti (ritorna quell’imperativo, “convertiti dunque”) altrimenti verrò presto da te e combatterò contro di loro con la spada della mia bocca”. Il richiamo alla conversione comporta, in modo così netto e rigoroso, la necessità di affidarsi alla sovranità della parola di Dio, laddove invece la Chiesa di Pergamo si è assuefatta alla tolleranza nei confronti della ideologia e della gestione delle cose nel mondo, ideologia e metodologia operativa coerenti con quella cultura del potere di cui già sappiamo. Si è abituata o comunque ha ceduto a compromessi, è quasi naturale per la Chiesa di Pergamo tollerare tutto questo, ed ecco il richiamo urgente, pressante “convertiti” perché qui si ripropone in pienezza la sovranità della parola di Dio: “l’unica sovranità a cui tu dovrai rivolgerti, prestare ossequio, a cui dovrai consacrare il tuo servizio”. E quindi il congedo: “Chi ha orecchie ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese (ritorna la solita formula). Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve”. E’ interessante come, qui, il vincitore è raffigurato mediante l’immagine di colui che gusta la manna (è un’immagine relativa all’Eucaristia) e, insieme con la partecipazione all’Eucaristia e il gusto che se ne trae, questa “pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve”. E’ il sapore nascosto dell’intimità profonda che lega la vita dei cristiani nella Chiesa alla signoria di Cristo. “Quel nome che nessuno conosce all’infuori di chi” l’ha ricevuto; quel nome per cui ci intendiamo, dice il Signore alla sua Chiesa. Ci intendiamo, io e tu, tu ed io; è quel nome per cui siamo in relazione, tu ed io e in questa pienezza di comunione che rimane segreta, che non appare, che non ha riscontri nel sistema dei poteri dominanti, ecco come la tua vita si riempie. Una vita senza potere, ma … un nome nuovo tra me e te, un nome “che nessuno conosce”, nel senso che non è utilizzabile come strumento che per imporre decisioni o per gestire gli equilibri della società civile; eppure tra me e te c’è questa intesa così profonda per cui la vita umana ne riceve un beneficio che è portatore di una consolazione inesauribile, traboccante.


A Sardi: appari ma non sei

Quinta lettera, cap. 3 vv. 1-6: “All’angelo della Chiesa di Sardi scrivi: Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle”. Adesso il Signore della Chiesa si presenta come Colui che presiede a tutte le potenze della vita carismatica. “Colui che possiede i sette spiriti di Dio”: lo Spirito; le sette stelle, vedete, la vita carismatica della Chiesa fa riferimento a Lui. Si presenta in questi termini e prosegue: “Conosco le tue opere”. La Chiesa di Sardi è presente in una città, che, per quello che ne sappiamo, è coinvolta in un processo di decadenza e questo malgrado i tentativi di recuperare e di tenere nascosti i segni di regressione. Anche la Chiesa di Sardi è citata proprio in riferimento a fenomeni del genere: una realtà segnata dal decadimento e che, tuttavia, gioca con le maschere, gioca con le apparenze.

Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto”. Ecco, vedete: il messaggio è lapidario, essenzialissimo, puntualissimo, penetrante. A Sardi, nella Chiesa, c’è l’abitudine a nascondere, sotto monumenti grandiosi, sotto scenografie sensazionali, realtà cadaveriche. “Ti si crede vivo e invece sei morto”. E adesso, secondo la struttura che ormai conosciamo, i rimproveri e le raccomandazioni: “Ravvediti” dirà nel v. 3. “Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola”. Vedete: “Ricordati”. Com’è stata meravigliosa l’avventura che hai affrontato quando hai accolto l’Evangelo, quell’Evangelo che ha cambiato la tua vita. Ricordati come hai accolto la Parola, osservala. Ravvediti, convertiti “perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te”. La Chiesa di Sardi viene così stimolata a restare coerente con quella esperienza della novità che ha destabilizzato l’impianto del suo mondo e che adesso viene preannunciata per il presente e per l’avvenire. “Verrò come un ladro”. Vedete: “ti do un appuntamento, verrò come un ladro…”. Questo per dire che tutte le messe in scena a cui anche la Chiesa di Sardi – come è normale in quell’ambiente in cui essa è inserita – si è assuefatta non servono proprio a niente. Anzi, assumono una fisionomia disgustosa, un senso di amarezza, di delusione, di sconforto: “vedi che stai per morire?”. Notate bene che anche nella Chiesa di Sardi comunque ci sono elementi positivi. Certo che ci sono, non mancano mai: v. 4: “Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti; essi mi scorteranno in vesti bianche, perché ne sono degni”. Quelli che sono rimasti coerenti nell’umiltà della loro condizione, con tutti i limiti del caso, eppure con quanta dignità! E la vera dignità non viene riscontrata nelle monumentali manifestazioni di quei giochi in maschera a cui per altra via quella Chiesa si è dedicata: è la dignità di coloro “che non hanno macchiato le loro vesti”; coloro, cioè, che non si sono lasciati prendere dai fumi di questa fantasiosa venerazione dei miraggi, peraltro disgustosa.

