Settimo incontro del ciclo 2004-2005
Martedì 7 giugno 2005
Tre eventi ricapitolativi
Questa sera leggeremo i capitoli da 36 a 39, a conclusione di un anno di lavoro dedicato alla prima parte del libro di Isaia che si chiude, appunto, con il capitolo 39. Ci vorrà un altro anno, se Dio vuole, per arrivare in fondo a questo libro così impegnativo e monumentale.
Da tempo noi sappiamo che proprio nei primi 39 capitoli del nostro libro è conservata la memoria della predicazione e del ministero svolto dal grande Isaia, personaggio tanto illustre da segnare in maniera indelebile la storia del popolo di Dio nella seconda metà dell’VIII secolo a. C. Già in questa prima parte ci siamo resi conto, in molti modi, di come il libro che andiamo leggendo sia stato redatto in una fase piuttosto avanzata di una tradizione profetica che mette insieme testi di diversa provenienza. E’ certo, però, che in questi primi 39 capitoli il filo conduttore, la presenza dominante, la voce che ci interpella in modo autorevole e potente, tutto ci rimanda al grande Isaia. Questa è la prima parte; poi ci saranno una seconda e una terza parte; un “secondo” Isaia e un “terzo” Isaia di cui – ripeto, se Dio- vorrà ci occuperemo l’anno prossimo.
Il mese scorso siamo arrivati al cap. 33. Oggi saltiamo direttamente al cap. 36, leggendo passo passo le pagine di questi ultimi quattro capitoli che, come immediatamente constatate anche solo con una fuggevole occhiata, assumono una fisionomia ben diversa da quella che abbiamo riscontrato nelle pagine precedenti: qui abbiamo a che fare con racconti in prosa. La gran parte di quanto abbiamo finora considerato è in versi, e abbiamo potuto apprezzare come la redazione letteraria del testo sappia esprimere la qualità poetica dei messaggi con i quali i profeti svolgono il loro servizio alla parola di Dio. Le pagine che leggiamo questa sera sono per lo più redatte in forma prosastica. Si tratta di narrazioni che ci parlano del profeta. Fino a questo momento noi siamo stati abituati ad ascoltare direttamente lui, oppure altre voci che, però, il redattore del testo ha voluto inserire nella sistemazione definitiva di queste pagine in modo sintonico alla voce di Isaia. Lui, il Profeta, che si rivolge ai suoi contemporanei e, attraverso di loro, si rivolge a coloro che verranno. Addirittura, da un certo momento in poi, il testo diviene, programmaticamente, messaggio rivolto a futuri ascoltatori.
Le pagine che leggiamo questa sera sono, invece, redatte in modo tale da raccogliere e trasmettere a noi racconti nei quali il nostro profeta è presente, ma compare in termini oggettivi. Un conto è ascoltare direttamente lui che parla, testimonia, interviene, irrompe con la sua predicazione o con la sua presenza – eloquente di per sè -, altro conto è avere a che fare con racconti su di lui. Una situazione analoga a quella che riscontriamo nella letteratura evangelica del N.T., laddove avvertiamo la differenza tra i brani in cui Gesù parla direttamente e le narrazioni che riguardano la sua persona.
Fatto sta che le pagine di cui ci occupiamo questa sera ci aiutano a prendere contatto, ancora una volta, con il nostro profeta Isaia, ma potendo approfittare di quella che è stata la percezione che di lui hanno avuto i contemporanei e poi coloro che sono venuti successivamente e che hanno ereditato dai contemporanei l’esperienza dell’impatto con quel personaggio; coloro che hanno raccontato di lui fin dall’inizio e altri che hanno rieccheggiato quei racconti, ricostruendoli, ricomponendoli e finalmente mettendoli per iscritto. Questo ci aiuta, in questa tappa finale del nostro lavoro di quest’anno, a ristabilire l’opportuno contatto con il nostro profeta Isaia, ma – ripeto – in termini più oggettivi. E’ sempre lui, proprio lui, ma così come è stato osservato, studiato, scrutato; così come da parte dei contemporanei si è venuta formando quell’immagine, rimasta poi consacrata nella venerazione di tutto un popolo e giunta fino a noi attraverso le generazioni.
Prendiamo
senz’altro contatto con queste pagine, che leggeremo per
intero passo passo. Sono 4 capitoli nei quali vengono messi a fuoco
tre episodi corrispondenti a momenti esemplari di quella storia
nella quale è coinvolto il popolo di Dio e coloro che
rappresentano ufficialmente tale popolo, a partire dal re Ezechia;
episodi di un valore emblematico, proprio per sintetizzare le
vicende di quell’epoca nella quale Isaia è intervenuto
con il suo ministero, con la sua missione, con la sua
testimonianza, così come abbiamo potuto considerare
dall’inizio del nostro impegno di lettura quest’anno.
Tre episodi.
Il primo episodio acquista un rilievo imponente perchè si sviluppa nell’arco di ben due capitoli piuttosto estesi. E’ un’unica vicenda, anche se qui ce ne vengono fornite due versioni ovvero, forse, ci vengono descritti due momenti nel contesto di un unico grande episodio che viene ricostruito nel suo sviluppo altamente drammatico.
Siamo rinviati a quell’evento – che già altre volte abbiamo messo a fuoco – accaduto nell’anno 701 a.C., quando il regno di Giuda fu invaso dagli Assiri; tutto il territorio fu occupato, tranne Gerusalemme, capitale del regno, che fu assediata e stretta in una morsa poderosa nella prospettiva di un’inevitabile resa o conquista da parte dell’esercito assiro. Anno 701 a.C.: noi già sappiamo che gli avvenimenti presero una piega del tutto imprevedibile, per cui l’esercito assiro si ritirò; il grande re d’Assiria, Sennàcherib decise di rientrare nella sua capitale, probabilmente (dicono gli storici che hanno tentato di ricostruire le motivazioni dell’evento) a causa di un’epidemia di peste scatenatasi nell’accampamento assiro. Fatto sta che Gerusalemme rimase indenne. E’ un evento a cui Isaia si è riferito più volte in alcuni oracoli che abbiamo letto nel corso dell’anno; un momento di sollievo che lascia una traccia incancellabile nell’animo dei contemporanei e che, poi, verrà ricordato e commentato con profonda commozione dalle generazioni che seguiranno; un evento che rimane come un punto di riferimento luminoso nella storia del popolo di Dio: Gerusalemme assediata, ma non conquistata; liberata, indenne. E’ vero che poi, poco più di un secolo dopo, Gerusalemme sarà assediata, conquistata, distrutta, devastata; così una volta e così più volte, ma l’episodio accaduto nel 701 a.C. rimane nel corso dei secoli – malgrado l’esperienza straziante di quella che sarà poi la caduta di Gerusalemme in altri contesti storici – come un riferimento emblematico, come un’indicazione programmatica: per quanto Gerusalemme di fatto, nei dati empirici della storia che si svolge nei secoli, possa restare travolta da eventi catastrofici, Gerusalemme è indenne, rimane intatta, non è conquistata, non è conquistabile. Come vi accennavo quell’episodio viene, adesso, richiamato – in questo primo episodio – in due momenti nei quali intervengono personaggi diversi: il gran re d’Assiria che vuole dettare legge attraverso i suoi collaboratori (cap. 36) e il re di Giuda Ezechia che è in difficoltà e che sollecita l’intervento di Isaia (cap. 37, vv. 1-7). Leggiamo.
