Martedì 1 febbraio 2005
Nel nostro ultimo incontro, prima di Natale, abbiamo concentrato l’attenzione su tre grandi oracoli messianici. Siamo sempre alle prese con i primi 12 capitoli del libro di Isaia, che possiamo definire come una prima “sezione” la quale, nel contesto complessivo di uno scritto tanto ampio e imponente, ci fornisce gli elementi essenziali della teologia del profeta così come, man mano, si viene esplicitando nel corso della sua predicazione. E’ una predicazione diversa da come noi l’intendiamo correntemente, cioè nel senso di qualcuno che sale sul pulpito e annuncia un messaggio; si tratta di un’attenzione verso gli avvenimenti in corso, di una presenza contemplativa, riflessiva nei fatti della storia contemporanea, che si trasforma, poi, in una testimonianza; qualche volta in forma orante, in altri casi nella forma di intervento nei confronti di qualche personalità (può darsi che Isaia si rivolga, addirittura, allo stesso re di Giuda) o ad altri interlocutori ma, comunque, non in quella veste così “liturgica” che per noi è tipica della predicazione. E non si tratta nemmeno della predicazione “di strada”: è proprio un contatto diretto, vivo, immediato, dialogante, che consente a Isaia di trasferire la sua contemplazione nel linguaggio, attraverso il quale egli cerca indubbiamente ascoltatori, senza, però, alcuna pretesa di ufficialità e, oltre tutto, con la necessità di fare i conti – sempre in modo anche drammatico – con la sordità dei propri interlocutori, con il loro disinteresse e disimpegno; insomma, con la durezza del cuore umano. Isaia è tutto preso dalla contemplazione del Santo, del Vivente che è all’opera come protagonista della storia umana. Ebbene, quanto più Isaia è immerso in questa relazione, tanto più si accorge di essere coinvolto in una storia sbagliata. Da ciò non si sente autorizzato ad ergersi a giudice, ma piuttosto come profeta – che, del resto, è la sua identità, la sua vocazione e la sua missione – e come interlocutore che fornisce ai propri contemporanei i criteri interpretativi di ciò che sta accedendo. E che cosa sta succedendo? Che l’opera di Dio in questa storia sbagliata – che è la nostra – apre strade nuove, originalissime, di liberazione e di salvezza; strade che conservano l’originaria intenzione d’amore di Dio: per questo ha fatto alleanza, per questo incalza ancora, oggi e qui! Ebbene – vedete – è in corso un’opera di salvezza che si sta realizzando, proprio là dove i dati oggettivi della nostra storia contemporanea – nel piccolo ambito personale, così come nei grandi avvenimenti d’ordine internazionale – manifesta la gravità di un fallimento e di un tradimento; un disastro che ci casca addosso, con conseguenze devastanti e irreparabili, se non fosse vero che proprio quel contesto catastrofico, di cui noi siamo responsabili e in cui siamo coinvolti, si configura, per il nostro profeta, come lo scenario nel quale opera la Santità del Dio vivente. E’ l’opera della Salvezza!
Ci salva la catastrofe
Ho usato più volte una specie di “formula”, che ripropongo adesso per ripartire nella nostra ricerca questa sera : la salvezza, opera di Dio nella storia umana, non ci viene donata in alternativa alla catastrofe, né in un momento successivo rispetto ad essa, ma giunge a noi proprio attraverso la catastrofe, rispetto alla quale – oltre tutto - non ci sono vie di scampo. E’ la teologia di Isaia, teologia profetica; è la sua predicazione. Una predicazione che – come accennato - assume direttamente l’impegno di confrontarsi con i dati oggettivi della vicenda in atto, anche se questi dati – che il profeta riesce a leggere in modo molto lucido e penetrante – sembrano incontrare il totale disinteresse di quasi tutti gli altri con i quali Isaia ha a che fare, oppure vengono da questi letti secondo criteri interpretativi diversi. Isaia però insiste. Ricordate come, nel suo linguaggio teologico, il profeta abbia ribadito il valore della promessa messianica, che è uno dei riferimenti imprescindibili nella storia del suo popolo, da Davide in poi. Abbiamo già visto, la volta scorsa, i tre grandi oracoli messianici, contenuti nei capitoli 7, 8, 9, 10, 11, fino a quel capitolo 12, che segna la conclusione di questa prima ampia sezione del libro di Isaia, nella quale tutto ruota attorno a quel racconto che abbiamo letto sin dal nostro primo incontro, a novembre, nel capitolo 6: la narrazione della cosiddetta “vocazione di Isaia”, là dove il profeta nel tempio partecipa al culto e vede “il Signore seduto su un trono alto ed elevato” (v.1), e i serafini, con sei ali, che attorno a Lui “proclamavano l’uno all’altro : “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria” (v.3). E, proprio nel capitolo 6, Isaia, in relazione così diretta con il Mistero del Dio vivente che incalza, che irrompe, che penetra, che riempie la terra, che prende parte – come “Signore degli eserciti” e protagonista della storia – agli eventi che sono in corso; proprio in questa sua esperienza primigenia, Isaia è già spettatore di un fallimento storico clamoroso. D’altro canto il cap. 6 – ricordate – si concludeva con quell’affermazione che, ora, possiamo riprendere come ritornello, nel nostro tentativo di leggere e interpretare i diversi interventi del profeta all’interno di questi dodici capitoli: “Progenie santa sarà il suo ceppo” (v.13). Il ceppo della quercia abbattuta. Precisamente là dove la quercia è ridotta al ceppo … “Progenie santa!”
