L’Apocalisse: il Mistero Pasquale luce della storia
Quarto incontro del ciclo 2006-2007
6 febbraio 2007
Sono passati due mesi dall’ultimo incontro nel quale abbiamo letto i capitoli 4 e 5. Oggi ci occupiamo dei due capitoli successivi, il sesto e il settimo, e non avremo difficoltà a sintonizzarci con il filo conduttore della sequenza di visioni, che scaturiscono tutte dalla prima, fondamentale descritta nel capitolo primo: il Mistero Pasquale; il Mistero del Figlio morto e risorto, Signore della storia umana; Lui che opera attraverso la Chiesa, impegnata nella responsabilità dell’evangelizzazione. Il protagonista è Lui: il Signore vivente. Giovanni “vede” mentre è in corso la celebrazione dell’eucaristia, nel giorno di domenica. A partire da quella visione si sviluppano tutte le altre. E’ una fioritura davvero sorprendente, affascinante, commovente; e ogni petalo del bocciolo che si viene aprendo porta con sé nuove, entusiasmanti scoperte e chiarificazioni.
Nei capitoli quattro e cinque abbiamo considerato come l’Agnello sgozzato e vittorioso prenda il rotolo che è stretto nei sette sigilli ed è tenuto in mano da “Colui che siede sul trono”. E’ l’Agnello che, in qualità di protagonista della storia, è in grado di aprire i sigilli; solo Lui può interpretare per noi e può spiegare e commentare a noi quel che sta succedendo nel corso della vicenda umana. La storia, nel suo complesso, celebra la vittoria di Dio; ma per noi che siamo coinvolti nello sviluppo degli eventi, man mano che essi si vanno dispiegando nei loro contenuti, nei loro elementi, nei loro passaggi, nella successione dei tempi, nella complessità degli intrecci… per noi il rotolo è sigillato. Ricordate il pianto di Giovanni “perché non si trovava nessuno degno di aprire il libro e di leggerlo” (cap. 5, v. 4). Ed ecco che è comparso l’Agnello che, proprio Lui, adesso aprirà i sigilli uno dopo l’altro, così che noi saremo in grado di contemplare le grandi componenti della storia umana che, all’apertura di ogni sigillo, appaiono in prima evidenza. Di sigillo in sigillo, ecco di che cosa è fatta la storia umana; ecco quali sono i contenuti, gli ingredienti di ciò che sta succedendo. Quel che la storia umana pone dinanzi a noi, con tutti gli interrogativi spesso incresciosi o scandalosi che ci affliggono nell’oggi della nostra avventura personale e comune, viene interpretato dalla Pasqua dell’Agnello.
I primi quattro sigilli
La descrizione dei primi quattro sigilli (cap. 6, vv. 1-8) è caratterizzata da un ritmo particolarissimo. Anche in altre occasioni constateremo che i “settenari”, ricorrenti nell’Apocalisse, sono articolati in una prima “quaterna” e in una successiva “terna”. La quaterna ha sempre una sua configurazione rigorosa, come adesso vedremo quando l’Agnello aprirà, uno dopo l’altro, i primi quattro sigilli. Segnalo sin d’ora alla vostra attenzione che all’apertura di ciascuno di questi quattro sigilli collabora uno dei quattro “esseri viventi”, rappresentanti dell’intera creazione che invoca la “venuta” gloriosa di Colui che ritorna nella pienezza finale dei tempi. Nel contesto di questa aspirazione cosmica alla venuta messianica, l’Agnello afferma il suo protagonismo in rapporto a quello che sta avvenendo, così come noi stessi ne facciamo esperienza nell’attualità. Man mano che, adesso, compaiono le grandi componenti della storia, sullo sfondo c’è questa venuta implorata dai quattro esseri viventi. Leggiamo.