Le lusinghe dei falsi liberatori
Cap. 36, vv. 1-2: “Nell’anno decimo quarto del re Ezechia, Sennàcherib, re di Assiria assalì e si impadronì di tutte le fortezze di Giuda. Il re di Assiria mandò poi da Lachis a Gerusalemme contro il re Ezechia il gran coppiere con un grande esercito...”. Il gran coppiere è un ministro della guerra, il comandante in capo dell’esercito assiro. L’assedio di Lachis – fortezza oramai caduta – e adesso l’assedio di Gerusalemme.
Il racconto che leggiamo in queste pagine del Libro di Isaia è riportato anche nel 2° Libro dei Re, dal cap. 18 al cap. 20, in modo pressochè identico, senza alcuni elementi su cui adesso sorvoliamo (il raffronto fra i due testi sarebbe interessante, ma ci porterebbe lontano).
Questa, dunque, è la scena: Gerusalemme assediata e il gran coppiere “... fece sosta presso il canale della piscina superiore, sulla strada del campo del lavandaio...”. Gerusalemme è asserragliata entro le cinta delle sue mura; la popolazione si sta dedicando alle attività difensive ancora realizzabili; il re Ezechia cerca di organizzare una resistenza che possa durare più a lungo possibile. Ebbene, vedete, il gran coppiere pronuncia un discorso (vv. 3-6): “Gli andarono incontro Eliakìm figlio di Chelkìa, il maggiordomo, Sebnà lo scrivano e Ioach, figlio di Asaf, l’archivista...” (sono il ministro dell’interno, il ministro del tesoro; sono personaggi autorevoli della corte). “Il gran coppiere disse loro: <Riferite ad Ezechia: così dice il grande re, il re di Assiria: che significa questa sicurezza che dimostri? Pensi forse che la semplice parola possa sostituire il consiglio e la forza nella guerra? Ora in chi confidi tu, che ti ribelli contro di me? Ecco, tu confidi nell’Egitto, in questo sostegno di canna spezzata che penetra la mano e la fora a chi vi si appoggia; tale è il faraone re d’Egitto per chiunque confida in lui”. Il gran coppiere, dunque, proclama solennemente che la resistenza non otterrà alcun successo e che è assolutamente fuori luogo che i difensori di Gerusalemme confidino in aiuti che non arriveranno. Certamente non sarà il faraone, re d’Egitto, che potrà intervenire a difesa del regno di Giuda; anzi (vv. da 7 a 10) “Se mi dite: noi confidiamo nel Signore nostro Dio...” (vedete che il gran coppiere, per incarico del gran re di Assiria, affronta anche il piano della interpretazione teologica degli eventi: “Se voi mi dite che confidate nel Signore vostro Dio – ecco – se mi dite così, ma “...non è forse lo stesso a cui Ezechia distrusse le alture e gli altari ordinando alla gente di Giuda e di Gerusalemme: vi prostrerete solo davanti a questo altare?”. Il gran coppiere è informato: Ezechia, nel suo impegno di riformatore ha fatto smantellare molti santuari e ha fatto di tutto perchè il culto fosse concentrato unicamente a Gerusalemme. Ma dal punto di vista del gran re di Assiria, che parla attraverso il suo ministro, questo è un comportamento offensivo: voi avete pubblicamente maltrattato e banalizzato la presenza del Signore vostro Dio – come voi lo chiamate – e come potete, adesso, pretendere che lui intervenga in vostro soccorso?
“Orbene (prosegue il generale assiro nel suo discorso) fa’ una scommessa con il mio Signore, il re di Assiria; io ti darò duemila cavalli, se puoi procurarti cavalieri per essi. Come potresti far indietreggiare uno solo dei più piccoli sudditi del mio Signore? Eppure tu confidi nell’Egitto per i carri e i cavalieri! Ora è forse contro il volere del Signore che io mi sono mosso contro questo paese per distruggerlo? Il Signore mi ha detto: muovi contro questo paese e distruggilo”.
Dunque è inutile per voi confidare nel soccorso umano; anzi, il mio re potrebbe darvi duemila cavalli, metterveli a disposizione – facciamo pure una scommessa – e voi non avreste i cavalieri che possono montarli. Basta qualche nostro fantaccino che sarà in grado di sgominare qualunque vostra difesa e, addirittura, è proprio il Signore vostro Dio che mi ha detto: muovi contro questo paese e distruggilo!. Vedete, il gran re di Assiria si presenta come colui che difende gli interessi del Signore: siete voi che l’avete offeso, contrariato, tradito ed ecco non c’è sorte alternativa a questa per voi; sarete preda della potenza del nostro esercito e cadrete senza colpo ferire. E’ il Signore vostro Dio che ha incaricato il grande re di Assiria di intervenire contro di voi per distruggervi.