Il Libro dell’ Emmanuele
La raccolta degli interventi del profeta contenuti nei primi dodici capitoli (più specificamente, nei cap. dal 6° al 12°, ma si può allargare lo sguardo su tutta l’intera sezione), viene spesso intitolata come “il libro dell’Emmanuele”, il Dio-con-noi. E’ il titolo che viene, senz’altro attribuito al Messia. La teologia della promessa messianica, per il nostro profeta, diventa una conferma della sua fondamentale intuizione: l’opera della Salvezza si compie. “Malgrado” il fallimento nel quale stiamo precipitando? No, proprio attraverso di esso! Le promesse del Signore sono irrevocabili; la sua scelta è definitiva, il Figlio annunciato a Davide viene, e tutta la storia, non solo del nostro popolo, ma quella dell’intera umanità, si ricapitola in rapporto a Lui, protagonista, Emmanuele, Dio-con-noi.
Questa sera vi propongo di fare come una corsa attraverso questi capitoli. C’è dinanzi a noi uno scenario piuttosto ampio: abbiamo letto, nel capitolo 5, il “cantico della vigna” e, poi, nel capitolo 6, il racconto della “vocazione”; prima di Natale, abbiamo letto – nei capitoli da 7 a 11 – tre oracoli messianici. Abbiamo, dunque, scandagliato il testo dei primi 12 capitoli, lasciando però da parte molte pagine che non sono affatto insignificanti. Vorrei soffermarmi su alcune di esse.
Una grandinata di minacce.
Prendiamo il capitolo 5, nel quale abbiamo già letto – come ricordavo poco fa – il famoso “cantico della vigna”. E’ un cantico d’amore. La vigna è il popolo amato dal Signore. Ma il popolo dell’alleanza è venuto meno al proprio impegno, ha tradito la vocazione ricevuta, ha rinnegato quella gratuita testimonianza d’amore che il Signore gli ha comunicato; ne è venuta fuori una storia aberrante. Nel v. 7 si esce dalla metafora: “la vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Vedete che disastro! Dal versetto 8, fino al v. 24, si sviluppa un testo che è scandito dalla ripetizione di un richiamo che annuncia sventura: “guai”. C’è una sequenza di sei “guai” che - badate bene- sono le risonanze di quel cantico d’amore; un attestato di indefettibile coerenza dell’iniziativa del Signore, che ha fatto alleanza con il suo popolo. Ebbene, le risonanze di quel cantico d’amore : guai, guai…. per sei volte. Sei, una sequenza imperfetta (ci sarà, più avanti, un settimo “guai”, come constateremo tra poco). Ma, insisto, questi “guai” sono interni a quella dichiarazione d’amore che il Signore ha ancora ribadito nei confronti della sua vigna (che è il popolo dell’alleanza!). Questo è il senso della storia in corso: storia di un amore tradito; e l’insistenza su questa grandinata di “guai”, con tutte le conseguenze disastrose che bisogna registrare, ha il valore di una conferma dell’autenticità di quell’impegno d’amore che sta all’inizio di tutto. E’ tanto vero che la storia di questo popolo è determinata dal dono d’amore che ha ricevuto, che il rifiuto di questo amore di traduce in una esperienza catastrofica per il popolo; tuttavia, attraverso l’esperienza di tante sciagure, quell’amore è confermato nel suo valore, nella sua autenticità, nel suo rigore, nella sua intensità, nella sua gratuità assoluta, irrevocabile. Vedete, non c’è la ricerca di un aggiustamento. Perché “guai”? Perché il riscontro, nel popolo, di quell’amore che rimane – e che tuttora incalza e preme – è l’esperienza di una sconfitta che, poi, si sfaccetta in innumerevoli situazioni avvilenti: compromessi, complicazioni, disagi, tristezze, miserie, piccole e grandi, nel vissuto personale come nell’organizzazione della società e nelle relazioni internazionali… Insomma: non funziona niente! E il motivo è che l’amore è stato tradito; ma questa esperienza di disfunzione globale, porta in sé la nascosta consapevolezza di quanto quell’amore fosse – e sia tuttora – autentico. E’ proprio questa consapevolezza che il profeta intende richiamare alla luce. Quell’amore era vero? Quell’amore “è” vero, e tale rimane. E di quella verità e autenticità; di quella fedeltà e intransigente gratuità d’amore, noi ci rendiamo conto proprio attraverso la presa di coscienza dell’enormità del guaio che devasta la nostra storia, personale e di popolo. Leggiamo.
I sei “guai”.