Primo sigillo. Il cavallo bianco: la parola vittoriosa di Dio
Cap. 6, vv. 1 e 2. «Quando l’Agnello sciolse il primo dei sette sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri viventi che gridava come con voce di tuono: “Vieni”. Ed ecco mi apparve un cavallo bianco e colui che lo cavalcava aveva un arco, gli fu data una corona e poi egli usci vittorioso per vincere ancora». Il primo degli esseri viventi grida “con voce di tuono”. Le invocazioni che si succederanno poi, all’apertura degli altri sigilli (“vieni”, “vieni”, “vieni”), equivalgono a rimbombi di tuono che è già scoppiato qui, fin dall’apertura del primo sigillo: è la venuta dell’Agnello, nella sua potenza gloriosa, che porta a compimento tutto della storia umana e che, al tempo stesso, apre sin d’adesso i sigilli, uno dopo l’altro. Giovanni vede un “cavallo bianco”. All’apertura dei primi quattro sigilli compaiono quattro cavalli di diverso colore, montati da personaggi che assumono caratteristiche originalissime. Cavalli e cavalieri richiamano le visioni di Zaccaria (cfr. Zc. 1, 8-12; 6, 1-6). Il fatto, poi, che i cavalli siano di differente colore conferma come il cromatismo sia un elemento simbolico di cui il nostro Giovanni si serve, nel riferirci le sue visioni, in obbedienza alla sua sensibilità e intuizioni teologica. Il bianco è il colore della vittoria e, infatti, il cavaliere che monta il cavallo bianco è “vittorioso” e “vince ancora”: va di vittoria in vittoria. Anche la “corona” di cui, insieme all’arco, è dotato conferma questa sua peculiare prerogativa. Tutto lascia intendere che questo cavaliere, nel contesto storico in cui vive Giovanni nel corso del I secolo, raffiguri la potenza vittoriosa per eccellenza: la grande novità che, da qualche tempo, è notata sul confine orientale dell’impero romano, ossia la comparsa della cavalleria che consente ai cavalieri che montano sul cavallo di tirare con l’arco. Ciò dipende dal fatto che i parti hanno inventato la staffa che, dando stabilità al cavaliere, gli consente l’uso dell’arco rimanendo in sella. Prima di questa invenzione, il cavaliere era in condizione di debolezza, poteva servire per operazioni marginali (occasionali inseguimenti, diversivi); la cavalleria non rappresentava un fattore decisivo in battaglia, a meno che non fosse cavalleria “corazzata”, cioè dotata di carri da guerra. Adesso, invece, c’è un fatto nuovo, sensazionale, che viene da oriente, testimonianza di un’invenzione genialissima che renderà invincibile la cavalleria dei parti. Questo fatto nuovo, nei secoli successivi, determinerà tutta un’evoluzione di ordine non solo militare ma anche culturale: pensate alla possibilità per il cavaliere di indossare la corazza e il ruolo della cavalleria nella cultura medioevale; tutto dipende dall’invenzione della staffa. L’hanno inventata i parti. E questo cavaliere, che qui vediamo sul cavallo, tiene in mano l’arco. Per tirare con l’arco, deve poter puntare i piedi. Per piantare i piedi dovrebbe scendere da cavallo e… invece sta a cavallo e, stando a cavallo, vince e “vince ancora”. Giovanni rielaborerà questa immagine nel corso delle sue visioni. Ma che cosa rappresenta il cavallo bianco e il cavaliere che lo monta? Tralascio le discussioni, i dubbi, i rimandi, le approssimazioni e le incertezze degli studiosi. Preferisco prendere una piega e seguire con determinazione il filo conduttore che ci dovrebbe condurre fino alla fine del nostro lavoro. Ebbene: il cavallo bianco, come il suo cavaliere, sta a rappresentare la Parola di Dio che è componente intrinseca della storia. Quindi, non semplicemente la Parola di Dio in quanto è creatrice (questo è ovvio), o che si è manifestata a noi attraverso l’incarnazione del Figlio, o che viene incontro a noi nella parusia definitiva del Signore glorioso, ma, in questo caso, in quanto presenza che si muove, che corre, che si agita, che opera come essenziale fattore della storia. Notate bene: primo sigillo, prima grande componente della storia umana è – non c’è da dubitarne – la Parola di Dio. Poi tutto il resto; poi tutto quello che sta avvenendo; poi tutto quello che bisognerà aggiungere: complicazioni qua e là travolgenti, contraddizioni insolubili, per quel che appare a noi…, ma nella storia in corso la Parola di Dio è presente come il cavaliere che corre per vincere e vincere ancora. Tutto ciò noi possiamo constatare, contemplare e mettere a fuoco perché è l’Agnello che apre il sigillo ed è l’Agnello che ci spiega.
Secondo sigillo. Il cavallo rosso fuoco: la violenza
Vv. 3 e 4: «Quando l’Agnello aprì il secondo sigillo, udii il secondo essere vivente che gridava: “Vieni”. Allora uscì un altro cavallo, rosso fuoco. A colui che lo cavalcava fu dato di togliere la pace dalla terra perché si sgozzassero a vicenda e gli fu consegnata una grande spada». Si ripete lo schema usato per il primo sigillo (questo schematismo quaternario ritornerà, poi, anche in altri casi, come constateremo a suo tempo). L’Agnello ha aperto il secondo sigillo, ed ecco interviene il secondo essere vivente che, nell’eco di quel rimbombo di tuono che abbiamo già udito, grida “Vieni”: è la creazione che implora la venuta finale; ma, qui, noi siamo alle prese con la realtà che ci coinvolge nell’attualità della nostra storia. Il cavallo rosso fuoco rappresenta la violenza di cui facciamo esperienza nella nostra vicenda umana: né è una componente. Il cavaliere, dotato di una “grande spada”, toglie la pace dalla terra, la elimina, e favorisce quella contraddizione vicendevole per cui gli uomini si sgozzano l’uno con l’altro. Un particolare importantissimo: il cavaliere “ha ricevuto” il potere di togliere la pace dalla terra. Notate questo verbo; è un aoristo passivo: gli “fu dato”. Significa che, in ogni caso, il cavaliere opera la violenza in una posizione di obbedienza. Quest’aspetto è essenziale. Nel linguaggio biblico è un dato ricorrente; qui, nell’Apocalisse, Giovanni usa formule linguistiche del genere in molte occasioni. Ciò non significa, naturalmente, che Dio autorizzi, approvi o benedica l’operatore di violenza ma che, laddove la violenza è scatenata, costui sottostà a un disegno che contiene anche la violenza, in obbedienza a Dio e all’Agnello. Si tratta della violenza nello scatenarsi delle passioni che suggeriscono agli uomini, come soluzione valida per gestire la storia in corso, lo sgozzamento vicendevole.