Il discorso prosegue, vv. 11-12: “Eliakìm, Sebnà e Ioach ( i tre ministri del re di Giuda) risposero al gran coppiere: Parla ai tuoi servi in aramaico poichè noi lo comprendiamo; non parlare in ebraico alla portata degli orecchi del popolo che è sulle mura”. Il gran coppiere parla nella lingua che possono comprendere tutti quelli che sono presenti sulle mura (lui parla dall’esterno della città) e gli chiedono, quasi implorandolo, di parlare aramaico che è la lingua internazionale (l’aramaico per tanti secoli è stata la lingua dell’Oriente, prima del greco). Gli dicono: “parla in aramaico”; al livello di un rapporto diplomatico tra personalità che rappresentano due paesi – per quanto grande sia il divario tra il piccolo regno di Giuda e l’immenso impero assiro – si parla aramaico!. “Non parlare “judit”; non parlare ebraico, capiscono tutti”. Questo a conferma del fatto che sono in difficoltà e avvertono il precipitare della situazione dal punto di vista non solo militare, perchè materialmente le difese sono impraticabili, ma anche morale; oramai si intravede un crollo; c’è un disagio interiore che sta trascinando, nel suo inarrestabile movimento franoso, le coscienze. La gente che si sente dire queste cose non vedrà altra soluzione che quella di arrendersi o di scappare, se ancora fosse mai possibile. “Il gran coppiere replicò: “forse sono stato mandato al tuo signore e a te dal mio signore per dire tali parole o non piuttosto agli uomini che stanno sulle mura (io parlo proprio a loro!), i quali presto saranno ridotti a mangiare i loro escrementi e a bere la loro urina con voi?” V. 13. “Il gran coppiere allora si alzò e gridò in ebraico: “Udite le parole del gran re, del re di Assiria. Dice il re: non vi inganni Ezechia”; vedete, attraverso il generale assiro viene rivolta agli abitanti di Gerusalemme una proposta di liberazione: non c’è possibilità di scampo per voi, in nessuna direzione; tanto meno se pensate di confidare nel Signore vostro Dio; anzi, è proprio in nome del Signore vostro Dio che il re di Assiria può avanzare e distruggervi; non c’è possibilità di scampo; mentre, invece, è proprio il grande re di Assiria che si presenta a voi come liberatore, perchè – secondo l’interpretazione del generale assiro – non si tratta per voi di ottenere liberazione dalle mani del re di Assiria, ma è vero l’opposto: sono le mani del re di Assiria che vi libereranno!. Il re del grande impero si presenta come liberatore. Vedete come le situazioni si complicano, perchè qui non è in gioco lo scontro tra forze militari, una contrapposizione frontale, in base a interessi così rigidamente alternativi; qui è in gioco un conflitto che coinvolge l’intimo dei cuori e provoca un dissesto là dove le coscienze erano orientate ed erano stati messi a fuoco i punti di riferimento per interpretare ogni cosa ed erano radicati i criteri di quel discernimento da cui dipende il cammino della vita. Il gran re di Assiria è il vostro liberatore!
Dunque leggiamo dal v. 14 al v. 20: “Non v’inganni Ezechia, poichè egli non potrà salvarvi. Ezechia non vi induca a confidare nel Signore dicendo: certo il Signore ci libererà; questa città non sarà messa nelle mani del re di Assiria (non state ad ascoltare queste fandonie), non date ascolto a Ezechia, poichè così dice il re di Assiria: fate la pace con me e arrendetevi; allora ognuno potrà mangiare i frutti della propria vigna e del proprio fico e ognuno potrà bere l’acqua della sua cisterna...” (fate la pace con me e avrete la pace; avrete il benessere e sarete contenti di vivere, di sopravvivere, di far vivere ancora altri dopo di voi) “finchè io non venga per condurvi in un paese come il vostro, paese di frumento e di mosto, di pane e di vigne...” (qui, addirittura, l’accenno a un’ipotesi di esilio che viene descritta come una gioiosa emigrazione verso prospettive di benessere superlativo). “”Non vi illuda Ezechia dicendovi: il Signore ci libererà (vedete che è in questione quel discernimento che si radica nell’intimo dei cuori). Gli dei delle nazioni... (qui c’è un’esemplificazione che di per sè, nella sua concretezza immediata, è ritenuta risolutiva: i re degli altri popoli hanno fatto appello alle loro divinità e a che cosa è servito? Non vi illuda Ezechia) ... hanno forse liberato ognuno il proprio paese dalle mani del re di Assiria? Dove sono gli dei di Amat e di Arpad? Dove sono gli dei di Sefarvàim? Hanno essi forse liberato Samaria dalla mia mano? ... (Il regno di Israele è già caduto – 721 a.C., distruzione di Samaria - e in questo caso, addirittura, è implicato lo stesso Signore, perchè le tribù del Nord sono tribù di Israele; “hanno forse quelle divinità liberato Samaria dalla mia mano?”. Vedete: la mano del re di Assiria; non dovete liberarvi da me, dovete confidare in me; la mia mano non è la minaccia, è la liberazione per voi!). “... Quali mai, fra tutti gli dei di quelle regioni, hanno liberato il loro paese dalla mia mano? Potrà forse il Signore liberare Gerusalemme dalla mia mano?”. Nella mia mano non la minaccia ma la liberazione. Così fino al versetto 20.
E adesso, vv. 21-22: “Quelli tacquero e non gli risposero neppure una parola....” (sono sgomenti i tre plenipotenziari andati per dialogare con lui e che, poi, si sono trovati scavalcati dall’iniziativa prepotente del generale assiro, che ha parlato in ebraico facendosi capire da tutta la gente che stava assiepata sugli spalti) ... perchè l’ordine del re era: ‹‹non rispondetegli››. Eliakìm, figlio di Chalkìa, il maggiordomo, Sebnà lo scrivano e Ioach figlio di Asaf, l’archivista, si presentarono ad Ezechia con le vesti stracciate e gli riferirono le parole del gran coppiere”.
Ed ecco come si comporta il re (notate che, fino a questo punto, di Isaia non si è detto ancora niente).
Non temere: è storia di salvezza
Cap. 37, vv 1-3: “Quando udì, il re Ezechia si stracciò le vesti, si ricoprì di sacco e andò nel tempio del Signore (Ezechia è in preghiera). Quindi mandò Eliakìm il maggiordomo, Sebnà lo scrivano e gli anziani, dei sacerdoti ricoperti di sacco dal profeta Isaia, figlio di Amoz” (ecco che viene convocato Isaia), perchè gli dicessero: “Così dice Ezechia: giorno di angoscia, di castigo e di vergogna è questo, perchè i figli sono arrivati al punto di nascere, ma manca la forza di partorire...”. Ezechia, in preghiera, è addoloratissimo; ricapitola il momento tragico nel quale si trovavano gli abitanti di Gerusalemme e, tra questi, coloro che ricoprono posizioni di responsabilità, come lui stesso che deve registrare lo strazio di governare un regno che sta precipitando nella catastrofe più irreparabile. L’immagine che Ezechia utilizza per esprimere il travaglio suo e del popolo è quella della partoriente che è giunta al punto di generare, ma... non può generare. Un travaglio infecondo! E, così, Ezechia manda a dire a Isaia, v. 4: “Spero che il Signore tuo Dio, udite le parole del gran coppiere che il re di Assiria suo signore ha mandato per insultare il Dio vivente, lo voglia castigare per le parole che il Signore tuo Dio ha udito. Innalza ora una preghiera per quel resto che ancora rimane in vita”. Isaia è interpellato perchè si dedichi all’intercessione orante, perchè prenda posizione nella sua qualità di uomo di Dio, con la sua autorevolezza (Isaia è ormai anziano; son passati quasi quarant’anni dall’inizio del suo ministero). Ezechia gli chiede aiuto: prega, intercedi per noi; innalza un’invocazione al Signore “tuo” Dio per quel resto del nostro popolo che ancora sopravvive in questa città.