Primo “guai”, dal v. 8 al v. 10, con l’aggiunta del v. 17:”guai a voi, che aggiungete cosa a cosa e unite campo a campo…” (si accenna al fenomeno di latifondisti che si appropriano indebitamente di terreni altrui) “…finchè non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nel paese” (c’è posto solo per voi!). “Ho udito con gli orecchi il Signore degli eserciti: - certo, molti palazzi diventeranno una desolazione, grandi e belli saranno senza abitanti – “
“Poiché dieci iugeri di vigna produrranno solo un bat e un comer di seme produrrà un’efa”–; ciò che si presentava come un progetto di arricchimento smisurato e incontestabile, si trasforma in una storia di miseria, per la quale ci si trascina penosamente, registrando fallimenti inimmaginabili. Leghiamo al v. 10 il v. 17 (che, forse, nella redazione, è stato spostato dal suo contesto) “…allora vi pascoleranno gli agnelli come nei loro prati, sulle rovine brucheranno i capretti”. Quanto si credeva fonte di ricchezza, è divenuto terreno abbandonato al pascolo di animali, non si sa bene più di chi!
Secondo “guai”, dal v. 11 al v. 16: “Guai a coloro che si alzano presto al mattino e vanno in cerca di bevande inebrianti e si attardano alla sera accesi in volto dal vino” (sono i cultori del benessere, che si entusiasmano come forsennati nella ricerca di soddisfazioni empiriche, immediate, e di gratificazioni inebrianti). “Ci sono cetre e arpe, timpani e flauti e vino per i loro banchetti; ma non badano all’azione del Signore, non vedono l’opera delle sue mani” (sono ciechi!)
“Perciò il mio popolo sarà deportato senza che neppure lo sospetti. I suoi grandi periranno di fame, il suo popolo sarà arso dalla sete” (osservate che nelle conseguenze di questo fenomeno sono coinvolti tutti: nobili e plebei) “Pertanto gli inferi dilatano le fauci, spalancano senza misura la bocca. Vi precipitano dentro la nobiltà e il popolo, il frastuono e la gioia della città. L’uomo sarà umiliato, il mortale sarà abbassato, gli occhi dei superbi si abbasseranno. Sarà esaltato il Signore degli eserciti nel giudizio e il Dio Santo si mostrerà santo nella giustizia”. Badate bene che, qui, il nostro Isaia non distingue tra coloro che sono effettivamente benestanti e coloro che, invece, sono collocati in una posizione sociale molto modesta o, addirittura, precaria, perché il “guai” da lui pronunciato riguarda quell’atteggiamento interiore che è comune ai nobili come ai plebei. Qui il riferimento è al “desiderio” della ricchezza, quando esso diventa il criterio in base al quale viene impostata la vita, la spinta interiore in forza della quale ci si orienta, ci si destreggia, ci si dà da fare; e ciò indipendentemente dal fatto (almeno qui, perché – sia chiaro – l’oggettiva differenza tra opulenza e miseria non è affatto irrilevante) che, poi, quella ricchezza sia realmente raggiunta. Questo desiderio è, in se stesso, un disastro: “guai” a coloro che vanno in cerca della ricchezza e che, in tale prospettiva, si orientano, perché hanno così individuato l’ideale di riferimento per la loro vita, per il loro lavoro…, che poi, - come dovranno constatare - è l’ideale di riferimento per la loro inevitabile esperienza di sconfitta!
Terzo “guai”, dal v. 18 al v. 19: “Guai a coloro che si tirano addosso il castigo…”, quelli, cioè, che si procurano da soli le conseguenze nefaste del loro vissuto, attraverso quel certo modo di impiantare e organizzare la vita, che li porta a coltivare e coccolare il desiderio del fatidico benessere. “Guai a coloro che si tirano addosso il castigo con corde da buoi…” (vedete: ce la mettono proprio tutta e se lo tirano addosso questo disastro!) “….e il peccato con funi da carro, che dicono: “Faccia presto, acceleri pure l’opera sua, perché la vediamo;…” (notate:una posizione di sufficienza e di scetticismo nei confronti del Signore) “…si facciano più vicini e si compiano i progetti del Santo di Israele, perché li conosciamo”. E’ come se dicessero: “che cosa volete mai, qualcuno parla di quelle cose ma…non ci riguardano e poi non vediamo, non verifichiamo…;faccia quel che vuole, così capiremo meglio, ma per adesso gli unici in grado di intervenire attivamente sulla scena del mondo siamo noi”.
Quarto “guai”, v. 20: “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro”. Siano di fronte ad una perversione che riguarda precisamente il discernimento del bene e del male; fenomeno ricorrente questo, assai poco tranquillizzante perché quando gli uomini cambiano il bene in male e il male in bene – con tutto quel che poi ne consegue – non hanno realizzato altro risultato che l’esasperazione del proprio malessere: stanno peggio, sempre peggio! Non è che hanno risolto il problema, inventando riferimenti teorici che diventano strumenti di giustificazione, di reinterpretazione, di risignificazione delle cose. Al contrario: per quanto si arrabattino, in questo loro gioco di trasformazioni ideologiche, sono sempre più sconfortati, disperati, angosciati; e lo sono realmente, nel loro vissuto più concreto,nell’esperienza più immediata delle cose.