Terzo sigillo. Il cavallo nero: la fame
Vv. 5 e 6: «Quando l’Agnello aprì il terzo sigillo, udii il terzo essere vivente che gridava: “Vieni”. Ed ecco, mi apparve un cavallo nero e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano. E udii gridare una voce in mezzo ai quattro esseri viventi: “Una misura di grano per un danaro e tre misure d’orzo per un danaro! Olio e vino non siano sprecati (sarebbe meglio tradurre: “Olio e vino, nemmeno toccarli”)». Attraverso questa immagine, Giovanni mette in evidenza la realtà della fame. Per essere esatti, non solo la fame, ma la paura della fame. Il cavaliere che monta il cavallo nero porta in mano una bilancia: si tratta di registrare la quantità delle provviste e di affrontare i tempi di carestia, sia quando essa è effettivamente in atto, sia quando essa è incombente. Una minaccia dalla quale ci si sente costantemente condizionati, ed ecco che risuona la voce che grida i prezzi che sono praticati al mercato: prezzi esorbitanti; e non si può attingere alla riserva dell’olio e del vino (“nemmeno toccarli”), perché chissà a quali rischi andremmo incontro! La creazione intera stride, si agita, è in tumulto; gli animi sono afferrati da questa morsa spaventosa della fame in atto o temuta; l’angoscia del risparmio, che impone un regime di austerità fino a determinare un’economia di strozzinaggio. La fame attanaglia i cuori e disorienta i sogni della vita umana.
Quarto sigillo. Il cavallo verdastro: malattia e morte
Vv. 7 e 8: «Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: “Vieni”…». Il coro di voci continua ad espandersi, acquista un’intensità sempre più sinfonica; è la creazione intera che attende la venuta ed è l’Agnello che ci spiega quel che sta succedendo; tutto fa riferimento a Lui, alla sua Pasqua di morte e di resurrezione. “Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro…”. Io tradurrei con “grigiastro”: verde e grigio sono dotati di innumerevoli sfumature; sono i colori che, per eccellenza, hanno possibilità di tonalità le più delicate e varie. “Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno…”. Si allude non esattamente alla morte, ma alla malattia che, del resto, è sempre premonizione di morte. A questo cavaliere “veniva dietro l’Inferno”: tutto uno strascico di conseguenze dolorose, di squilibri fisici e psichici; uno stato di pallore; la fisionomia emaciata; lo sfinimento delle forze; e poi, dalla malattia, il contagio e l’infezione che dilaga e… la peste. Questo cavaliere si tira dietro l’Inferno, uno strascico infernale: è la malattia che lascia di sé una traccia pestilenziale, non soltanto negli effetti empirici più o meno gravi, a seconda dei casi, ma per quella vertigine che suscita nell’animo umano che si trova esposto fino all’affaccio sull’orlo di un precipizio terrificante, il precipizio da cui non c’è più ritorno. La storia umana è fatta di malattia, dice l’Agnello all’apertura del quarto sigillo. E lo dice l’Agnello perché, nella nostra esperienza di uomini alle prese con l’attualità della storia, la malattia fa riferimento a Lui, all’Agnello. E’ Lui l’interprete che ci spiega queste cose. Lui e solo Lui può parlar con noi in modo tale da attirare a sé gli elementi di questo quadro che si viene, man mano, componendo e che sempre e dappertutto è interpretato della sua Pasqua di morte e risurrezione. Quarto cavaliere: la malattia, con tutte le conseguenze; monta il cavallo “grigiastro”, colore che evoca la lividezza di chi, non ancora cadavere, è prossimo a diventarlo.
