L'Apocalisse: il Mistero Pasquale luce della storia
Sesto incontro del ciclo 2006-2007
4 aprile 2007
Abbiamo letto nove capitoli dell'Apocalisse e questa sera a leggere ci dedichiamo ai capp. 10 e 11.
Ricordate quel che è avvenuto quando nelle visioni di Giovanni l'Agnello apre i sigilli. L'Agnello immolato e vittorioso è l'interprete della storia umana ed è lui che ne indica le componenti. Fino a quel che succede all'apertura del settimo sigillo descritta all'inizio del cap. 8: la crisi permanente che accompagna, scandisce, in qualche maniera struttura, lo svolgimento della storia umana. E' storia "finita", eppure la fine rimane in sospeso. Nel contesto della visione relativa all'apertura del settimo sigillo, compaiono i sette angeli dotati di sette trombe le quali, adesso, squillano una dopo l'altra. Siamo alle prese con il settenario delle trombe: i "sintomi" della fine (così mi esprimevo un mese fa). I primi quattro squilli di tromba: le calamità naturali. Sintomi della fine, così come li percepiamo esistenzialmente: gli eventi che ci coinvolgono, situazioni irreparabili, ingovernabili che, in un modo o nell'altro, ci travolgono in forma fisica o in forma di calamità sociale; situazioni, comunque, non dominabili dalla nostra iniziativa, dalla nostra volontà personale o comunitaria, e che ci cascano addosso come prodromi di una fine che ci stringe e ci incalza; e d'altra parte la fine rimane ancora in sospeso. Siamo in crisi.
Quinta tromba (cap. 9): il tormento sperimentato in rapporto all'attività della potenza demoniaca che imperversa come presenza invadente, pungente, inquinante, con tutta una serie di conseguenze che rendono tormentosa la nostra realtà umana. Negli ultimi versetti del cap. 9 siamo allo squillo della sesta tromba: irrompe sulla scena quella forza scatenata che rappresenta "“ ce ne siamo resi conto senza grandi difficoltà "“ la capacità umana di operare il male, di distruggere, devastare, inquinare, offendere. E' la furia degli uomini che sono operatori di tutto ciò che "“ in modo un po' banale, forse, ma essenziale "“ ricapitoliamo con il termine "male" e che non si convertono. L'esperienza di una conversione non ottenuta, non realizzata, non raggiunta "“ per quanto, occasionalmente, possa anche essere desiderata o proposta "“ è esperienza di una conversione che diventa impossibile, irraggiungibile. La furia si scatena con ulteriori capacità di devastazione. Tutto questo sempre con conseguenze che sono parziali; con quegli accenni su cui ci siamo soffermati più volte che, nel linguaggio del nostro Giovanni, stanno a dimostrare come siamo alle prese con la storia degli uomini che, sebbene sia intrinsecamente e strutturalmente segnata dall'incombenza della fine, ancora non finisce. Ricordate come gli ultimi tre squilli di tromba (il quinto, il sesto e il settimo) sono accompagnati dal succedersi dei tre "guai" che già abbiamo udito gridare dall'aquila che attraversa il cielo.
Siamo dunque alle prese con lo squillo della sesta tromba, nel cap. 10 e nel cap. 11, fino al v. 14.
Se andiamo un attimo al v. 14 del cap. 11, leggiamo così: <<i>In questo modo passò il secondo "guai"; ed ecco viene subito il terzo "guai">. Dunque, tutto quel che riguarda il sesto squillo di tromba, quello di cui ci stiamo occupando, trova compimento in questo versetto. Le pagine che adesso leggiamo dei capp. 10 e 11 si inseriscono, dunque, nell'eco del sesto squillo di tromba che allude all'esperienza di quella capacità di distruzione che, nell'esperienza umana, assume una fisionomia mostruosa e diventa motivo di terrore massimamente angosciante. Ebbene: nell'eco del sesto squillo di tromba, che cosa succede? Accennavo il mese scorso, concludendo la nostra lettura, a quel che adesso Giovanni ci comunica. Leggiamo.