Quinto “guai”, v. 21: Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti”. Qui l’attenzione è rivolta a quell’atteggiamento – assai comune e frequente – per il quale ci si arrabatta in tutti i modi, pur di attestare la propria autosufficienza.
Sesto “guai” vv. 22 e 23: “Guai a coloro che sono gagliardi nel bere vino, valorosi nel mescere bevande inebrianti, a coloro che assolvono per regali un colpevole e privano del suo diritto l’innocente”; si allude a fenomeni di corruzione che vengono gestiti, tra l’altro, con la massima disinvoltura.
Insomma, un “guai” dopo l’altro, per ribadire l’autenticità piena, matura sin dall’inizio, di quel dono d’amore con il quale il Signore si è rivolto al suo popolo. Ed è solo nella risposta a quel dono che il popolo dell’alleanza può sperimentare che cosa vuol dire vivere in pienezza e autenticità la propria presenza nel mondo.
L’ira del Signore contro il suo popolo amato
Adesso i vv. 24 e 25 concludono questa sequenza di sei “guai”. Concludono e, al tempo stesso, rinviano, come immediatamente constateremo: v.24, “Perciò, come una lingua di fuoco divora la stoppia e una fiamma consuma la paglia, così le loro radici diventeranno un marciume e la loro fioritura volerà via come polvere, perché hanno rigettato la legge del Signore degli eserciti, hanno disprezzato la parola del Santo di Israele” (vedete come è rinnegata l’alleanza!).
V.25, “per questo è divampato lo sdegno del Signore contro il suo popolo…” conosciamo questa espressione: “il suo popolo”. E’ indiscutibilmente, la conferma del valore dell’alleanza; è un’espressione che porta in sé una carica di affetto inesauribile: è il “suo” popolo, appartiene a Lui! Lo sdegno del Signore è contro il “suo” popolo, che non viene rinviato chi sa dove, o condannato a chi sa quali conseguenze, ma resta “suo” anche quando sta crogiolandosi in un processo così catastrofico della sua vicenda sbagliata e di cui possiamo constatare di dati oggettivi di carattere storico (l’imminente invasione assira) e di ordine interiore (la devastazione degli animi, la perversione delle coscienze, il corrompimento del cuore): “Per questo è divampato lo sdegno del Signore contro il suo popolo, su di esso ha steso la sua mano per colpire; hanno tremato i monti, i loro cadaveri erano come lordura in mezzo alle strade.Con tutto ciò non si calma la sua ira e la sua mano resta ancora tesa”.Tenete a mente questa frase conclusiva, perché la ritroveremo, tra breve, come un’antifona:è il Signore che incalza? È la mano che resta tesa? È la collera scatenata del Dio vivente! Ma attenzione … perché lo sdegno del Signore è rivolto contro il “suo” popolo, che è il popolo amato; e proprio perché è amato.
La chiamata degli invasori
Nei versetti seguenti, dal v. 26 al v. 30, per la prima volta, appare l’immagine dell’Assiria. Isaia è personalità culturalmente molto attrezzata; è attento, informato, non c’è da dubitarne e, infatti, nel giro di pochi anni, le vicende lo dimostreranno clamorosamente: l’impero assiro è in espansione… arrivano. Ma, vedete, come questa che diventa, adesso, l’immagine dominante (la pressione massiccia esercitata dagli Assiri) in realtà è soltanto il modo per rendere visibile – certo, ormai, senza possibilità di fraintendimenti – quello stato di disfacimento in cui sono sprofondate le coscienze di tutti e di ciascuno.
V. 26: “Egli alzerà un segnale a un popolo lontano e gli farà un fischio all’estremità della terra; ed ecco verrà veloce e leggero”. Come vi dicevo, è la prima comparsa degli Assiri, che sbaragliano per la loro instancabile rapidità; irrompono irresistibilmente. Vv. 27-30: “Nessuno fra essi è stanco o inciampa, nessuno sonnecchia o dorme, non si scioglie la cintura dei suoi fianchi e non si slaccia il legaccio dei suoi sandali. Le sue frecce sono acuminate, e ben tesi tutti i suoi archi; gli zoccoli dei suoi cavalli sono come pietre e le ruote dei suoi carri come un turbine” (cavalleria corazzata, quella degli Assiri!) “ Il suo ruggito è come quello di una leonessa, ruggisce come un leoncello; freme e afferra la preda, la pone al sicuro, nessuno gliela strappa” (gli Assiri –già ve l’ho detto – hanno inventato quello speciale metodo di dominio, che impedisce la rivincita dei popoli sconfitti, che è “la deportazione”: l’hanno inventata loro). “Fremerà su di lui in quel giorno come freme il mare; si guarderà la terra: ecco, saranno tenebre, angoscia e la luce sarà oscurata dalla caligine”. Osservate come la prospettiva di un’ormai imminente catastrofe storica si sovrapponga a quella di una catastrofe cosmica, laddove la luce viene avvolta di oscurità.