Le componenti della storia sono soggette al disegno di Dio
Il versetto 8 prosegue così: “Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra”. In questa seconda metà del v. 8 viene ricapitolato l’elenco dei primi quattro sigilli. In realtà, possiamo constatare che il primo sigillo sta per conto suo: il cavaliere che monta il cavallo bianco, la Parola di Dio. Poi gli altri tre, che vengono qui richiamati: la spada, la fame e la peste. E, dunque, è proprio vero che quel primo sigillo ha un suo significato emergente, che si impone come fondamento e presenza che dilaga in tutte le direzioni, incrociando tutti i percorsi e raccogliendo tutti i frammenti dell’esperienza umana, anche quelli più dispersi. Poi gli altri cavalieri che montano i cavalli rosso, nero e grigio: la spada, la violenza; la fame, con tutte le paure che essa provoca come minaccia ricorrente; la peste, come strascico della malattia divenuta ormai cronica e inguaribile. Al seguito di queste code che i cavalli in corsa trascinano dietro di sé, compaiono le fiere della terra, le belve: raffigurano il disordine ambientale, il dissesto cosmico e, corrispondentemente, lo squilibrio antropologico, la confusione degli animi, l’inquinamento delle coscienze. E’ il polverone che i cavalli sollevano mentre, in corsa, attraversano la scena della storia; quelle presenze che ti ritrovi in ogni luogo e in ogni momento: le belve della terra, scatenate.
Notate bene che queste prime quattro componenti della storia umana (ma, qui, nel v. 8, l’attenzione si è concentrata sulla seconda, sulla terza e sulla quarta) sono circoscritte entro limiti ben precisi, come è reso palese dall’espressione: “Fu dato loro potere”, che è la stessa usata precedentemente, nel v. 4, in riferimento al secondo sigillo. Malattia, fame, violenza sottostanno tutte alla libertà di Dio, che esercita la sua potestà sovrana in modo inequivocabile. Queste forze, con le quali dobbiamo imparare a fare i conti, sono delimitate entro uno spazio circoscritto, con un’efficacia che è “ritagliata”; non sono tali da incutere sgomento, come se tutto, oramai, dipendesse da esse. Queste realtà sono componenti della nostra storia, ma ben delimitate: il loro potere è “sopra la quarta parte della terra”. Un potere, quindi, non indiscriminato; non un potere che invade tutto e tutti, che occupa gli spazi e gestisce l’evoluzione dei tempi. Niente affatto: queste cose ci sono e bisogna che impariamo a decifrarne la fisionomia, ma il potere che esse sono in grado di esercitare è limitato e sottostanno all’iniziativa di Dio e dell’Agnello. E’ Lui – non dimenticatelo mai, e io non mi stanco di ripeterlo – che si impone come protagonista ed è l’Agnello il solo capace di interpretare per noi, in forza della sua Pasqua di morte e di risurrezione, qual è la realtà delle nostre cose, delle nostre situazioni, delle nostre vicende e, quindi, dei nostri dolori, dei nostri drammi, di come la nostra storia è sconvolta dalla violenza, dalla fame e dalla malattia. E’ l’Agnello che ce lo spiega
I sigilli successivi alla prima quaterna
Dopo la prima quaterna seguono gli altri tre sigilli. Adesso il testo non è più costruito secondo lo schema che abbiamo visto in riferimento ai primi quattro sigilli. Le pagine dedicate ai sigilli successivi assumono un’ampiezza via via crescente: il quinto sigillo va dal v. 9 al v. 11; il sesto, dal v. 12 del cap. 6 fino all’intero cap. 7; con il settimo sigillo… arriveremo alla fine dell’Apocalisse: tutto il seguito dell’Apocalisse sta dentro l’apertura del settimo sigillo (ma di questo parleremo a suo tempo).