Ed “essi mi scorteranno in vesti bianche” dice il Signore qui e conclude: “Il vincitore sarà dunque vestito di bianche vesti, non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli”. C’è un appuntamento per il vincitore: “lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli”. Laddove il vincitore è colui che è in grado di partecipare, ormai in pienezza, al Mistero Pasquale – la vittoria di Cristo – perché è interiormente libero, non ha più da difendere apparenze che già si dissolvono di per sé in un processo di decadenza irreparabile. E questa libertà consente a quel tale, qui identificato in prospettiva come il vincitore, di essere puntuale all’appuntamento con “colui che viene”. Allora io “lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli”.


A Laodicea: la tua mediocrità è nauseante

Settima lettera, cap. 3, vv. 14-22. “All’angelo della Chiesa di Laodicea scrivi”. Laodicea era un centro molto prosperoso, un centro bancario e un centro industriale; qualcosa di analogo a quello che oggi chiameremmo “la città del benessere”, e i pochi versetti che adesso leggiamo confermano esattamente i dati che ci sono forniti dagli autori contemporanei. Ebbene: a Laodicea, una Chiesa. Si presenta il Signore in questi termini: “Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio”. Si presenta in quanto è Lui il Signore della creazione e che ha già la propria misura strutturale nel Crocefisso: “Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace”; è Colui che ha realizzato la sua testimonianza attraverso la passione, crocefissione e morte. Ed è proprio fin dall’inizio che la creazione è strutturata a misura del Crocefisso. E’ il Signore che si presenta in questi termini alla Chiesa di Laodicea e non per nulla: proprio perché la Chiesa di Laodicea vive nel contesto di un mondo nel quale l’ambiguità è divenuta dominante, l’equivoco è diventato la regola. Mi spiego. Leggiamo il v. 15: “Conosco le tue opere; tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!”. La Chiesa di Sardi, di cui ci siamo occupati precedentemente, è la Chiesa che cerca di nascondere sotto le apparenze il proprio stato di malattia: si sta consumando, si sta esaurendo, sta venendo meno, sta morendo, è decrepita… e si nasconde. La Chiesa di Laodicea, invece, gestisce una situazione di tiepidezza, così da dare per scontato che l’ambiguità sia un valore di riferimento e la mediocrità il criterio determinante per impostare ogni impegno pastorale. Nella Chiesa di Laodicea il valore di riferimento è la mediocrità. “Non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!”. Una situazione del genere è massimamente devastante e quanto di più catastrofico possa succedere alla Chiesa; ma è proprio quanto di più distruttivo e corrosivo possa manifestarsi nella storia dell’umanità. E, mentre la Chiesa di Laodicea condivide apparentemente (questa, almeno, è la realtà visibile sulla scena pubblica) la situazione di un mondo prosperoso, ecco che in realtà è proprio un travolgente fenomeno di corruzione quello che si sta esprimendo in modo tale da determinare un processo di significato esattamente catastrofico. E’ la fine del mondo, per così dire. Non per nulla il Signore si è presentato inizialmente come Colui che è Signore della creazione; la creazione strutturata in rapporto a Lui crocefisso. E adesso, vedete, a Laodicea, una Chiesa che vive in un mondo nel quale il vanto del benessere acquisito in realtà provoca fenomeni di corruzione tali per cui la creazione intera ne è devastata.

Leggiamo, v. 16: “Ma poiché sei tiepido, non sei né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”. Una pappa vomitevole, uno squallore insopportabile, un marciume schifoso: «non sei né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: “Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla”, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo». Questa tua presunta autosufficienza come è miserabile! E questa pretesa di ammantare di spiritualismo questo stato di mediocrità dominante come è schifosa. V. 18: “Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. Io (attenzione perché questo intervento così energico del Signore è determinato da una inflessibile, irrevocabile intenzione d’amore) tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo”. Vedete che questa lettera alla Chiesa di Laodicea è, ancora una volta, impostata come affermazione di una volontà d’amore che già si è manifestata e che ora cerca un riscontro, perché questa volontà d’amore è irrevocabile. “Io quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante (lo zelo è la gelosia: corrispondi a questa gelosia d’amore) e ravvediti. Torna il nostro imperativo: convertiti!.“Ecco sto alla porta e busso. Questo versetto è famosissimo: “sto alla porta e busso” (l’amore geloso del diletto nel Cantico dei Cantici: “io sto alla porta e busso”, cfr. Ct 5, 2).

Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. E’ una voce inconfondibile la sua; è la voce di colui che bussa dall’esterno, di colui che viene e insiste e insisterà incessantemente fino a che gli sarà aperta la porta e allora… allora sarà allestito il banchetto della comunione definitiva.

Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”. Alla Chiesa di Laodicea viene inviato questo messaggio come congedo della lettera. Qui c’è di mezzo nientemeno che un invito a condividere la regalità del Figlio crocefisso che è oramai vittorioso per sempre.


Torniamo indietro rapidamente a leggere le altre tre lettere, le lettere pari.


A Smirne: nella tua povertà sei ricca

Seconda lettera, cap. 2, vv. 8-11: “All’angelo della Chiesa di Smirne scrivi: Così parla il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita”. E’ Colui che è risorto una volta per tutte: morto e tornato alla vita. E’ il Signore della vita, il Primo e l’Ultimo; è Lui che si presenta così alla Chiesa di Smirne e che, adesso, dichiara, v. 9: “Conosco la tua tribolazione”. La Chiesa di Smirne subisce inconvenienti piuttosto gravi, con conseguenze assai penose: “Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – tuttavia sei ricco…”. Vedete: una povertà che è portatrice di beatitudine e, d’altra parte, questa beatitudine è fraintesa; anzi, in quel particolare contesto ambientale, è disprezzata, tanto è vero che quella povertà è oggetto di calunnia. Si fa, infatti, esplicito riferimento a un’ostilità che la Chiesa di Smirne sperimenta; possiamo ipotizzare ostacoli gravi e violenti o una vera e propria persecuzione. Non necessariamente una persecuzione cruenta (anche se fenomeni del genere a Smirne non sono mancati e non mancano nemmeno altrove) ma certamente un’opposizione che disprezza, denigra, deride, schernisce, offende: “Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – tuttavia sei ricco…”. Questa beatitudine, di cui tu fai esperienza in modo così intenso e profondo, non è compresa, nè riconosciuta e apprezzata; sei contestata proprio nell’autenticità della tua vocazione cristiana e, proprio là dove sei radicato nell’appartenenza all’Evangelo, tu urti contro l’insofferenza privata e pubblica, personale e istituzionale; non sei sopportato. “La calunnia da parte di quelli che si proclamano Giudei e non lo sono, ma appartengono alla sinagoga di satana”. E notate che qui l’opposizione principale verrebbe dai cristiani giudeizzanti, cioè da altri cristiani che però si rifanno a schemi già radicalmente inquinati (si parla di costoro anche altrove ma non ritengo opportuno scendere in alcuni dettagli). Samo nel contesto di una Chiesa in cui l’impegno a radicarsi nell’autenticità evangelica urta contro un’incomprensione micidiale, e proprio da parte di coloro che dovrebbero essere i più diretti interlocutori, i primi compagni di viaggio, i più validi collaboratori.

Non temere ciò che stai per soffrire”. Notate l’incoraggiamento. Qui non compare quell’imperativo “convertiti!” ma l’incoraggiamento sì, anche perché c’è da prevedere un peggioramento della situazione. E l’incoraggiamento non si può trasformare banalmente in una carezza, in una manata sulla spalla, in un sorrisetto un po’ melenso. “Non temere ciò che stai per soffrire” perché, vedete, dice il Signore alla Chiesa di Smirne, “vai incontro a guai peggiori di quelli che hai già sperimentato”. “Non temere… : ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere” (dunque una prospettiva più dolorosa: tribolazioni che si aggiungeranno a quelle già incontrate) per mettervi alla prova e avrete una tribolazione per dieci giorni”. Dieci giorni è un tempo prolungato, ma non completo. Dodici sarebbe completezza, dieci è un’entità significativa ma temporanea. “Sii fedele fino alla morte”. Qui, addirittura, la prospettiva di una condanna a morte; ma, indipendentemente dal fatto che qui ci sia da considerare un martirio in forma cruenta, è che può succedere proprio di andare incontro agli impegni di una vita cristiana che, mantenendosi coerente con la sua vocazione e in continuità con la sua radice evangelica, giunge fino alla morte, senza aver raccolto applausi o compiacimento, senza aver gestito successi. “Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese: il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte”.