Il settimo “guai”
Prendete il cap. 9 dal v. 7 (abbiamo già visto, nei vv. 1-6, il grande oracolo messianico che si legge nella notte di Natale: “il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce…”): si apre una serie di interventi del nostro profeta, il quale descrive ciò che sta succedendo. Sono esattamente quattro quadri – da qui (9, v.7) fino al capitolo 10, v. 4 – l’ultimo dei quali si apre con un “guai” (cap.10 v.1):rispetto ai sei “guai”, che abbiamo incontrato precedentemente (cap. 5, vv.8-23), questo è il settimo, che individua quella cornice letteraria – che diventa, poi, una cornice teologica – che contiene tutte le pagine che sono articolate all’interno di questo unico ampio svolgimento.
Le prove del regno del nord e la “mano tesa” del Signore
I quattro quadri che adesso osserviamo sono puntualmente conclusi dalla ripetizione di quell’antifona che abbiamo già incontrato (cap.5, v.25). Osservate gli ultimi due righi dei vv. 11,16 e 20 del cap. 9 e del v.4. del cap.10: “Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane tesa”. Sono come “stampini”, che Isaia utilizza per descrivere situazioni diverse, ma sempre comunque coordinate, nel contesto di una catastrofe sfaccettata, moltiplicata, variegata…. eppure universale; nel visibile e nell’invisibile; nei dati empiricamente registrabili e nell’intimo dei cuori.
Primo quadro, cap.9 vv.7-11: “Una parola mandò il Signore contro Giacobbe, essa cadde su Israele. La conoscerà tutto il popolo, gli Efraimiti e gli abitanti di Samaria, che dicevano nel loro orgoglio e nell’arroganza del loro cuore: «i mattoni sono caduti, ricostruiremo in pietra; i sicomori sono stati abbattuti, li sostituiremo con cedri ›. Il Signore suscitò contro questo popolo i suoi nemici, stimolò i suoi avversari: gli Aramei dall’oriente, da occidente i Filistei che divorano Israele a grandi morsi. Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa”
Qui Isaia si sofferma sull’animo dei suoi contemporanei, rivolgendo la sua attenzione prevalentemente alle tribù del Nord, quelle che sono raccolte all’interno del regno di Israele; Samaria è la capitale del regno che, nell’anno 722 (o 721), sarà cancellato; Samaria sarà distrutta; tutta la popolazione del Nord sarà schiacciata, oppressa, in gran parte deportata. Già negli anni precedenti si erano verificati fenomeni del genere, con un processo di erosione progressiva determinata dalla pressione operata dall’impero assiro, dal nord verso il sud. Nell’anno 721 – Isaia è spettatore di questi avvenimenti – il regno di Israele sarà spazzato via. Ebbene, quei tali – gli Efraimiti, gli abitanti di Samaria – “dicevano nel loro orgoglio e nell’arroganza del loro cuore: «i mattoni sono caduti, ricostruiremo in pietra…»”. Vedete come, nell’animo umano, venga rilanciata questa pretesa di farcela; di farcela sempre e comunque; e di farcela da soli. Anzi, di farcela con la presunzione di ottenere risultati migliori di quelli conseguibili rivolgendoci a Dio. D’altra parte, se ci rivolgiamo a Lui… non otteniamo risultati… appunto: non otteniamo risultati, perché “la mano è tesa”. E allora?... Noi sappiamo fare meglio: se i mattoni sono caduti, ricostruiremo in pietra; se i sicomori sono stati abbattuti, li sostituiremo con cedri. “Il Signore suscitò contro questo popolo i suoi nemici…” : ma non ti accorgi che il Signore non sta dalla tua parte, al servizio dei tuoi interessi; non ti accorgi che è proprio il Signore che ha mandato contro di te quel popolo? Perché? Perché ti ama (sembra, davvero, un’affermazione blasfema, eppure – vedete – è un’affermazione teologicamente epifanica); proprio perché ti ama, ha mandato contro di te quel popolo. Proprio perché tu sei il “suo” popolo, è contro di te! “Il Signore suscitò contro questo popolo i suoi nemici, stimolò i suoi avversari: gli Aramei dall’oriente, da occidente i Filistei che divorano Israele a grandi morsi” (v. 10). Nel giro di pochi anni, il regno di Israele sarà eliminato. “Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane tesa” (v. 11). Malgrado quanto succede, c’è una resistenza, un incallimento, un’insofferenza nell’anima umana, per cui gli uomini non si arrendono e, malgrado l’evidenza, resiste la loro pretesa costante, petulante di farcela da soli, di recuperare, di ottenere una rivincita. E tutto ciò rappresenta invece – secondo la descrizione che Isaia fa degli eventi in corso e che ci invita ad osservare - il comportamento che renderà ancor più gravi e dolorose le conseguenze della catastrofe.