Quinto sigillo. Il dolore innocente
V. 9: ”Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano resa”. Notate: “sotto l’altare”, cioè il posto dove, secondo le consuetudini liturgiche, viene versato il sangue delle vittime. Qui si tratta della vita umana che è stata immolata: “le anime” sono le vite di coloro che furono sacrificati a causa della testimonianza della loro fede in Dio. Per dirla ancora più esattamente, qui noi abbiamo a che fare con il dolore innocente, che ci viene presentato come componente della storia umana. Non si allude tanto alle varie forme di sofferenza che pure, per altro verso, possono essere ricompresse nel “dolore innocente”; quello dei bambini o quello delle persone mentalmente irresponsabili; né si vuol dire che ci sono uomini senza peccato (questo è un altro discorso che adesso non è in questione). Qui il “dolore innocente” è da intendere nel senso di quegli scompensi, che sono inspiegabili nella nostra comune esperienza umana, tra la colpa e la pena; quelle situazioni nelle quali non si riesce a comprendere quale connessione ci sia tra la colpa e la conseguenza dolorosa che da essa consegue. La problematica è davvero universale: non si capisce perché alla mia colpa non debba far seguito una pena che ricada su di me; invece la pena ricade su altri o viceversa: io mi trovo coinvolto in un complesso di conseguenze penosissime che dipendono dalla colpa di chissà chi, chissà dove, chissà quando. Uno scompenso generale dovuto al fatto che tra colpa e pena registriamo uno scarto, una divaricazione, una contraddizione che diventano insopportabili e… il dolore non si spiega. Emerge esattamente la quarta componente della storia umana che, adesso, assume anche una sua particolare intensità sonora: “grida”. Notate lo specifico richiamo “a coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso”. C’è, quindi, un evidente riferimento al martirio nel senso più ampio del termine, che ci rimanda a quel “dolore innocente” cui accennavo poco fa: il martirio di coloro che non si spiegano il perché del dolore. Coloro che, pure, hanno intrapreso il cammino della loro vita, impegnandosi e mettendosi a disposizione, in obbedienza a una vocazione o a quella che hanno ritenuto la “loro” vocazione, dono di Dio: nel contesto di questo loro impegno di vita, che possiamo ritenere testimonianza sincera e generosa, essi sperimentano l’incomprensibile catastrofe di un riscontro che subiscono come “dolore innocente”. Giovanni fa riferimento, in qualche modo, ai casi di martirio presenti nell’Antico Testamento. Ma io ho proprio l’impressione che, qui, Giovanni abbia dinanzi a sé il martirio di tutte le coscienze offese. La prospettiva è amplissima. In particolare c’è, poi, quella ferita – così amara per l’animo degli uomini che pure vorrebbero, in qualche maniera, orientarsi verso la luce e costruire nel positivo il loro cammino di vita – che consiste nello scandalo per il dolore innocente. Questa è una componente della storia; e ce ne parla l’Agnello. Il discorso è impostato in termini d’assalto: quella che per noi, spesso, è un’obiezione, qui è esattamente il discorso con cui l’Agnello ci viene incontro, dicendoci: “queste sono cose che vi spiego io”. Ma non solo. Andiamo avanti.
La supplica dei martiri
V. 10: “E gridarono a gran voce…”. Quelle vite, versate come il sangue sotto l’altare, gridano. Nel silenzio della storia, adesso risuona il loro grido perché l’Agnello ha aperto il sigillo. E’ l’Agnello che dà voce a questo urlo; è l’Agnello che coglie e riecheggia questo grido. Là dove la storia copre il sangue versato e zittisce la voce del dolore innocente, è l’Agnello che invece esaspera i dati: «Gridarono a gran voce:
“Fino a quando, Sovrano,
tu che sei santo e verace,
non farai giustizia
e non vendicherai il nostro sangue
sopra gli abitanti della terra?”»
“Fino a quando andremo avanti in questo modo!”: c’è una nota di protesta in questo grido; certo. D’altra parte, coloro che gridano – e sono tutti quelli che, in qualche modo, abbiamo riconosciuto come quelle vite, quel sangue versato sotto l’altare – non lo fanno per esigere giustizia in vista di una loro soddisfazione personale. Con il loro grido rivendicano le ragioni della storia umana. “Fino a quando… tu… non farai giustizia?”, non per me, ma perché il sangue innocente è raccolto da te, laddove “gli abitanti della terra” – coloro che occupano abusivamente la scena del mondo – vorrebbero cancellarlo.
In Gesù, fratelli vittoriosi
V. 11: “Allora venne data a ciascuno di essi una veste candida e fu detto loro di pazientare ancora un poco, finchè fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro”. Dunque, per coloro il cui sangue è versato, nel modo che sappiamo, un’insegna di vittoria: “Vesti candide”. Una vittoria già realizzata, sebbene ci sia “ancora da pazientare”; si tratta di lasciare le cose in sospeso, ma la vittoria è ormai acquisita. E, intanto, altri devono aggiungersi; ci sono altri che devono essere coinvolti per questo stesso servizio: “compagni”, anzi “fratelli”, che debbono essere anch’essi uccisi. Qui si delinea l’immagine di una famiglia che si viene componendo e articolando: il riconoscimento tra fratelli è realizzato proprio mediante quella scoperta di consanguineità tra “coloro il cui sangue è stato versato”. E’ la famiglia umana, che si sta esprimendo in tutta la sua universale fecondità: la fraternità fa di ogni persona umana segnata dal dolore innocente una creatura che scopre in Gesù il consanguineo della sua vita.
Sesto sigillo. L’angoscia dell’uomo in fuga, nel giorno dell’ira del Signore.