V. 5: “Così andarono i ministri del re Ezechia da Isaia”. E qui c’è l’intervento del nostro profeta; vv. 6-7: “Dice il Signore: non temere per le parole che hai udite e con le quali i ministri del re di Assiria mi hanno ingiuriato. Ecco io infonderò in lui il mio spirito tale che egli, appena udrà una notizia, ritornerà nel suo paese e nel suo paese io lo farò cadere di spada”. Vedete: un oracolo semplice, diretto, perentorio. In questa circostanza Isaia non elabora messaggi, non inventa immagini; non sembra quasi l’Isaia al quale siamo abituati, con quella sua eloquenza così affascinante, poetica e sapiente nella visione storica degli avvenimenti. Qui Isaia si limita a una semplice dichiarazione che, però, coglie il segno senza bisogno di ulteriori commenti: “non temere, perchè questa è una storia di salvezza”. Il suo intervento è tutto qui! E’ in atto un catastrofico disastro. Isaia non spiega meglio che cosa adesso accadrà; neppure lui è informato (poi gli avvenimenti prenderanno la piega che noi già conosciamo; ma i contemporanei non sanno come finirà l’assedio). Isaia qui ricapitola il suo intervento in un’affermazione che, essenziale e fondamentale com’è, ci aiuta in effetti a rieccheggiare tutto il contenuto teologico delle pagine che abbiamo letto precedentemente. Qui siamo in presenza del nucleo essenziale del messaggio: questa è una vicenda catastrofica, dici tu Ezechia? Ebbene, dice il Signore: “non temere per le parole che hai udite”, perchè questa è una vicenda nella quale Io – dice il Signore – mi impongo come protagonista; Io intervengo con il soffio, con lo spirito, con l’intransigente santità della mia iniziativa.
Sin dall’inizio del nostro lavoro ho cercato di anticipare l’esito della lettura che vi ho proposto quest’anno, utilizzando una formuletta che ho ripetuto insistentemente: “la salvezza non viene dopo o in alternativa alla catastrofe, ma proprio attraverso la catastrofe”. Questa è storia catastrofica? Questa è l’opera della Salvezza; è l’opera di Dio che si compie così, in modo tale da dare dimostrazione di come l’iniziativa è la sua e di come, nella santità della sua presenza, il Dio vivente conferisce a questa catastrofe in corso la fecondità di un’opera di salvezza.
Ezechia in preghiera : tu solo, Signore, sei il vero Dio
Andiamo avanti, con il secondo momento dell’episodio. Vv. 8-13: “Ritornato il gran coppiere, trovò il re di Assiria che assaliva Libna (il re nel frattempo, spazia a suo piacimento nel territorio circostante). Egli, infatti, aveva udito che si era allontanato da Lachis. Appena Sennàcherib sentì dire riguardo a Tiràka, re di Etiopia (il faraone): “E’ uscito per muoverti guerra” (movimenti al confine con l’Egitto), inviò di nuovo messaggeri a Ezechia per dirgli (il gran re di Assiria si rivolge, adesso, direttamente al re di Giuda): “Direte così a Ezechia, re di Giuda: non ti illuda il tuo Dio, in cui confidi, dicendoti: Gerusalemme non sarà consegnata nelle mani del re di Assiria; ecco tu sai quanto hanno fatto i re di Assiria in tutti i regni che hanno votato alla distruzione; soltanto tu ti salveresti? Gli dei delle nazioni che i miei padri hanno devastate hanno forse salvato quelli di Gozan, di Carran, di Rezef e la gente di Eden in Telassàr? Dove sono il re di Amat e il re di Arpad e il re della città di Sefarvàim, di Enà e Ivvà?”. Dunque tu, Ezechia, ti rivolgi al tuo Dio perchè vuoi – tu stesso – che lui ti inganni; ti inganni da solo, confidando nel tuo Dio come se volesse difenderti, quando in realtà nessuna divinità ha difeso i popoli che sono stati sconfitti nell’avanzata travolgente dei nostri eserciti.
Vv. 14-20: “Ezechia prese la lettera dalla mano dei messaggeri, la lesse, quindi salì al tempio del Signore (Ezechia ancora in preghiera nel tempio). Spiegato lo scritto davanti al Signore, lo pregò: “Signore degli eserciti, Dio di Israele, che siedi sui cherubini, tu solo sei Dio per tutti i regni della terra; tu hai fatto i cieli e la terra. Porgi, Signore, l’orecchio e ascolta; apri, Signore, gli occhi e guarda; ascolta tutte le parole che Sennàcherib ha mandato a dire per insultare il Dio vivente. E’ vero, Signore, i re di Assiria hanno devastato tutte le nazioni e i loro territori (questa è una realtà di fatto e, quindi, per gli abitanti di Gerusalemme, assediati, la prospettiva è tragica); hanno gettato i loro dei nel fuoco; quelli però non erano dei (così ragiona Ezechia: gli altri dei sono inconsistenti, sono realtà fasulle; non è così per te, che sei il Signore nostro Dio; quelli sono... ) solo lavoro delle mani d’uomo, legno e pietra; perciò li hanno distrutti. Ma ora, Signore nostro Dio, liberaci dalla sua mano perchè sappiano tutti i regni della terra che tu sei il Signore, il solo Dio”.
E qui, di nuovo, l’intervento di Isaia che, dal v. 21 al v. 35, si sviluppa adesso nella forma di un poema, che è stato inserito a questo punto, a sintesi dell’episodio, per conferirgli quel significato teologico che, poi, resterà come riferimento programmatico per tutta la storia del popolo di Israele e per tutta la storia umana. Leggiamo.