L'ascolto della parola di Dio
Cap. 10, vv. 1-2: "Vidi poi un angelo possente (un angelo forte, poderoso) discendere dal cielo, avvolto in una nube, la fronte cinta di un arcobaleno; aveva la faccia come il sole e le gambe come colonne di fuoco. Nella mano teneva un piccolo libro aperto. Avendo posto il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra". Compare quest'angelo dotato di una potenza che compete a Dio. E' lo strumento della rivelazione di Dio ed è, non per nulla, avvolto in una nube, con questa prerogativa particolarmente impressionante: la sua fronte è cinta di un arcobaleno. Siamo rinviati alla rivelazione di Dio così come si è manifestata attraverso la creazione. L'arcobaleno evoca il racconto del diluvio, della nuova creazione: è la realtà dell'universo ricomposta in obbedienza a Dio, là dove la violenza degli uomini tutto vorrebbe distruggere. La nube, invece, rinvia alla manifestazione del Signore che si è presentato nel corso della storia della salvezza. Dio, creatore dell'universo e, al tempo stesso, protagonista della storia, Signore che ha preso l'iniziativa di instaurare una relazione dialogica con gli uomini che, tra tutte le creature, detengono quella particolare responsabilità che ben conosciamo. D'altra parte, proprio la creatura umana scopre di essere in grado di intervenire con l'irruenza tragica della propria capacità distruttiva. L'angelo forte, avvolto in una nube con la fronte cinta di un arcobaleno, rappresenta l'azione di Dio che con la sua Parola ha creato e con la sua Parola si è introdotto nella storia degli uomini come colui che ha preso l'iniziativa di un dialogo redentivi. Ebbene: è proprio Lui che nella mano tiene un piccolo libro aperto. Che cos'è questo piccolo libro aperto? Ricordate che abbiamo incontrato precedentemente un rotolo chiuso con sette sigilli. Questo è un piccolo libro, un libretto, un libricino (doppio diminutivo) aperto. Vi dico subito, senza tergiversare: qui noi riconosciamo la vocazione dei profeti, di coloro che nella storia umana sono chiamati all'ascolto della Parola. In questo senso la vocazione profetica è donata a tutti gli uomini per il fatto stesso che la parola di Dio non dimentica nessuno, non trascura, non esclude alcuna creatura umana; ma, non c'è dubbio, qui siamo orientati verso l'identificazione di coloro che, nel corso della storia, assumono con una precisa consapevolezza la responsabilità della propria vocazione profetica. Un piccolo libro aperto: coloro che nella storia umana sono consapevolmente radicati in un atteggiamento di ascolto della Parola. Perché questo è il profeta: ascoltatore della Parola. Un piccolo libro aperto nella mano dell'angelo forte. Notate bene che tutto questo avviene nell'eco di quel sesto squillo, laddove è scatenata l'irruenza travolgente della libertà inquinata, devastata, corrotta degli uomini che sono in grado di distruggere. Là, vedete, nella storia degli uomini compare la presenza dei profeti, cioè di coloro che sono chiamati all'ascolto della Parola e in esso si radicano, nel senso che quell'ascolto diviene esattamente il contenuto stesso della loro presenza sulla scena del mondo, della loro posizione all'interno della storia umana. Quest'angelo "“ che "ha posto il piede destro sul mare e il piede sinistro sulla terra" "“ tiene in mano quel piccolo libro che, evidentemente, vuole consegnare a qualcuno. E' una vocazione profetica che sta trovando il destinatario che finalmente l'accoglierà. Osservate come la scena assuma una dimensione e una valenza ecumenica nel senso più forte dell'aggettivo: "mare "“ terra". L'angelo porge il piccolo libro aperto per porre in evidenza la presenza dei profeti nella storia dell'umanità, e lo scenario si amplia smisuratamente. Mare e terra. Giovanni non sta dicendo che i problemi dell'umanità sono risolti: di fronte allo scatenarsi della forza distruttiva che è negli uomini, adesso abbiamo trovato la soluzione; non sta dicendo questo. Sta dicendo che, nel contesto di quella storia umana, devastata (a causa dello stato di corruzione della libertà umana, con tutte le conseguenze che abbiamo intravisto, e con tutte le complicità che poi danno spazio alla potenza demoniaca di irrompere con i suoi tormenti), ebbene: in quel contesto ci sono i profeti, c'è chi ascolta la parola di Dio. Lo scenario è sconfinato: il mare e la terra sono i luoghi adeguati all'intervento del nostro angelo per cui davvero abbiamo a che fare con un segnale che non mette in evidenza una particolare componente, una particolare presenza, una particolare sottolineatura, una qualche sfumatura, un qualche spunto che emerga nel corso della storia umana in un ambiente ben circoscritto. Qui "“ vedete "“ tra terra e mare, la parola di Dio opera con la sua inesauribile e incontenibile libertà: l'angelo forte sta lì a dimostrarlo ed ecco" "coloro che ascoltano la parola di Dio".