Vv. 12-14: “Quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come quando un fico, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i fichi immaturi. Il cielo si ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto”. Fenomeni cosmici accompagnati, come sempre accade in caso di terremoto, a riscontri antropologici: come è scossa la terra, e la visibilità empirica delle realtà fisiche intorno a noi è compromessa, diventa oscillante, vacilla in modo incontrollabile, allo stesso modo è scosso l’animo umano. In caso di terremoto gli uomini smarriscono le misure alle quali erano abituati per il calcolo dei tempi e per la delimitazione degli ambienti: non si capisce più niente; lo smarrimento è generale. Il terremoto non è fuori, è dentro: sono sconvolti gli equilibri interiori. In rapporto al sole, alla luna, al cielo, la scena del mondo appare improvvisamente indecifrabile, irriconoscibile: le stagioni non sono più quelle di una volta; i fichi cadono quando non dovrebbero, perdendosi inutilmente; il cielo sembra dileguarsi come un turbine di nuvole che appartengono ad un altro disegno, ad un altro mondo, a un’altra storia; e per noi, che invece siamo in questo mondo e in questa storia, è come se non fosse più possibile trovare un posto. “I monti e le isole furono smossi dal loro posto…”. Non c’è più un posto al mondo per me, per noi… c’è il terremoto. Ma, vedete: c’è il terremoto quando al mondo non c’è più posto per me, per noi. Non soltanto siccome c’è il terremoto non c’è più posto al mondo; il fatto è che proprio perché non so più dove stare al mondo… è in corso il terremoto.
Vv. 15,16,17. E’ quel che Giovanni ci vuol dire in riferimento all’apertura del sesto sigillo: «Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: “Cadete su di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il gran giorno della loro ira, e che vi può resistere?”». Per dirla in termini essenziali, all’apertura del sesto sigillo si scatena l’angoscia, come ulteriore componente della storia umana che è in corso di svolgimento. Ormai i ruoli sociali sono stati svuotati dal loro valore: ricchi e potenti, schiavi e liberi, tutti appiattiti allo stesso livello di sgomento, di insofferenza, di disagio. Tutti si nascondono, cercano riparo; tutti cercano “altrove” una soluzione che non trovano e … non troveranno. “E dicevano ai monti e alle rupi: cadete sopra di noi e nascondeteci”: citazione del profeta Osea, richiamata anche nel Vangelo di Luca, nel contesto della Passione, (cfr. Os. 10, 8; Lc. 23, 30). Poi l’interrogativo conclusivo. Mentre tutti cercano il modo per nascondersi, per fuggire, per trovare finalmente un riparo che possa liberare dalla morsa sempre più soffocante dell’angoscia, in questa affannosa, inutile corsa, un interrogativo: “ma chi può resistere?”. E’ l’esperienza dell’angoscia che coincide con il sentimento di un disastro irreparabile. Siamo alle prese con un complesso di fenomeni sismici e di eventi che sconvolgono la scena del mondo e, al tempo stesso, l’animo umano. Per essi non c’è rimedio. E’ questa percezione del disastro irrimediabile che genera l’angoscia. Anche in questo caso la problematica è universale: l’esperienza dell’angoscia, che viene qui esplicitata in rapporto a Colui che siede sul trono e alla collera dell’Agnello. “E’ venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?”. L’esperienza dell’angoscia fa tutt’uno con la convinzione – poco importa se pienamente ragionata, argomentata, motivata – che è in sé ineccepibile; non c’è da discutere; è così e basta: la certezza di trovarsi, dinanzi agli eventi che sono in corso, carichi di un bagaglio schiacciante, stretti in una morsa da cui non è possibile sfuggire; sentirsi coinvolti in una situazione che non è giustificabile. Questa percezione di essere irrimediabilmente ingiustificabili… non è sopportabile. Questo ruolo di interlocutore rispetto a Colui che sta sul trono e rispetto all’Agnello non è sostenibile. Il fatto di non aver volto per presentarmi; di non essere in grado di sostenere questa figura; di sapere che non è nemmeno lontanamente concepibile accampare diritti alla presenza di Colui che siede sul trono e dell’Agnello, tutto ciò viene esplicitato con questo riferimento alla collera. Una collera dinanzi alla quale non c’è giustificazione per me, per noi. E quindi, tutti in fuga: da Dio, dal terremoto, da se stessi. In fuga da questa percezione di come sia irrimediabile la nostra condizione umana; di come sia impossibile imbellettarla, giustificarla, positivizzarla; di come essa sia risucchiata dentro a un terremoto di infamie, di miserie, di dolori, di sconfitte. La collera dell’Agnello. E, vedete: “Chi vi può resistere?”. Intanto, però, Dio avanza. Là dove gli uomini, nella loro angoscia scatenata, sono in fuga… Dio avanza. Questa è una storia antichissima; la troviamo sin dall’inizio, nel giardino (Genesi, cap. 3). E’ sempre “quella” storia: l’uomo che si nasconde, che scappa, che si ritira; che cerca di rifarsi la faccia, di rimpannucciarsi; e ci fa sempre una figura tragica… il Signore Dio avanza.