A Tiàtira: persevera nella fedeltà al vero Messia

Quarta lettera, cap. 2, vv. 18-29. Tiàtira era un centro commerciale piuttosto prestigioso; i suoi abitanti sono segnalati anche altrove proprio per il loro dinamismo produttivo. “All’angelo della Chiesa di Tiàtira scrivi: Così parla il Figlio di Dio, Colui che ha gli occhi fiammeggianti come fuoco e i piedi simili a bronzo splendente”. Il Signore si presenta nella veste di chi presiede alla missione della Chiesa, proprio Lui che è dotato di ogni mobilità (gli occhi fiammeggianti) e di una coerenza stabile e incrollabile (“i piedi simili a bronzo splendente”). La Chiesa missionaria è interpellata adesso, considerando quel che avviene a Tiàtira, con particolari urgenze e con particolare affetto. “Conosco le tue opere, la carità, la fede, il servizio, la costanza e so che le tue ultime opere sono migliori delle prime”. A Tiàtira una Chiesa che svolge fedelmente il suo servizio, addirittura una prospettiva di crescita: “so che le tue ultime opere sono migliori delle prime”. Dunque, tanti buoni motivi per apprezzare l’attività missionaria svolta dalla Chiesa di Tiàtira che è così dinamica, generosa, intraprendente. “Conosco tutto questo”. C’è un rimprovero comunque, dal v. 20 fino al v. 23, che riguarda un fenomeno particolare, relativo a qualche figura che vuole affermarsi come detentrice di particolari prerogative misticheggianti, con sviluppi ascetici che sono sempre piuttosto contraddittori o addirittura controproducenti. E’ quanto viene descritto come fenomeno patologico che è presente anche nella Chiesa di Tiàtira, ma ben delineato, ben isolato, ben circoscritto. Andiamo al v. 24: “A voi di Tiàtira invece che non seguite questa dottrina, che non avete conosciuto le profondità di satana…”. Già, quelle che vengono chiamate “le profondità di satana”, hanno carattere dottrinario appunto (così mi esprimevo io stesso): sono forme di misticismo un po’ incontrollato; anzi, in questo caso davvero assai pericolose. Ciò che conta, invece, è che la Chiesa di Tiàtira sia coerente con la missione nellaquale già si è segnalata, per il servizio a cui si è già dedicata con tanto impegno, con tanta generosità. “A voi… non imporrò altri pesi”. Qui si tratta proprio di quel peso che noi, a nostro modo, chiameremmo l’intensità, il coraggio, la fedeltà del servizio. “Ma quello che possedete tenetelo saldo fino al mio ritorno”. E quindi il congedo: “Al vincitore che persevera sino alla fine delle mie opere,


darò autorità sopra le nazioni; (richiama il Salmo 2, vv. 8 e 9)

le pascolerà con bastone di ferro

e le frantumerà come vasi di terracotta


con la stessa autorità che a me fu data dal Padre mio e darò a lui la stella del mattino. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”.

Vedete come alla Chiesa di Tiàtira viene inviato questo messaggio in vista della stella del mattino, in vista di quella sovranità che compete al Messia; e in vista, dunque, di quella crescita ulteriore di un impegno così puntuale e capillare nel servizio che non insegue le divagazioni insulse e inquinanti ispirate a menzogneri misticismi.


A Filadelfia: sei forte perché mi ami e osservi la mia parola

Sesta lettera, cap. 3, vv. 7-13 : “All’angelo della Chiesa di Filadelfia”. (Filadelfia è un piccolo centro, ma un centro molto vivace) scrivi:

Così parla il Santo, il Verace,

Colui che ha la chiave di Davide:

quando egli apre nessuno chiude,

e quando chiude nessuno apre


Il Signore si presenta come Colui che presiede a tutta l’instaurazione del Regno messianico. E’ quanto viene, qui, ricapitolato nell’uso della chiave, la chiave di Davide (citazione di un versetto di Isaia 22, 22) per aprire e per chiudere. Colui che è l’autore di quella novità ricapitolativa di tutto nell’universo: il Regno (è il Signore che si presenta così, in quanto è morto e risorto, è Lui che instaura il Regno ed è Lui che tiene in mano la chiave). E, qui, si intravede il ministero coerente, puntuale, paziente, stabile della Chiesa a cui il Signore si rivolge per condividere quel che è suo, per confermare l’intensità di un vero rapporto d’amore. E’ interessante il fatto che la Chiesa a cui, adesso, il Signore si rivolge è quella di Filadelfia, che è certamente una chiesa minuscola, priva di quelle caratteristiche appariscenti, e qua e là, addirittura spettacolari, delle altre Chiese precedentemente considerate.