La parola di Dio ruggisce e tuona
Vv. 3-4: "Gridò a gran voce come leone che ruggisce". Ritroviamo qui, non casualmente, il linguaggio con il quale si sono espressi alcuni tra i grandi profeti della storia della salvezza. Questo ruggito allude, in modo evidentissimo, all'eco che la parola di Dio ha suscitato nella storia degli uomini attraverso la presenza dei profeti. Basta fare ricorso a testi famosissimi nel libro di Amos, nel libro di Geremia e altrove. E' il grido dell'angelo che diventa il ruggito che la parola di Dio suscita come eco profetica nella storia degli uomini. E questo ruggito, adesso, si sviluppa ulteriormente: "E quando ebbe gridato, i sette tuoni fecero udire la loro voce". Il ruggito adesso si svolge nel rimbombo di sette tuoni. E' una citazione, anch'essa inconfondibile, del Salmo 29: i tuoni, sette tuoni, "voce del Signore, voce del Signore, voce del Signore" tuono, tuono, tuono"". Tutti testi che noi, adesso non possiamo approfondire ma che andrebbero presi in considerazione, perchè ciascuno di essi sarebbe motivo di intensa edificazione per noi e, comunque, rincalzerebbe in modo molto eloquente la nostra lettura, aiutandoci a capire il filo conduttore di tutta la testimonianza di Giovanni. E dunque: <<font>i sette tuoni fecero udire la loro voce. Dopochè i sette tuoni ebbero fatto udire la loro voce, io ero pronto a scrivere quando udii una voce dal cielo che mi disse: "Metti sotto sigillo quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo">. Giovanni è pronto a scrivere, ma la voce gli dice che non si tratta di raccogliere dati da divulgare; qui Giovanni è interpellato in quanto quel che conta è il suo vissuto personale che è esattamente quell'elemento vitale che costituisce la nota originariamente costitutiva del profeta. Il profeta non è maestro di per sé, non è un predicatore di per sé, non è uomo abituato a parlare. Il profeta è radicalmente, intimamente, originariamente colui che custodisce la Parola ascoltata e che, nell'ascolto della Parola, è coinvolto con tutto il suo vissuto. Per questo la voce dice a Giovanni: "metti sotto sigillo quanto hanno detto i sette tuoni e non scriverlo". Tutto conferma che abbiamo a che fare con la vocazione dei profeti che viene segnalata, adesso, nel contesto di quella storia umana che è attraversata da tutti quei sintomi della fine di cui ci stiamo occupando, e da quel particolare segno che è la nostra capacità di distruggere, di fare il male. Ebbene: ci sono i profeti. Insisto: Giovanni non sta dicendo "abbiamo trovato chi fa il bene" e neanche dice "abbiamo trovato chi ripara al male altrui". Questo è un discorso che passa attraverso l'Agnello. Ma nella storia degli uomini ci sono i profeti; c'è chi è presente in quanto tutto il suo cammino nella vita è affidato all'ascolto della parola di Dio.
Dio signore del tempo
Vv. 5-6: "Allora l'angelo che avevo visto con un piede sul mare e un piede sulla terra,
alzò la destra verso il cielo
e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli;"
(questa è una citazione del Libro del Deuteronomio nel cap. 32, v. 40, e del libro di Daniele nel cap. 12, v. 7. E' una citazione doppia, sono due testi ripresi e messi insieme). L'angelo pronuncia un giuramento: <</font>"per Colui che vive nei secoli dei secoli, che ha creato cielo, terra, mare, e quanto è in essi": non vi sarà più indugio!">. Che cosa significa questo? L'angelo, con il giuramento, conferma il valore di quella vocazione profetica a cui sono chiamati gli uomini attraverso il piccolo libro aperto che egli sta porgendo. L'ascolto della Parola, a cui i profeti sono chiamati, attesta che il tempo della storia umana appartiene a Dio. Il fatto che nella storia degli uomini ci siano dei profeti è descritto dal nostro angelo come presenza che rende testimonianza alla signoria di Dio sul tempo. Il tempo appartiene a Lui. Non è l'iniziativa umana che può definire la storia, che può dichiarare la fine della storia: per quanto l'iniziativa umana sia sperimentata in quella prospettiva tragicamente sconvolgente di cui ci siamo resi conto, non è essa che dichiara la fine della storia. E' un sintomo, ma non dichiara la fine perché la fine appartiene a Dio che è Signore del tempo. E l'ascolto della Parola, colto qui nel suo significato originario, costitutivo, si manifesta nel vissuto degli uomini come un riconoscimento esplicito, dichiarato, giurato circa la signoria di Dio sulla fine; non l'iniziativa degli uomini, ma la parola di Dio definisce la storia umana ed è la parola di Dio che dice la fine.