Intervento di Isaia: è Dio il protagonista della storia
Vv. 21-35: “Allora Isaia, figlio di Amoz, mandò a dire a Ezechia (qui è Isaia a prendere l’iniziativa): “Così dice il Signore, Dio di Israele: ho udito quanto hai chiesto nella tua preghiera riguardo a Sennàcherib re di Assiria. Questa è la sentenza che il Signore ha pronunciato contro di lui (vedete che Isaia è molto libero nei confronti del re; anzi, lo strapazza, con disinvoltura: “questa è la sentenza del Signore” e, cioè: “Parola del Signore!”. Ed ecco il poema, 1° strofa, vv. 22-23): Ti disprezza, ti deride la vergine figlia di Sion. Dietro a te scuote il capo la figlia di Gerusalemme. Chi hai insultato e schernito? Contro chi hai alzato la voce e hai elevato, superbo, gli occhi tuoi? Contro il Santo di Israele!”. Gerusalemme è descritta come una ragazza che si fa beffe del presunto conquistatore: con chi pensi di trattare tu? Non ti sei accorto che hai di fronte a te il Santo di Israele?!
2° strofa, vv. 24-25; ecco come Isaia descrive la figura del re di Assiria: “Per mezzo dei tuoi ministri hai insultato il Signore e hai detto: “Con la moltitudine dei miei carri (bisognerebbe inserire qui il pronome personale “io”, che ritorna all’inizio del v. 25 ed è un po’ il perno intorno al quale ruota la strofa: il re di Assiria è colui che fa di se stesso e del suo proprio io, della sua soggettività autoreferenziale, un valore assoluto) sono salito in cima i monti, sugli estremi gioghi del Libano, ne ho reciso i cedri più alti, i suoi cipressi migliori; sono penetrato nel suo angolo più remoto, nella sua foresta lussureggiante. Io ho scavato e bevuto acque straniere, ho fatto inaridire con la pianta dei miei piedi tutti i torrenti dell’Egitto”. Io: il re di Assiria. Osservate come la sua figura – che pure è così storicamente precisa – acquisti anche un valore emblematico, universalissimo: “Io”. Ma chi sei tu?. E notate che queste cose Isaia, direttamente, non le sta dicendo al re di Assiria, bensì ad Ezechia il quale – pur essendo un uomo di preghiera che, devotamente, si è andato a raccogliere nel tempio – nel suo comportamento dà spazio a sentimenti quanto meno ambigui, se non proprio negativi, che dimostrano come nel suo modo di sentire, di pensare, di interpretare le cose vi sia disponibilità a prendere sul serio la pretesa del gran re assiro di ergersi e di imporsi come padrone del mondo. Isaia si rivolge al re Ezechia e gli dice: “ma chi è lui, che dice “Io”?. Ma, intanto, quale complicità il re d’Assiria ha già ottenuto nell’animo tuo, quale riscontro tu gli hai già manifestato, tanto da considerare la sua affermazione di potere come il valore rispetto al quale adeguarti?.
Isaia prosegue, 3° strofa, vv 26 e 27: “Non l’hai forse sentito dire? Da tempo ho preparato questo, dai giorni antichi io l’ho progettato... (il soggetto è il Signore; Isaia spiega che gli eventi che si stanno svolgendo in questo modo – oggettivamente così terrificante e così pericoloso – non sfuggono minimamente al protagonismo del Signore); ora lo pongo in atto . Era deciso che tu riducessi in mucchi di rovine le fortezze; i loro abitanti impotenti erano spaventati e confusi, erano come l’erba dei campi, come tenera verzura, come l’erba dei tetti, bruciata dal vento d’oriente”. Il re d’Assiria è semplicemente uno strumento nelle mani del Signore; anche il re d’Assiria si inserisce all’interno di un disegno che è immensamente più grande e più lungimirante; provvidenziale, rivelazione del Santo. E adesso – 4° strofa – Isaia, a distanza, interpella in nome del Signore direttamente il re di Assiria, vv. 28 e 29: “Io so quando ti alzi e ti metti a sedere; io so di te quando tu esci e quando tu entri. Poichè tu infuri contro di me e la tua insolenza è salita ai miei orecchi, ti metterò il mio anello nelle narici (il re di Assiria è come una belva domata) e il mio morso alle labbra; ti farò tornare per la strada per cui sei venuto”. Tu sei una belva ferocissima, ma una belva incatenata, addomesticata, costretta a sottostare alle regole imposte dal domatore; questo sei tu e io ti conosco. Attraverso Ezechia, questo il Signore manda a dire al re di Assiria, che sta accampato nel territorio circostante; quel re che ha già suscitato innumerevoli complici nei cuori di coloro che abitano a Gerusalemme, addirittura di quelli che hanno ruoli di responsabilità nella città, come lo stesso Ezechia; anche lui, come noi!. Sì, anche noi siamo già abituati a prendere sul serio le pretese del gran re, come se costituissero il riferimento valido per interpretare tutto in modo esauriente, definitivo. Invece quel re è una belva domata, spiega Isaia a Ezechia; lo spiega al cuore umano, al cuore di tutti. Isaia è profeta – vedete – in quanto interviene con questa originale testimonianza: nel momento in cui il gran re di Assiria fa quello che vuole, Isaia è impegnato ad affrontare il cuore degli uomini per spiegare che il re d’Assiria è sconfitto.
5° strofa, dal v. 30 a 32: “Questo ti serva da segno: si mangerà quest’anno ciò che nascerà dai semi caduti (qui è direttamente interpellato Ezechia: quest’anno la semina è avvenuta regolarmente), nell’anno prossimo quanto crescerà da sè (non sarà possibile seminare) ma nel terzo anno seminerete e mieterete, pianterete vigne e ne mangerete il frutto (nel terzo anno tutta l’attività prevista nel ciclo delle coltivazioni si svolgerà regolarmente). Ciò che scamperà della casa di Giuda continuerà a mettere radici in basso e a fruttificare in alto. Poichè da Gerusalemme uscirà un resto, dei superstiti dal monte Sion. Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti”. Chi è protagonista? Il Signore degli eserciti, è lo zelo, la kinà; è la gelosia del Signore, è la fedeltà del Dio vivente alla sua eterna volontà d’amore.
E ancora, ultima strofa, vv. 33-35: “Pertanto dice il Signore contro il re d’Assiria: non entrerà in questa città nè vi lancerà una freccia, non l’affronterà con gli scudi nè innalzerà contro di essi un terrapieno”. Gerusalemme non cadrà, così come di fatto andranno le cose, almeno per questa volta. Notate, però, che questo annuncio, per come è impostato il racconto, acquista un valore definitivo, irrevocabile; per quanto potrà succedere che Gerusalemme sia invasa, conquistata, devastata, resta vero che la Parola del Signore illumina già una prospettiva ulteriore che sposta il criterio valido per interpretare ogni cosa ben oltre la catastrofe in corso, perchè questa non è la storia della catastrofe, ma della salvezza; è la parola del Signore, lo zelo del Dio vivente, la gelosia del Signore degli eserciti che fanno questo. E il re d’Assiria “ritornerà per la strada per cui è venuto; non entrerà in questa città. Oracolo del Signore: Io proteggerò questa città e la salverò, per riguardo a me stesso e al mio servo Davide”.