Conosco le tue opere. Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere. Una missione spalancata dinanzi alla Chiesa di Filadelfia: “una porta che nessuno può chiudere”. E per quanto tu sia così piccola – Chiesa di Filadelfia – tu sei in grado di impegnarti in un’impresa missionaria per cui non ci sono confini.

E insiste: “per quanto tu abbia poca forza, (una “mikrà dínamis”; una piccola forza, piccolissima) pure hai osservato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. (La tua piccolezza è radicata nella fedeltà della relazione con me) Ebbene, ti faccio dono di alcuni della sinagoga di satana”. Notate che adesso alla Chiesa di Filadelfia si dice espressamente quello che, con questo stesso linguaggio, non è stato detto ad alcuna altra Chiesa, ossia le viene annunciato il frutto della missione a cui si dedicherà nel senso che ci saranno coloro che si convertiranno. “Ti faccio dono di alcuni della sinagoga di satana, di quelli che si dicono Giudei, ma mentiscono perché non lo sono”. Si tratta di cristiani giudeizzanti (con cui abbiamo avuto a che fare precedentemente) bisognosi di conversione, sebbene già evangelizzati, perchè sempre condizionati da innumerevoli fenomeni di corruzione, di regressione e così via. Ma poi c’è il mondo intero, c’è il mondo dei pagani, c’è l’umanità senza confini. E quindi alla Chiesa di Filadelfia viene rivolto questo messaggio; anzi il Signore si esprime con il linguaggio dello spettatore incantato, che trae lui una consolazione indicibile per quel che avviene nella Chiesa di Filadelfia: la vera piccolezza non si ricopre di paludamenti abusivi, ed è coerente nella testimonianza dell’amore a cui appartiene. La piccolezza della Chiesa di Filadelfia è esattamente descritta così nei versetti che adesso leggiamo. Si tratta di quella Chiesa che, per esistere e per svolgere il suo ministero e la sua missione in mezzo agli uomini, non vanta altro titolo se non l’amore che riceve dal suo Signore. In questo radicarsi nell’amore sta la sua povertà, la sua fecondità.

Farò venire (i cristiani giudeizzanti) perché si prostrino ai tuoi piedi e sappiano…”. (Ecco che cosa apprezzeranno in te; ecco perché si convertiranno; ecco perché si avvicineranno a te: perché si renderanno conto che io ti ho amato. Ed ecco che cosa tu hai da offrire, da testimoniare, da presentare come motivo per evangelizzare vicini e lontani: per quanto tu sia piccolissima il mondo intero saprà…) “che io ti ho amato. Poiché hai osservato con costanza la mia parola, anch’io ti preserverò nell’ora della tentazione che sta per venire sul mondo intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra. Verrò presto. Tieni saldo quello che hai perché nessuno ti tolga la corona”.

E quindi il congedo: “Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo. Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito Santo dice alle Chiese”.

La vittoria viene descritta con l’immagine di una colonna nel tempio: la vita cristiana radicata nella comunione con il Signore, morto e risorto. Lui glorioso e questo radicamento dei cristiani nella Pasqua del Cristo. E, qui, anticipando versetti che poi ritroveremo nelle grandi visioni finali, quella presenza – della vita cristiana a cui viene assegnata la vittoria, come già sappiamo – porta inciso in sé “il nome del mio Dio” e anche il nome della sua città, la “nuova Gerusalemme”. In quella presenza, è il mistero di Dio che si esprime in tutta la sua infinita grandezza, in tutta la sua inesauribile volontà di salvezza. In quella presenza è inciso il nome della nuova Gerusalemme che è il mondo nuovo, è l’umanità intera. La presenza della vita cristiana assorbe in sé la totalità delle creature di Dio e realizza la propria missione in modo da aprirci ad una comunione inesauribile, universale che più ecumenica di così non potrebbe essere. E’ proprio la vittoria che compete alla vita cristiana in quanto è la vita di coloro che sono in comunione con Cristo, il Figlio di Dio, che è morto e che è risorto.

Ecco che cosa ci sta a fare la Chiesa: nella sua presenza sulla scena del mondo è il mistero di Dio che si rivela ed è la totalità delle creature di Dio che si viene ricapitolando all’interno di un unico disegno di comunione e di pace. La Gerusalemme che discende dal cielo, da presso il mio Dio, insieme con il mio nome nuovo che è il nome di Cristo vincitore.