I profeti rivelano il mistero di Dio
V. 7: "Nei giorni in cui il settimo angelo farà udire la sua voce e suonerà la tromba, (pur essendo ancora alle prese ancora con il sesto squillo, siamo già rinviati a quel che avverrà allo squillo della settima tromba) allora si compirà il mistero di Dio come egli ha annunziato ai suoi servi, i profeti". Allora capiremo meglio, quando arriveremo a quei versetti, nel cap. 11 dal v. 15 a seguire. E vedete come qui, espressamente, compare il riferimento ai profeti. Il mistero di Dio che si compie in obbedienza a Dio, secondo la sua volontà: il rivelarsi dell'iniziativa di Dio nella storia umana; ecco il Mistero, quel Mistero che è stato accolto e viene trasmesso come Evangelo dai profeti. L'ascolto della Parola, che è la nota caratteristica dei profeti, coincide con la testimonianza resa al mistero di Dio e con la responsabilità nei confronti di quell'Evangelo di Dio, che dal di dentro, sostiene il peso del tempo che si svolge nel corso della storia umana. L'ascolto della Parola già in sé porta la definizione dell'intero percorso: la storia degli uomini finisce in quanto appartiene a Dio e in questo senso è la parola di Dio, Parola creatrice, Parola redentiva, che dichiara la fine della storia umana. La visione di Giovanni ci aiuta a scoprire la realtà che manifesta il vero conflitto che si sviluppa lungo tutto il corso della storia umana: laddove gli uomini sono capaci di distruggere (e in questa capacità noi cogliamo la premonizione della fine) proprio là essi sono chiamati ad ascoltare la parola di Dio. Nell'ascolto della Parola gli uomini sono invitati a maturare nella vocazione profetica; l'ascolto della parola di Dio diviene, esso stesso, l'atto umano della resa all'iniziativa di Dio. Chi ascolta si arrende a Colui che, con la sua Parola, definisce la storia degli uomini. Non altri uomini, ma gli stessi uomini che sono capaci di distruggere il mondo sono chiamati ad ascoltare la parola di Dio. E la parola di Dio segna la fine. La fine non appartiene all'iniziativa degli uomini, per quanto siano capaci di distruggere; la fine appartiene alla parola di Dio.
La vocazione profetica di Giovanni
Dal v. 8 al v. 11 (siamo sempre nell'eco del sesto squillo di tromba) il nostro Giovanni viene chiamato a ricevere l'investitura profetica. Lui, in modo esemplare: <<font>Poi la voce che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo: "Va', prendi il libro aperto dalla mano dell'angelo che sta ritto sul mare e sulla terra" (ricordate quel libricino? Adesso Giovanni deve andare a prenderlo dalla mano dell'angelo). Allora mi avvicinai all'angelo e lo pregai di darmi il libro. Ed egli mi disse: "Prendilo e divoralo (mangialo. Rintracciamo facilmente l'eco di quel che fu l'esperienza dell'antico, grande profeta Ezechiele, cfr. Ez. 3,3); ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca sarà dolce come il miele">. Dolcezza e amarezza, laddove la Parola ascoltata è Parola mangiata, nutrimento che sostiene la vita. Ascolto della Parola che coincide con l'impostazione e l'attuazione della vita, con l'apertura alle relazioni vitali. Viene "mangiata" in modo tale che viene sperimentata la dolcezza più soave e l'amarezza più straziante. E' quello che capita a Giovanni (al profeta non è risparmiato niente): è nel contesto della sua vita nella sua concretezza, alle prese con i dati oggettivi della sua esistenza nel tempo e nello spazio, con le sue responsabilità di ordine personale, familiare, sociale, politico e così via, che il profeta è chiamato ad ascoltare la parola di Dio. L'ascolto della parola di Dio diventa la sostanza della sua risposta alla vocazione alla vita. In quanto "ascoltatore" della Parola il profeta vive; ma in quanto ascoltatori della Parola gli uomini sono chiamati a vivere, senza che nulla sia loro risparmiato: dolcezza e amarezza. Ma, vedete, tutto questo nella prospettiva che già abbiamo potuto contemplare: proprio l'ascolto della Parola costituisce il motivo per cui la fine della storia non appartiene all'iniziativa umana, ma a quella di Dio che si manifesta, al suo Mistero rivelato, evangelizzato a noi, per noi e attraverso noi.