Vv. 36-38: “Ora l’angelo del Signore scese e percosse nell’accampamento degli Assiri centottantacinquemila uomini (come vi suggerivo inizialmente l’interpretazione più plausibile è che si sia trattato di un’epidemia scatenatasi nell’accampamento assiro). “Quando i superstiti si alzarono al mattino, erano tutti cadaveri. Sennàcherib, re d’Assiria levò le tende e partì; tornato a Ninive, rimase colà. Ora, mentre egli era prostrato in venerazione nel tempio di Nisrok, suo dio, i suoi figli Adram, Mèlech e Zarèser lo uccisero di spada, mettendosi quindi al sicuro nel paese di Ararat (una congiura a palazzo e Sennàcherib verrà trucidato e un altro sovrano subentrerà). Assarhàddon suo figlio regnò al suo posto”.
La nostra debolezza è dimora del Signore
Il 2° episodio (cap. 38 dal v. 1 al v. 22) riguarda direttamente Ezechia – che già ha svolto un ruolo importantissimo nell’episodio precedente – il quale un paio d’anni prima, nell’anno 703 a.C., si ammalò gravemente. Torniamo, quindi, indietro di due anni. “In quei giorni Ezechia si ammalò gravemente”. Si tratta di una malattia gravissima che insidia mortalmente la vita del sovrano che è relativamente giovane (circa 35 anni). Questo è il racconto e, in questo contesto, di nuovo l’intervento di Isaia: “Il profeta Isaia, figlio di Amoz, si recò da lui e gli parlò: “Dice il Signore: disponi riguardo alle cose della tua cosa perchè morirai e non guarirai (che la malattia sia gravissima lo sanno tutti e Isaia è esplicito: “fai testamento perchè non vivrai”).
“Ezechia allora voltò la faccia e pregò il Signore. Egli disse: ‹‹Signore, ricordati che ho passato la vita dinanzi a te con fedeltà e con cuore sincero(Ezechia affronta la gravità del momento; si volge contro la parete che, proprio anche fisicamente, raffigura un impedimento, un blocco; nel cammino della vita è giunto al momento in cui gli si impone una scadenza insormontabile). Ho compiuto ciò che era gradito ai tuoi occhi››. Ezechia pianse molto (Ezechia non vuole morire per il momento e prega, si lamenta, piange). Allora la parola del Signore fu rivolta a Isaia (ritorna Isaia: è la parola del Signore rivolta a un uomo che non sfugge all’urgenza prossima della morte che incombe): ‹‹va e riferisci a Ezechia: dice il Signore di Davide tuo padre: Ho ascoltato la tua preghiera e ho visto le tue lacrime; ecco io aggiungerò alla tua vita quindici anni. Libererò te e questa città dalla mano del re d’Assiria (l’assedio avrà luogo l’anno dopo e si prolungherà per un anno fino al 701 a.C.) , proteggerò questa città. Da parte del Signore questo ti sia come segno che egli manterrà la promessa che ti ha fatto (qui, probabilmente, occorre inserire i versetti 21 e 22: Isaia usa un impiastro di fichi da applicare sulla ferita; chissà che malattia era; chissà come era combinato il povero Ezechia; un impiastro di fichi, una specie di terapia naturale; ed Ezechia domanda “quale sarà il segno?” – v. 22. Ritorniamo al versetto 7): Da parte del Signore questo ti sia come segno che egli manterrà la promessa che ti ha fatto (qui il termine è “davar”, “parola”; “la parola che ti ha fatto”). Ecco, io faccio tornare indietro di dieci gradi l’ombra sulla meridiana, che è già scesa con il sole sull’orologio di Acaz››”. Non è chiaro che cosa qui Isaia indichi come segno. Quello che è evidente, comunque, è che lo spazio e il tempo della morte di ogni uomo sono occupati dal Signore. Il Signore interviene lui, abita lui, prende dimora lui in quelle che sono le misure della nostra condizione mortale e della nostra chiamata a morire. La guarigione imprevista; la maggiore o minore efficacia della terapia; la reazione più o meno positiva dell’organismo malato...; è inutile andar dietro a questi aspetti dell’evento. Dice Isaia: “vedi che il Signore esercita la sua sovranità sulla tua morte. I tempi, i passaggi, le scadenze della tua morte; le misure del tuo vissuto umano fino alla morte, il Signore se ne prende cura; il Signore interviene, è all’opera”. Qui - di fatto e per il momento - Ezechia non muore, ma Isaia gli annuncia: “tu muori, ma quel che conta per te, come per me (come per tutti noi e per quelli che verranno), è scoprire come è vero che anche nella nostra morte noi apparteniamo al Signore e che anche nella nostra morte si impone la vittoria del Vivente”. Quel che conta non è avere dato una spallata alla morte e averla rinviata di qualche mese o di qualche anno. Quel che conta è incontrare il Vivente che ha deciso, nella gratuità della sua volontà d’amore, di venire ad abitare anche nella nostra morte.
Lui, il Vivente, è sempre – sapete – quella certa chiave interpretativa della teologia del nostro profeta che richiamavo ancora poco fa e che ritorna: nella catastrofe la salvezza; e questo non per qualche automatismo che possiamo inventare noi; anzi, non l’avremmo mai immaginato, mai pensato, mai sospettato; non saremmo neanche in grado di desiderarlo questo; sfugge a qualunque nostra possibilità di argomentare. Ma proprio questa è la novità che ci è stata rivelata: nella nostra catastrofe – a cui noi, da parte nostra, non possiamo sfuggire – la Santità del Dio vivente irrompe e si afferma vittoriosa.
Si strappa la tela della vita; in te spera il mio cuore
E qui, nei versetti da 9 a 20, il famoso “Cantico di Ezechia” (dico famoso perchè è uno dei testi che sono inseriti nella preghiera delle lodi, nell’ufficio dei defunti). Il cantico che leggiamo adesso rapidamente.