Secondo quadro, dal v. 12 al v. 16: “Il popolo non è tornato a chi lo percuoteva…” Vedete: malgrado le percosse che ha ricevuto, non si è arreso; malgrado le correzioni con le quali il Signore gli è andato incontro, per richiamarlo, per rieducarlo, per distrarlo dalle sue fantasie e riportarlo sulla strada della vita…; malgrado tutto questo “il popolo non è tornato a chi lo percuoteva; non ha ricercato il Signore degli eserciti. Pertanto il Signore ha amputato a Israele capo e coda…” (qui troviamo l’immagine di un verme che, sebbene privato di capo e coda, continua a vivere e le sue parti amputate rispuntano; non c’è niente da fare: per quanto tu lo voglia correggere, lui si replica, si copia, si considera ancora come il modello di sé stesso!)”… il Signore ha amputato a Israele capo e coda, palma e giunco in un giorno. L’anziano e i notabili sono il capo; il profeta, maestro di menzogna, è la coda. Le guide di questo popolo lo hanno fuorviato e i guidati si sono perduti. Perciò il Signore non avrà pietà dei suoi giovani, non si impietosirà degli orfani e delle vedove, perché tutti sono empi e perversi; ogni bocca preferisce parole stolte. Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa”. Tutti i tentativi di richiamare, di allestire strumenti pedagogici, di praticare una “ginnastica correttiva”, non son valsi a niente: tagli il capo e rispunta; tagli la coda e… è sempre lì!
Terzo quadro, dal v . 17 al v. 20: “Brucia l’iniquità come fuoco che divora rovi e pruni, divampa nel folto della selva, da dove si sollevano colonne di fumo…”. Siamo di fronte all’immagine di un’opera di distruzione e di sterminio, ormai senza alternative; ebbene: “… Per l’ira del Signore brucia la terra e il popolo è come un’esca per il fuoco; nessuno ha pietà per il proprio fratello” (v. 18). Osservate come la collera del Signore si inserisca in quella storia che è segnata dall’iniquità umana; un’iniquità scatenata, sempre più spietata: “… nessuno ha pietà per il proprio fratello. Dilania a destra, ma è ancora affamato; mangia a sinistra, ma senza saziarsi…” – la situazione sta precipitando “…ognuno mangia la carne del suo vicino. Manàsse contro Èfraim ed Èfraim contro Manàsse; tutti e due insieme contro Giuda”. Siamo in un vortice infernale! E, in effetti, i quadri che stiamo osservando hanno proprio la configurazione di gironi infernali; un girone dopo l’altro; e quando se ne è concluso uno, se ne apre un altro, e un altro, e un altro e… si va sempre peggio; si sprofonda verso l’aberrazione più inesprimibile, indicibile, inenarrabile. Soltanto che – vedete – è la collera del Signore che, intanto, procede nel suo corso: “Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa” (v. 20). Ormai lo sappiamo bene: questa storia infernale, che raggiunge livelli abissali di negatività incontrollata, è la storia nella quale la presenza del Santo è all’opera, per ribadire il valore puro e incontaminato della sua originaria volontà d’amore. Sembra una bestemmia! Invece la potenza teologica di questo messaggio, in realtà, già ci orienta – con una fecondità travolgente di cui, adesso, appena appena, riusciamo a intuire il valore, ma di cui ci renderemo conto al momento della pienezza dei tempi – verso la Pasqua del Signore. L’Evangelo, nel suo annuncio definitivo, si presenta a noi – nella pienezza dei tempi – là dove la catastrofe della nostra storia umana è abitata dal Santo, che rivela la sua gloria: la Pasqua del Signore, che muore e che risorge. Vedete, quindi, che il linguaggio di Isaia – che potrebbe sembrarci blasfemo – è, in realtà, un linguaggio teologico che già porta in sé la fecondità di una “epifania”, che splenderà gloriosamente nell’evento che porterà a compimento la storia della salvezza: la Pasqua del Signore.
Quarto quadro, cap. 10 dal v. 1 al v. 4 (utimo quadro e ultimo “guai”, il settimo): Guai a coloro che fanno decreti iniqui…” (l’attenzione si concentra su coloro che hanno responsabilità pubbliche, istituzionali: giudiziarie, amministrative o di governo) “… e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per spogliare gli orfani. Ma che fare nel giorno del castigo, quando da lontano sopraggiungerà la rovina? A chi ricorrerete per protezione?...”
(è la regola dominante che ispira questi amministratori prezzolati; è la mentalità del potere clientelare: procurasi coperture in caso di bisogno) “…dove lascerete la vostra ricchezza? Non vi resterà che piegarvi tra i prigionieri o cadere tra i morti”. Quelle posizioni di spicco – di chi ha ricoperto, istituzionalmente, ruoli di potere nella storia del popolo di Dio – vengono qui osservate, contemplate e descritte da Isaia come occasioni tragiche, di esperienza di solitudine; una solitudine senza più speranza (non vi resterà che piegarvi tra i prigionieri o cadere tra i morti!). “Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa” (v.4).