"Presi quel piccolo libro dalla mano dell'angelo e lo divorai (in risposta alla vocazione profetica, Giovanni investe tutto di sé; è il suo vissuto); in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l'ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l'amarezza. Allora mi fu detto: "Devi profetizzare ancora su molti popoli, nazioni, lingue e re">. Adesso sei profeta e la tua responsabilità riguarda il mondo intero: popoli, nazioni, lingue, re.
Vedete come la presenza dei profeti (adesso abbiamo a che fare con un caso esemplare: proprio il nostro Giovanni che si espone in prima persona) nella storia degli uomini diventa motivo di orientamento, di provocazione che dall'interno muove e insieme sostiene, contrasta e insieme consola l'avventura di tutte le generazioni, che si succedono in vista di una fine inevitabile ma che non appartiene alla forza degli uomini che sono in grado di distruggere. La fine appartiene a Dio che ha preso gratuitamente la sua iniziativa e la porta a compimento liberamente, gratuitamente.
Gli spazi e i tempi della profezia
Nel cap. 11, fino al v. 13, abbiamo ancora a che fare con la vocazione dei profeti, con la loro testimonianza o il loro martirio. I "testimoni" in greco sono i martures; la testimonianzamartoria. Il martirio dei profeti, la presenza dei profeti in ascolto della Parola, con quella situazione conflittuale a cui ci siamo accostati. E, adesso, Giovanni precisa quale sia la testimonianza affidata ai profeti. Lui oramai è coinvolto in prima persona nella faccenda, in seguito all'investitura profetica ricevuta.
<<i>Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: "Alzati e misura il santuario di Dio e l'altare e il numero di quelli che vi stanno adorando. Ma l'atrio che è fuori del santuario lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balia dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. Ma farò in modo che i miei due Testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni">. Tre versetti, per adesso.
Come sempre non è il caso di spaventarsi se lì per lì sembra di scivolare nella nebbia; non vi spaventate, non c'è mai da preoccuparsi, anzi, è sempre più bello perché qui, vedete, Giovanni, proprio lui personalmente (mi fu data una canna), è incaricato, in applicazione della sua investitura profetica, di misurare gli spazi e i tempi che definiscono il popolo di Dio nella storia umana. Adesso l'attenzione si concentra: qui ci sono simbolismi di ordine spaziale (cortili del tempio), di ordine temporale (notate l'insistenza sui tre anni e mezzo). Anche i milleduecentosessantagiorni di cui si parla alla fine del v. 3 sono tre anni e mezzo, che è come dire il tempo della storia umana in quanto è storia inquinata, aggredita, è la storia del conflitto a cui mi riferivo poco fa. Il conflitto dura tre anni e mezzo. Questa è una simbologia che viene da lontano, dal libro di Daniele, ma si rifà alla figura profetica esemplare fra tutte: quella di Elia (i tre anni e mezzo di siccità al tempo di Elia). Di questo si riparlerà ancora tra breve. Giovanni è incaricato di misurare: si tratta di operare un discernimento che ci deve consentire il riconoscimento e l'apprezzamento della particolare presenza che è assegnata al popolo di Dio. Qui il santuario di Dio nel suo cortile interno è occupato da coloro che stanno adorando; bisognerebbe che Giovanni calcolasse il numero di costoro, coloro che sono in adorazione. Ma notate ancora come ci sono cortili esterni nel santuario che sono calpestati dai pagani per quarantadue mesi. E' il popolo di Dio, che ormai possiamo meglio individuare nel popolo "cristiano", nella storia tra adorazione e schiacciamento; una duplicità di situazioni che emerge proprio in seguito all'intervento della mano di Dio che, attraverso l'angelo, ha consegnato a Giovanni il piccolo libro: lo ha investito come profeta. Ed ecco il popolo cristiano. In adorazione? Schiacciato. Sono gli spazi e i tempi della profezia: è la storia umana che adesso, proprio dal momento che Giovanni, lui, è stato investito come profeta, vengono reinterpretati in relazione alla profezia che coinvolge il popolo cristiano.