C’è chi resiste
Adesso, nel cap. 7, veniamo a sapere che c’è qualcuno che resiste. Ciò che leggiamo ora si inserisce nell’eco di quanto è avvenuto all’apertura del sesto sigillo: il terremoto, gli sconvolgimenti, l’angoscia…; “Chi può resistere?... Vidi”. La scena davanti alla quale Giovanni si è affacciato, adesso, è segnata dalla presenza di qualcuno che non fugge e che non si nasconde più; qualcuno che non cerca più giustificazioni fallaci, menzognere, insulse che sono, a loro volta, motivo di angoscia crescente e sempre più irreparabile. C’è qualcuno che avanza: in termini essenziali, è il popolo dei credenti. La visione si sviluppa in due momenti: dal v. 1 al v. 8, è il popolo dei credenti nella sua tappa di itineranza all’interno della storia, quello che noi chiameremmo il popolo “militante”; dal v. 9 al v. 17, è il popolo dei credenti nell’approdo glorioso, il popolo “trionfante” che è già introdotto nella gloria del Dio vivente e nella comunione con l’Agnello.
Un popolo in cammino: avanza
Cap. 7, vv. 1-8: “Dopo di ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti, perché non soffiassero sulla terra, né sul mare, né su alcuna pianta…”. Dunque, una situazione di precarietà generale: basta che gli angeli lascino andare il lembo di questa specie di tendone che tengono, ciascuno di loro per uno dei quattro capi, ed ecco che il turbine dei venti irromperà e spazzerà via tutto. Una precarietà clamorosa che, del resto, corrisponde a quello stato di angoscia in cui vivono gli uomini, descritto precedentemente. Il mondo, in sé e per sé, è indifendibile. La vita umana, in sé e per sé, è segnata da una precarietà che è radicale, da una fragilità per cui non c’è medicina o rimedio.
«Vidi poi un altro angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente (attenti a questo sigillo). E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: “Non devastare né la terra, né il mare, né le piante, finchè non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi”». Il disastro è sospeso. La precarietà permane, ma resta in sospeso, perché nel frattempo – spiega l’angelo – “io debbo assolvere la missione che mi è stata affidata: quella di imprimere il sigillo che porto in mano”. Questa sigillatura è il battesimo dei cristiani. Il segno conferito al popolo dei credenti nel corso della storia, mentre è alle prese con l’impegno del grande viaggio, nella sua itineranza, di deserto in deserto, di tappa in tappa, di epoca in epoca, di generazione in generazione. “Il sigillo”: un richiamo alle pagine in cui il profeta Ezechiele parla, nelle sue visioni, di un particolare segno di riconoscimento impresso sulla fronte di coloro che a Gerusalemme stavano soffrendo il dolore innocente. Il tau di Ezechiele (Ez. 9, 4), premonizione del segno della croce.
Giovanni adesso ci parla di questo popolo, rifacendosi al Libro dei Numeri, là dove il popolo che deve attraversare il deserto, dopo l’alleanza presso il Sinai, viene censito (Nm. 1, 20-43). Un popolo di accampati. E’ il popolo dei credenti nel tempo dell’itineranza, della militanza, della traversata, di accampamento in accampamento. “Poi vidi il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli di Israele: dalla tribù di Giuda dodicimila…” e così via, fino alla tribù di Beniamino. Tutto viene configurato in modo da rievocare, senza possibilità di confusione, le prime pagine del Libro dei Numeri e quel capitolo, così istruttivo per noi, della storia della salvezza che fu la traversata del deserto. La marcia viene organizzata. E’ un popolo in cammino che non fugge. Avanza. E questa presenza incrocia la storia degli uomini a tutti i livelli, in tutte le dimensioni, in tutti i passaggi, gli snodi, gli anfratti. Là dove il fuggi fuggi è generale, l’angoscia è dilagante e – possiamo ben dirlo – universale, perché anche i credenti non sono estranei a quel fenomeno, ebbene: il popolo messianico, il popolo composto da coloro che sono stati battezzati nella comunione con l’Agnello per morire e risorgere con Lui, questo popolo è in cammino. Avanza.
Giovanni “vede”.
Il trionfo dei santi: l’Agnello è il loro pastore.
Adesso è ancora il popolo dei credenti ma – come già vi segnalavo – nella sua fisionomia gloriosa. Noi, infatti, parliamo di Chiesa “militante” e di Chiesa “trionfante”. Badate bene: non si tratta di due chiese; è l’unica Chiesa. Del resto, sin dalla visione introduttiva, Giovanni ci ha illustrato questo doppio volto di un’unica realtà.