L’Emmanuele
Torniamo un po’ indietro , al cap. 8. Abbiamo già rilevato che Isaia, in tutta questa contemplazione e descrizione degli eventi e in questa sua testimonianza profetica, è personalmente coinvolto; non è uno “spettatore in platea”. Leggiamo i primi quattro versetti: “Il Signore mi disse: «Prenditi una grande tavoletta e scrivici con caratteri ordinari…»” (vedete che, adesso, è interpellato direttamente, personalmente lui: “scrivi su questa tavoletta”) “…«A mahèr -salàl-cash-baz»…”, che vuol dire “veloce il bottino, prossima la preda (o il saccheggio)”… “Io mi presi testimoni fidati, il sacerdote Uria e Zaccaria figlio di Iebarachìa. Poi mi unii alla profetessa, la quale concepì e partorì un figlio…”, vedete che nasce un figlio a Isaia; dunque è in questione lui, personalmente, la sua famiglia; è in questione il suo modo di affrontare il domani, perché il “figlio” è espressione di quell’affaccio sul futuro, che diventa anche il modo di interpretare il senso degli avvenimenti che dovranno accadere. Il Signore gli dice “«Chiamalo Mahèr -salàl-cash-baz»…”, (con quel nome, cioè, scritto sulla tavoletta), «… poiché, prima che il bambino sappia dire babbo e mamma, le ricchezze di Damasco e le spoglie di Samaria saranno portate davanti al re di Assiria»” (il regno di Aran, con capitale Damasco, e il regno di Israele, con capitale Samaria, saranno cancellati!). E’ ciò che avviene nel corso di quegli anni. Così, il vissuto personale di Isaia e il suo modo di guardare – attraverso l’esperienza della nascita del figlio – verso il futuro, suo, della sua famiglia e della sua discendenza; tutto questo è segnato da quel che sta avvenendo sulla scena del mondo. Sono in questione i regni di cui si parla? E’ forse in questione il regno di Giuda? (ricordate che Isaia vive a Gerusalemme). La verità è che è in questione la storia umana; la grande storia di tutti i popoli, cui Isaia aderisce in forza dell’appartenenza al suo popolo, nel quale è coinvolto attraverso le sue vicissitudini familiari. Tuo figlio; che si chiama così: “Veloce bottino, prossima la preda”. Il nome che dài a tuo figlio è il tuo modo di interpretare il futuro: questo è il tuo futuro. Per te e per tuo figlio! Proseguiamo la lettura, dal v. 5 al v. 18: “Il Signore mi disse di nuovo: «Poiché questo popolo ha rigettato le acque di Siloe, che scorrono piano…»”. Ezechia, il re figlio di Acaz, aveva fatto costruire un canale all’interno della montagna, per trasportare l’acqua fino alla piscina di Siloe. Ecco perché l’acqua “scorre piano”. Il popolo disprezza quel canale, dove l’acqua si muove in modo così lento e pacato. Questo popolo, invece, “trema per Rezìn e per il figlio di Romelia…” (v. 6) – i due regni del Nord che avevano fatto pressione sul regno di Giuda, per coinvolgerlo in un’alleanza contro gli Assiri (ne parlavamo la volta scorsa) - ebbene: “per questo, ecco, il Signore gonfierà contro di loro le acque del fiume…” (v. 7); vedete: non si fidano delle acque di Siloe? Ma, adesso, traboccheranno quelle dell’Eufrate, “acque impetuose e abbondanti: cioè, il re assiro con tutto il suo splendore, irromperà in tutti i suoi canali e strariperà da tutte le sue sponde”. Notate: questo popolo, non sa apprezzare il valore di quella presenza continua, fedele, pacata, vivificante. E’ il Signore che, attraverso i doni necessari, conferma l’impegno dell’alleanza e l’immagine che simboleggia tutto ciò è la piscina di Siloe, con l’acqua che vi giunge attraverso quel canale, con flusso continuo e pacato. Il popolo disprezza. E allora? Allora il fiume strariperà “penetrerà in Giuda, lo inonderà e lo attraverserà fino a giungere al collo. Le sue ali distese copriranno tutta l’estensione del tuo paese…” e qui: “Emmanuele” (v.8).
Nel momento stesso in cui Isaia sta descrivendo questa invasione, così come lui se la prospetta: le acque di Siloe non contano niente? Ah, ma strariperanno quelle dell’Eufrate! In questo stesso momento, vedete: Emmanuele, Dio-con-noi! Fra l’altro, in questo punto, non riusciamo a percepire la logica del periodo e dell’argomentazione: è un grido, che erompe dall’animo del nostro profeta, diretta espressione del suo criterio teologico maturo, definitivo per interpretare quel che sta succedento: straripa il fiume. Emmanuele, Dio-con-noi!