I due testimoni vestiti di sacco
Nel v. 3 l'attenzione si concentra sui due Testimoni (due martures). "Ma farò in modo che i miei due Testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni", per tre anni e mezzo. E' il tempo nel corso del quale i pagani imperversano? E' la storia degli uomini che si svolge in modo tale da dare l'impressione di precipitare in un baratro orrendo in seguito all'iniziativa devastante di cui gli uomini sono capaci? Tre anni e mezzo: il tempo della profezia. Notate che i due Testimoni qui citati sono "miei"; questo attributo conferisce ai due Testimoni un'identità di cui il Dio vivente è ben a conoscenza. Non sono figure generiche, non sono figure ipotetiche; sono i "miei" due Testimoni. E' vero che i personaggi qui citati acquistano un valore tipologico, questo sì, ma mai generico. Sono i rappresentanti di quella vocazione profetica che riguarda il popolo cristiano e che si manifesta all'interno della storia umana in costante tensione, in conflittuale contrappunto a quello squillo di tromba che Giovanni ha ascoltato, e noi ascoltiamo insieme con lui, quando il sesto angelo suona la sua tromba. Anzi, vedete, noi già ci siamo resi conto del fatto che questa conflittualità è interna alla storia degli uomini, al loro vissuto. E là dove gli uomini sono capaci di distruggere, quegli stessi uomini sono chiamati all'ascolto. Qui c'è il popolo cristiano che in questa situazione è universale; assume una responsabilità sacramentale rappresentativa. Giovanni viene appositamente incaricato di mettere in evidenza come stanno le cose. Ci sono due "testimoni"; il fatto che siano vestiti di sacco conferisce ad essi un atteggiamento penitenziale che già è una vaga, ma non banale, premonizione di martirio. Di questo poi si riparla successivamente. In ogni caso i due testimoni compiono la loro missione di profeti per tre anni e mezzo.
Vv. 4-6: "Questi sono i due olivi e le due lampade". Adesso noi percorriamo a ritroso la storia della salvezza. Questi due testimoni sono gli eredi di tutto un percorso che il popolo di Dio ha compiuto. E, infatti, qui dove adesso si parla di due olivi e di due lampade che stanno davanti al Signore della terra, noi siamo rinviati a due personaggi di cui si parla nel libro di Zaccaria: Giosuè e Zorobabele (libro di Zaccaria, cap. 4). Anche in questo caso non scendiamo nei dettagli, ma vedete che stiamo andando all'indietro. I due olivi di cui si parla nel cap. 4 di Zaccaria, le due lampade che stanno davanti al Signore della terra, eccoli i due testimoni. "Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici". Quei due personaggi che svolgono un ruolo specialissimo nel momento in cui le carovane degli esuli ritornano nella terra di Israele, in quella fase di avvio della ricostruzione, Giosuè e Zorobabele, coloro che stanno alla presenza del Signore, adesso sono figure che vengono reinterpretate ulteriormente in rapporto ad altri due personaggi, ai quali risaliamo andando ancora più indietro nella storia della salvezza: Elia e Mosè. "Dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici" (2 Re, cap. 1, v. 10), a proposito di Elia. "Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico": questo è ancora Elia (1 Re, cap. 17). "Essi hanno anche potere di cambiare l'acqua in sangue": questo è Mosè (Esodo, cap. 7) "e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che lo vorranno". Appunto Mosè. Elia e Mosè: due figure davvero ricapitolative di tutto quello che la parola di Dio ha voluto esprimere e donare al suo popolo. I profeti e la legge. I due testimoni, di cui adesso Giovanni sta parlando, sono gli eredi di tutta la storia della salvezza che è già impostata dall'inizio in modo tale da educare gli uomini nella profezia e da conferire ai profeti la missione della testimonianza, fino al martirio.
Pietro e Paolo
Dal v. 7, fino al v. 13 conosciamo finalmente in modo diretto l'identità di quei due testimoni che, a dire il vero, rimangono anonimi nel testo, ma che possiamo opportunamente identificare con gli apostoli Pietro e Paolo: i due testimoni. Si tratta dei due martiri per eccellenza nel popolo cristiano.
Vv. 7-8: "E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall'Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sodoma ed Egitto, dove appunto il loro Signore fu crocifisso".
La grande città, simbolicamente, si chiama "Sodoma ed Egitto". Questo diventa paradossale perché capiamo che nella storia della salvezza c'è tutta questa serie di imperi che si succedono; "città" che hanno un valore emblematico: Ninive, Babilonia e così via; per ritornare indietro: Egitto, Sodoma; ma la città dove il loro Signore fu crocifisso è Gerusalemme e vedete che anche Gerusalemme" come Sodoma, come Babilonia, e adesso è la volta di Roma" è la volta della nostra città, è la volta della nostra generazione, della storia in corso, del nostro impero e della vocazione profetica che interpella la nostra vocazione e che chiama il popolo cristiano alla testimonianza fino al martirio. La situazione è tale per cui non c'è alcun luogo che possa essere definito come un ambiente asettico, al di sopra della mischia, indipendente dal conflitto. Anche Gerusalemme si perverte e si trasforma in una morsa infernale.