Vv. 9-17: “Dopo ciò apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua…”. Vedete: per quanto riguarda il popolo itinerante, che va da accampamento in accampamento, abbiamo a che fare con l’ordine necessario affinché la marcia si svolga nel modo opportuno e, quindi: il censimento; i segnali di riconoscimento, il tracciato da percorrere… e così via. Ma, adesso, «una moltitudine immensa…. (E) tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello (sono coloro che hanno portato a termine il viaggio, raggiungendo il compimento delle promesse rivolte anticamente ai Patriarchi; coloro che già condividono la vittoria piena e definitiva dell’Agnello), avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce: “La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello”. Allora tutti gli angeli che stavano intorno al trono e i vegliardi e i quattro esseri viventi, si inchinarono profondamente con la faccia davanti al trono e adorarono Dio dicendo: “Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen”». Il popolo dei credenti è ormai introdotto nella gloria del Dio vivente e partecipa alla liturgia celeste; quella liturgia della vita, che è celebrata al cospetto del Dio vivente e in comunione con Lui, della quale Giovanni ci parla nel capitolo 4. «Uno dei vegliardi allora si rivolse a me e disse: “Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono?”…». Ricordate i ventiquattro vegliardi (cap. 4, v. 4): sono i rappresentanti della storia umana, già conclusa, giunta alla sua maturazione, che stanno intorno al trono di Colui che è Santo. Ebbene, dice Giovanni: “uno di loro mi interroga”. C’è una conversazione tra Giovanni e questo anziano: Giovanni, che è uno di quei “sigillati” che arrancano di deserto in deserto, da un accampamento all’altro, insieme alle schiere del popolo in marcia; l’anziano, che è ben inserito in quella comunione sconfinata che raccoglie tutti coloro che, oramai, trionfano nella comunione con l’Agnello. C’è una conversazione tra Giovanni e quell’anziano; tra noi e loro. «“Chi sono e donde vengono?” Gli risposi: “Signore mio, tu lo sai”. E lui: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue dell’Agnello…”». Sono coloro che partecipano alla Pasqua dell’Agnello, ormai in modo definitivo; coloro che, oramai, sono una sola cosa con l’Agnello perché hanno realizzato, attraverso la loro tribolazione, la chiamata a immergerci nella morte e nella risurrezione del Figlio di Dio. E questa chiamata è per tutti gli uomini; è una chiamata battesimale; si tratta di un’immersione. Quei tali, vestiti di abiti candidi sono “coloro che hanno lavato le loro vesti rendendole (così) candide con il sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Non avranno più fame,
né avranno più sete,
né li colpirà il sole,
né arsura di sorta,
perché l’Agnello che sta in mezzo al trono
sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi”.
L’anziano spiega a Giovanni “chi sono” quei tali che indossano le vesti candide. In realtà gli sta spiegando chi è l’Agnello; sì, perché l’Agnello è il Pastore. L’Agnello immolato e trionfante è proprio Colui che esercita il ruolo di pastore per tutti coloro che passano attraverso la grande tribolazione. Quei tali che, vestiti in quel modo, fanno festa dinnanzi al trono, sono passati attraverso la loro tribolazione incontrando l’Agnello. E l’hanno incontrato… come Pastore che li conduce alle sorgenti dell’acqua della vita.
Qui, alla fine del capitolo 7, noi ritorniamo a quell’Agnello che era considerato come presenza che effonde una collera insopportabile, dinanzi alla quale possiamo solo scappare, essendo radicalmente impresentabili, totalmente privi di ragioni giustificative. Il popolo dei credenti avanza perché è in grado di scoprire che cosa c’è nella collera dell’Agnello: la sua pastoralità; il suo impegno, la sua fedeltà, la sua coerenza, la sua vicinanza, la sua intimità pastorale nel cogliere, far suo, comprendere, attirare a sé tutto quel che riguarda la nostra tribolazione di uomini angosciati. Ecco che cosa c’è nella collera dell’Agnello: la sua pastoralità. Dal canto suo, è proprio il popolo dei credenti che è in grado di testimoniare che cosa preme in quell’angoscia umana che, scatenata com’è, ci travolge e ci travolge sempre più. Che cosa c’è, che cosa preme dentro all’angoscia umana? La nostra attesa di pecore sbandate, finchè non impareremo a riconoscere il Pastore. Nello sviluppo delle visioni, all’interno di quanto Giovanni ci diceva a proposito dell’apertura del sesto sigillo, il popolo dei credenti avanza. Chi può resistere dinanzi alla collera? Chi può resistere nell’angoscia? E’ un popolo in marcia, ma già battezzato, già sigillato; ha già ricevuto un’impronta indelebile; è già popolo trionfante. E noi, da questo trionfo, riceviamo la testimonianza di un’eco festosa che vale come punto di riferimento a cui mai più potremo rinunciare. E’ il popolo dei credenti che resiste alla collera dell’Agnello perché sta imparando a confidare in Lui. Proprio l’Agnello è il Pastore di cui pecore sbandate come siamo noi hanno bisogno, ed è l’unico pastore che saprà accoglierci e condurci come pecore del suo gregge. Il popolo dei credenti non è costituito da uomini migliori degli altri ma è segno, messo a disposizione dell’umanità intera nel corso della storia, affinché gli uomini scoprano, attraverso l’esperienza tribolatissima della loro angoscia, di essere pecore del gregge dell’Agnello.