“Cantico di Ezechia, re di Giuda, quando cadde malato e guarì dalla malattia”. E’ in quattro strofe; la prima è il racconto della disgrazia nella quale Ezechia è incappato; dal versetto 10 al 12: “Io dicevo: a metà della mia vita (è il verso che ha ispirato Dante nell’avvio della Divina Commedia; ‹‹Nel mezzo del cammin di nostra vita...››Dante sta citando Isaia 38, 10, non si sfugge) me ne vado alle porte degli inferi; sono privato del resto dei miei anni (sto scendendo all’inferno, è finita, dice il nostro Ezechia). Non vedrò più il Signore sulla terra dei viventi, non vedrò più nessuno fra gli abitanti di questo mondo. La mia tenda è stata divelta e gettata lontano da me, come una tenda di pastori. Come un tessitore hai arrotolato la mia vita, mi recidi dall’ordito. In un giorno e in una notte mi conduci alla fine››”. Tanta fatica per nulla; sembra proprio questa la conclusione. Rapporti sociali senza più sviluppo, senza residui; tanto impegno per costruirmi una dimora che adesso è divelta come una tenda qualunque, spazzata via dal vento; o tanto impegno per tessere una tela – questa è l’immagine nella quale Ezechia ricapitola il cammino della sua vita – e poi un taglio; ed ecco, in modo così energico e spietato, la tela viene strappata dal telaio, mentre ancora era in fase di tessitura. E in ogni caso, vedete come Ezechia è in relazione diretta con il Signore e vedete come Ezechia interpreta il senso degli eventi in rapporto all’iniziativa del Signore; non capisce come mai le cose vadano in questo modo – lo dice con animo dolente, amareggiato – ma non c’è dubbio: quel che mi sta capitando ti riguarda o Signore!
Seconda strofa, versetti da 13 a 16: “Io ho gridato fino al mattino. Come un leone, egli così stritola tutte le mie ossa (ecco io mi sono rivolto a te: un grido? Un lamento? Un singhiozzo? Addirittura, poi, il lamento diventa il pigolio di un uccellino che non ce la fa più). Come una rondine io pigolo, gemo come una colomba. Sono stanchi i miei occhi di guardare in alto (trascorre la notte insonne). Signore, io sono oppresso; proteggimi. Che dirò? Sto in pena poichè è lui che mi ha fatto questo. Il sonno si è allontanato da me per l’amarezza dell’anima mia” (sembra un’affermazione blasfema: “è Dio che ce l’ha con me”, ma non è così. In realtà Ezechia non sta bestemmiando, ma sta parlando di sè al Signore, presentandogli il suo dramma, con tutti gli interrogativi che, dal suo punto di vista, sono insolubili). “Signore, in te spera il mio cuore; si ravvivi il mio spirito. Guariscimi e rendimi la vita”. Dunque Ezechia supplica. Mentre si rende conto di essere stritolato, in una morsa cui comunque non può sfuggire; laddove scorge il leone che lo vorrebbe sbranare, Ezechia continua a riconoscere e a contemplare la presenza del Dio Vivente, che si afferma come protagonista. E tutto quello che mi è dato da patire fino al gemito per cui non ho più fiato, fino alla voce ridotta al silenzio, fino al dolore non più comunicabile, fino all’insonnia che quasi quasi mi si presenta come l’invito a morire per mettere fine alla sofferenza... Signore in te il mio cuore!
La morte è evento universale
Terza strofa, versetto 17: “Ecco, la mia infermità si è cambiata in salute! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa della distruzione, perchè ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati”. Ezechia rievoca il fatto della sua liberazione (la morte rinviata di quindici anni, come già sappiamo in base al racconto); ma, vedete, qui il dato essenziale è, ancora una volta, questo “Tu”: “Tu hai preservato la mia vita”. Il punto decisivo è che, laddove io sperimento il fallimento delle mie cose con disgusto e avverto di essere sconfitto dentro a un vortice di miserie, “Tu” ti fai carico del mio fallimento; hai gettato dietro le spalle i miei peccati, nel senso che te li sei caricati “Tu” e nel senso che “Tu” intervieni là dove io sono costretto a misurare lo strazio irreparabile della mia sconfitta. Il nodo si stringe qui: tu ti fai carico del mio fallimento e non perché oramai il miracolo è avvenuto – se di miracolo si deve parlare – e la morte è rinviata di qualche anno(ma poi comunque Ezechia morirà). Il nodo che qui si sta stringendo è un altro ed è così che Ezechia canta, adesso, in consonanza con l’oracolo che Isaia profeta ha proclamato, con quelle parole che Ezechia ha ricevuto e, con lui, ogni uomo che muore. Gli episodi che stiamo considerando e che sono così precisi, circoscritti, particolari, acquistano una valenza di universalità sconfinata; perchè? Ma perchè non c’è evento che sia più universale della morte!
Preannuncio del Mistero pasquale: la morte è ancella della vita
Quarta strofa, dal v. 18 e arriviamo in fondo.
“Poichè non gli inferi ti lodano, nè la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà (l’alternativa alla morte, in questo caso, non è più semplicemente “non morire” – nel senso che la morte è rinviata di qualche tempo – ma è “lodare il Signore”; chi loda il Signore non muore, perchè anche nella morte è la Santita del Dio Vivente che si impone sovrana e vittoriosa!). Il vivente, il vivente ti rende grazie come io oggi faccio (è come se Ezechia dicesse: “Io oggi sono “apprendista” in questa prospettiva che coinvolge tutto della mia povera vita affaticata, stanca e derelitta; di questa mia povera vita piagata, immiserita e corrotta; di questa mia storia di peccatore e di questa catastrofe che si trascina di generazione in generazione e di questo mondo così scompensato e inquinato; questo faccio io: ti rendo grazie e ti lodo). Il padre farà conoscere ai fini la tua fedeltà” (questo, vedete, diventa il patrimonio che val la pena di lasciare in eredità ai figli: “la tua fedeltà”). Il Signore si è degnato di aiutarmi; per questo canteremo sulle cetre tutti i giorni della nostra vita, canteremo nel tempio del Signore”. In questo canto di Ezechia sta esattamente la testimonianza della sua relazione con il Signore, per cui è condotto a entrare nella pienezza della vita; e ciò non perchè – ripeto – morirà solo quindici anni più tardi, ma perchè oramai, in questo mondo, non c’è creatura umana che muoia, che si dissolva, che crepi, la quale sia sottratta alla potenza vittoriosa del Dio Vivente. Adesso comprendiamo meglio, e in modo più autorevole, l’essenza di quella terapia che era descritta come un impiastro di fichi da applicare alla ferita in cancrena: essa consiste, esattamente, nell’apprendere il canto della lode per, poi, poterlo trasmettere di generazione in generazione. Mentre l’abisso infernale si chiude nel mutismo, ecco il canto della lode che passa attraverso le generazioni e rieccheggia la parola di Dio con inesauribile eloquenza. Il nostro profeta Isaia – l’obbediente servitore della parola del Signore – ha a che fare con la storia degli uomini così sconvolta, ieri come oggi; con la durezza del cuore umano, che si asserraglia nel suo egoismo ferocissimo.