Il martirio dei testimoni e l'orgia degli uomini sui loro cadaveri
Dunque, i due testimoni, esposti come spettacolo al mondo, nel tempo del grande conflitto, oggetto di una contestazione spietata. V. 9: "Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permetteranno che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro" (qui i tre anni e mezzo sono diventati "tre giorni e mezzo"). Gli uomini qui citati si compiacciono dell'impresa compiuta (v. 10): "Gli abitanti della terra faranno festa su di loro, si rallegreranno e si scambieranno doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra". I due profeti, con quella loro testimonianza, erano motivo di disturbo, di contestazione, di insopportabile disagio per gli abitanti della terra, la cui gioia adesso esplode. Ma, badate bene, è una maschera questa gioia. E' una gioia che vuole nascondere la realtà del tormento che gli uomini della terra patiscono laddove la parola di Dio è ascoltata dai profeti fino al martirio.
Nei testimoni la gloria del Dio vivente
V. 11: "Ma dopo tre giorni e mezzo, un soffio di vita procedente da Dio (questa è una citazione da Ezechiele: è la famosa visione delle ossa aride che rivivono, nel cap. 37) entrò in essi e si alzarono in piedi". I due testimoni sono schiacciati, oggetto della violenza prepotente con cui l'impero, l'iniziativa degli uomini rifiuta la rivelazione del Mistero; ma la testimonianza dei profeti emerge dotata di una regalità vittoriosa. E' proprio la gloria del Signore vivente, Lui che è morto e risorto, che trova realizzazione sacramentale nella regalità del martirio a cui i profeti sono stati condotti. "Un soffio di vita" diceva qui "entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli.". Gli spettatori che, mascherati di gioia, gozzovigliavano, adesso sono smarriti; riemerge il terrore, riemerge quel tormento per il quale non c'è consolazione, dovuto al conflitto con la presenza dei profeti nella storia umana. Per quel tormento non c'è consolazione, c'è solo conversione, non consolazione. E il tormento riemerge in modo poderoso, inconsolabile: <<font face= "Bookman Old Style, serif">grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo: "Salite quassù" e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici">. E' importantissimo qui, nella visione, cogliere questo costante riferimento allo sguardo di coloro che abitano sulla terra, che occupano la scena del mondo, che invadono le strutture della vicenda umana. Il loro sguardo sconcertato è sconcertato, sbalordito, terrorizzato.
Efficacia redentiva della testimonianza: la conversione degli uomini
V. 13: "In quello stesso momento ci fu un grande terremoto che fece crollare un decimo della città; perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo". Il crollo di tutto un mondo, di tutta una visione della storia; il crollo di quella impostazione che gli uomini hanno voluto impiantare come garanzia della loro sfrenata potenza; crollo di tutto questo, ma sempre in forma parziale: un decimo della città. Sempre in forma parziale perché, vedete, "i superstiti presi da terrore davano gloria al Dio del cielo" e quel terrore, quel tormento inconsolabile nell'animo degli uomini che sono alle prese con i profeti, testimoni fino al martirio, quel disagio che li mette costantemente in discussione, adesso assume un significato propriamente redentivo: si apre la strada della conversione per tutti gli abitanti della terra. "I superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo". Fino a questo momento non si era mai parlato della conversione di chi è impelagato nelle miserie della propria cattiveria umana, nelle miserie del mondo, nella corruzione della storia. Adesso sì, però. Proprio qui: "davano gloria al Dio del cielo" e, quindi, v. 14: <<i>Così passò il secondo "guai"; ed ecco viene subito il terzo "guai">.
Settima tromba: l'avvento del regno messianico
Rapidamente diamo un po' di attenzione ai versetti che seguono, fino alla fine del cap. 11. Tutto quello che avviene poi nell'Apocalisse, dal cap. 12 in là, tutto si inserisce nell'eco del settimo squillo. Vedete come ogni visione apre le successive.
Settimo squillo. Sintomo della fine? Sì, attenzione però: <</font>Il settimo angelo suonò la tromba e nel cielo echeggiarono voci potenti che dicevano" (è il coro celeste che abbiamo già incontrato e ascoltato: i 4 viventi, i 24 anziani, il creato, la storia; ne parlavamo a suo tempo; adesso in continuità con il coro celeste, questa è la voce del creato; poi dal v. 16 avremo a che fare con la voce della storia umana. Voce anonima quella del creato; appunto le creature che di per sé non hanno voce eppure il creato intero proclama):
"Il regno del mondo
appartiene al Signore nostro e al suo Cristo:
egli regnerà nei secoli dei secoli">.
La creazione obbedisce a quell'opera di liberazione del mondo rispetto ad ogni altra sovranità, che si compie in obbedienza a Dio. La creazione intera proclama l'avvento del regno messianico e proprio questo è il contenuto del settimo sintomo della fine: l'avvento del Regno che corrisponde alle intenzioni di Dio, alle sue promesse, alla sua Parola che si realizza finalmente nella storia umana. Proprio l'avvento del regno messianico costituisce l'estremo, definitivo sintomo della fine; quella fine, per cui la storia è in crisi, è determinata dalla venuta del Regno. La prospettiva è completamente ribaltata: non è più la fine intuita, colta, sospettata, intravista come l'orizzonte che stringe, che stritola, che ossessiona, che impedisce, che chiude; ma la fine è la venuta del Regno. Il regno del mondo "“ proclama la creazione intera "“ appartiene al Signore nostro e al suo Cristo; è Lui che regnerà nei secoli dei secoli.
Vv. 16-18: <<font>Allora i ventiquattro vegliardi (i rappresentanti della storia umana)seduti sul trono al cospetto di Dio, si prostrarono faccia a terra e adorarono Dio dicendo:
"Noi ti rendiamo grazie,
Signore Dio onnipotente,
che sei e che eri"
(è la storia in adorazione, la storia che proclama l'eucaristia, il ringraziamento, perché è proprio nel corso della storia che il presente acquista un valore definitivo, tanto è vero che qui i ventiquattro vegliardi si rivolgono al Signore Dio dandogli del "tu" e dicendo: "tu che sei e che eri"; notate che noi siamo abituati ad un'altra formula: "tu che sei, tu che eri, tu che vieni". Qui, vedete, il "che vieni" non c'è più: il presente definitivo),
perché hai messo mano alla tua grande potenza,
e hai instaurato il tuo regno.
Le genti ne fremettero,
ma è giunta l'ora della tua ira,
il tempo di giudicare i morti,
di dare la ricompensa ai tuoi servi,
ai profeti e ai santi
e a quanti temono il tuo nome,
piccoli e grandi,
e di annientare coloro
che distruggono la terra">.
Non mi dilungo su questi pochi versetti, che pure sono densissimi, perché devo concludere. Vedete che è proprio la venuta del Regno che disarma la capacità distruttiva degli uomini, che addomestica ogni conflitto e ogni opposizione, riconducendo l'umana volontà di distruzione all'interno di un disegno di salvezza e di redenzione. E' il Regno che viene in corrispondenza alle intenzioni di Dio, laddove tutto della creazione e della storia umana è coinvolto; il Regno viene in modo corrispondente a quel mistero che ci è stato rivelato una volta per tutte: il Mistero del Figlio, morto e risorto, il mistero dell'Agnello, sgozzato e vittorioso. La storia degli uomini è tutta ricapitolata nell'evento che oramai è definitivo. Il Regno di Dio viene e non c'è nulla di ciò che finisce nella storia umana, in base a tutti i sintomi che abbiamo registrato, non c'è crisi nella storia umana che non ricada oramai nell'evento che una volta per tutte si è compiuto. La creazione già proclama, con voci sconosciute, la validità incrollabile di questo Regno; la storia umana già si svolge sull'onda di una costante, inesauribile, capillare Eucaristia. Un ringraziamento che coincide con quella prontezza nell'interpretare profeticamente ciò che sta avvenendo ed è avvenuto. Tutto quello che si svolge secondo le forme visibili del grande conflitto oramai sempre e dappertutto, attiva quell'interpretazione profetica, che giunge fino al martirio in grado di attraversare tutti i conflitti e subirne tutte le conseguenze in comunione con l'Agnello e dunque nella celebrazione di un'unica Eucaristia.
V. 19: "Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l'arca dell'alleanza. Ne seguirono folgori, voci, scoppi di tuono, terremoto e una tempesta di grandine". Questo versetto introduce il capitolo seguente e tutto quello che poi leggeremo. Si è spalancato il santuario, il luogo interno; è proprio il segreto del Dio vivente che oramai per noi è manifestato; è la sorgente della vita, è l'intenzione d'amore che sta all'origine di tutto, è la sua volontà di alleanza, di comunione (l'arca dell'alleanza nel Santo dei Santi); e adesso ci siamo: ci ritroviamo là dove l'iniziativa di Dio è oramai manifestata in modo tale da ricapitolare in sé tutto del tempo, dello spazio, della nostra vocazione alla vita, della storia umana, perché l'Agnello immolato è il protagonista vittorioso di ieri, di oggi e di sempre. Uno sconquasso generale, appunto, un terremoto: è la Pasqua del Signore.