La Parola di cui Isaia è servitore rivela come, proprio attraverso questo disastro che si manifesta senza risparmiare niente e nessuno, l’opera della salvezza si afferma vittoriosa; l’intenzione di Dio si realizza; la Santità del Dio Vivente regna. E’ il Mistero Pasquale, vedete, che il nostro Isaia sta già contemplando a modo suo, con il suo linguaggio e, naturalmente, anche con le incertezze e con le ombre che sono inevitabili nella sua posizione; ma è il Mistero Pasquale che il nostro Isaia sta, man mano, annunciando, proclamando, evangelizzando, là dove la morte è stata resa, essa stessa, docile servitrice della vita. Non c’è altro evangelo di salvezza!
Una grande luce splende sulla scena del mondo
Ultime righe e mi fermo. Cap. 39: è il terzo episodio, brevissimo, ma anche efficacissimo.
Vv. 1-7: “In quel tempo Merodach-Bàladan, figlio di Bàladan, re di Babilonia, mandò lettere e doni a Ezechia, perchè aveva udito che era malato ed era guarito...”. Il re di Babilonia è informato della guarigione di Ezechia (tutto avviene in quei mesi - dal 703 al 701 a.C. - quando, poi, ci sarà l’assedio di Gerusalemme) e manda messaggeri per congratularsi. Dietro questa spedizione diplomatica c’è un preciso interesse politico: il regno di Babilonia rientra nel novero di quelli minacciati dall’espansionismo assiro e, quindi, il suo re si sta preparando come guida di un’alleanza antiassira che dovrebbe raccogliere la partecipazione di diversi regni dislocati lungo i confini dell’impero in espansione. “... Ezechia se ne rallegrò e mostrò agli invitati la stanza del tesoro, l’argento e l’oro, gli aromi e gli unguenti preziosi, tutto il suo arsenale e quanto si trovava nei suoi magazzini; non ci fu nulla che Ezechia non mostrasse loro nella reggia e in tutto il regno”. Ezechia sa bene che l’intenzione degli ambasciatori del re di Babilonia è quella di rendersi conto dei mezzi di difesa di cui egli dispone e, così, fa loro visitare tutto ciò che può essere utile ad una piena conoscenza della situazione. A questo punto interviene il profeta che non ha peli sulla lingua: “Allora il profeta Isaia si presentò al re Ezechia e gli domandò: “Che cosa hanno detto quegli uomini e da dove sono venuti a te?” Ezechia rispose: “Sono venuti a me da una regione lontana, da Babilonia”. Isaia disse ancora: “Che cosa hanno visto nella tua reggia?”. Ezechia rispose: “Hanno visto quanto si trova nella mia reggia. Non c’è cosa alcuna nei miei magazzini che io non abbia mostrata loro”. Osservate che, in questo contesto, Ezechia si mostra ancora piuttosto fiero dei suoi mezzi, dei suoi depositi, delle sue armi accantonate negli arsenali, quando poi, di lì a poco tempo, l’esercito assiro si muoverà Ezechia – già lo sappiamo – tremerà come una foglia! E, adesso, l’oracolo del nostro profeta (v. 5): “Allora Isaia disse a Ezechia: “Ascolta la parola del Signore degli eserciti: ecco, verranno giorni nei quali tutto ciò che si trova nella tua reggia e ciò che hanno accumulato i tuoi antenati fino ad oggi sarà portato a Babilonia; non vi resterà nulla, dice il Signore, prenderanno i figli che da qui saranno usciti e che tu avrai generati per farne eunuchi nella reggia di Babilonia”. Isaia intravede nell’avvenire un’ombra cupa che proviene proprio da Babilonia e vede giusto. Glielo dice il suo intuito politico, ma anche ormai la raggiunta conoscenza del cuore umano e la sua capacità di leggere il significato degli eventi, così come si dispiegano nel corso della storia. Lui vede che Babilonia – che oggi si presenta come un alleato - nel giro di qualche generazione diventerà il padrone, che inghiottirà e strazierà tutto. Al di là della precisione nel descrivere in anticipo eventi futuri, certamente Isaia coglie nell’avvenire quest’ombra oscura che incombe e la indica a Ezechia: è inutile che tu adesso gongoli tanto per il fatto di aver trovato un alleato che, tra l’altro, risulterà del tutto inconsistente nei confronti del pericolo assiro; attenzione a Babilonia.
Siamo all’ultimo versetto del cap. 39 e della prima parte del libro (v. 8): “Ezechia disse a Isaia: ‹‹Buona è la parola del Signore che mi hai riferita....››”.
Strano! Noi diremmo che questa parola è una parola disastrosa, sferzante, insidiosa. Ma come? Isaia dice al povero Ezechia, appena guarito dal suo malanno e tutto contento di aver trovato un alleato contro l’Assiria, che proprio quell’alleato sarà il suo vero prossimo nemico e lui definisce “buona” la parola del Signore! Sì, perchè una grande luce splende sulla scena del mondo, perchè la parola del Signore è “buona”. “... Egli pensava: ‹‹Per lo meno vi saranno pace e sicurezza nei miei giorni››. Noi qui commenteremmo: “ecco l’irresponsabilità di chi, sull’orlo della catastrofe, dice: “Beh, almeno io me la spasso!”. Ma Ezechia non sta dicendo questo; lui in realtà dice: “oggi la scena del mondo è illuminata perchè la parola di Dio oggi risuona attraverso il profeta”.
Ecco: pace e sicurezza, shalom, oggi. Buona è la parola del Signore che mi hai riferita. La parola è buona perché quel che conta è constatare come la nostra storia di oggi sia illuminata dalla parola del Signore. Il profeta è inviato proprio per questo motivo. E questa storia di oggi, nella parola del Signore trova motivo di consolazione. Una povera storia, una storia penosa, una storia che può condurci fin dentro alle catastrofi più sconvolgenti. La parola del Signore ci accompagna, e fa di questa nostra storia, oggi, un dono per cui lodarlo e ringraziarlo. L’opera di Dio si compie per instaurare la pace secondo la sua intenzione d’amore. Il profeta è intervenuto, ed Ezechia nella precarietà dei suoi giorni ringrazia anche Isaia, così come è necessario in primo luogo e costantemente ringraziare il nome santo del Signore.