Sembra contraddetta la nostra abitudine di associare l’invocazione di questo titolo, alla contemplazione del “bambinello”, paffuto e riccioluto, nella mangiatoia. Isaia – vedete – grida “Emmanuele”, nel momento in cui si rende conto che non c’è più nulla da fare: le acque dell’Eufrate straripano…
Intanto il flusso d’acqua che riempie la piscina di Siloe è disprezzato. E adesso, vv. 9 e 10: “Sappiatelo, popoli: sarete frantumanti;…” (forse è meglio tradurre “accanitevi”; “accanitevi popoli: sarete frantumati”). E’ in questione non solo la storia del popolo dell’alleanza, ma anche quella dell’intera umanità e Isaia, ancora una volta, dimostra che il suo sguardo è proiettato su un orizzonte amplissimo, che coinvolge tutta l’umanità: accanitevi pure “popoli sarete frantumati”. Non si tratta di “un” popolo: “…ascoltate voi tutte, nazioni lontane…” (il profeta si erge come annunciatore di un messaggio che riguarda l’umanità intera, fino agli estremi confini della terra) “…cingete le armi e sarete frantumate. Preparate un piano, sarà senza effetti; fate un proclama, non si realizzerà…”; attenzione… perché Dio è con noi. Sapete che cosa c’è scritto qui, di nuovo? “Emmanuele”, come nel versetto precedente (v.8). “Emmanuele” è la chiave interpretativa di tutto, per il nostro Isaia. Ma “Dio-con-noi” non nel senso che c’è qualcuno più fortunato, con titoli privilegiati e altri, invece, che sono squalificati; “Dio-con-noi” è proprio Colui che conferma la sua inflessibile coerenza nel perseguire un’intenzione d’amore attraverso la nostra catastrofe; è la catastrofe della storia umana.
La teologia del nostro Isaia è veramente poderosa! Lo ripeto: noi siamo, qui spettatori dell’Evento pasquale. E’ il “Dio-con-noi”; abbiamo visto la sua gloria, che si è espressa in tutta la sua fecondità d’amore, là dove il Figlio è stato rifiutato, inchiodato, ucciso; innalzato, glorificato.
Nel v. 11 Isaia prosegue con una confessione autobiografica. Altri profeti diventeranno, in seguito, figure emblematiche di questa sapienza della confessione; pensate a Geremia. Isaia, nella sua grandezza, è personaggio più sobrio, più velato, ma vediamo che anche lui è puntuale nel testimoniare il suo coinvolgimento personale con una vera e propria confessione: “Poiché così il Signore mi disse, quando mi aveva preso per mano e mi aveva proibito di incamminarmi nella via di questo popolo…” Questo popolo percorre una strada deviata, che conduce irreparabilmente verso un baratro; non si otterrà altro risultato che questo. Bisogna prendere le distanze rispetto a questo popolo e percorrere un’altra strada. Ma quale? Isaia non lo sa, ma intanto sa che il Signore lo ha “preso per mano” e lui è aggrappato, appeso a questa mano; penzola da questa mano. E il Signore gli disse, vv. 12 e 13: “«Non chiamate congiura (traduciamo con “alleati”), ciò che questo popolo chiama alleati…” (il popolo cerca altre alleanze, ma l’unico alleato è il Signore). “«…non temete ciò che esso teme e non abbiate paura». Il Signore degli eserciti, lui solo ritenete santo”. A chi si sta rivolgendo Isaia, aggrappato a quella mano? La sua platea, qui, è universale; si sta rivolgendo a tutti gli uomini per dir loro “lui solo ritenete santo. Egli sia l’oggetto del vostro timore, della vostra paura. Egli sarà laccio e pietra d’inciampo e scoglio che fa cadere per le due case di Israele, laccio e trabocchetto per chi abita in Gerusalemme” (v. 14).
Vedete che a “inciampare” è proprio il suo popolo (le due case: il regno di Israele e quello di Giuda) e Isaia è coinvolto in questa esperienza: son cose sue, della sua generazione, del suo popolo, del suo mondo, del suo ambiente, del suo regno. E lui… appeso a quella mano! V. 15 “Tra di loro molti inciamperanno, cadranno e si sfracelleranno, saranno presi e catturati” e allora? V. 16 “Si chiuda questa testimonianza, si sigilli questa rivelazione nel cuore dei miei discepoli”. Notate che, qui, Isaia sta già preparando un documento scritto. C’è l’accenno a un testo che verrà steso per iscritto e che verrà sigillato, come si fa per un rotolo, perché questa parola – che non ha ottenuto riscontri nella situazione contemporanea, presso gli interlocutori di Isaia (e lui stesso condivide la sorte comune agli altri della sua generazione) – rimane per coloro che verranno e ascolteranno; per questo deve essere messa per iscritto e sigillata. Vedete, Isaia ha scritto per noi!
V. 17 “Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui”. Isaia resta aggrappato a quella mano del Signore, che ha nascosto il suo volto alla casa di Giacobbe, e spera in Lui. La testimonianza di Isaia è veramente grandiosa: il Signore ha nascosto il suo volto, perché è stata deviata la strada che precipita, senza alternativa. Nella catastrofe viene la salvezza! E, qui, ad essere catastrofica è proprio l’esperienza di trovarsi nell’oscurità. Il volto del Signore è velato, nascosto, eppure “Io spero in lui”. Questo è Isaia!
V. 18 “Ecco, io e i figli…” (sono i figli naturali, i suoi discepoli ed anche coloro che, nella memoria della sua predicazione, a loro volta, ascolteranno, rilanceranno e testimonieranno) “…io e i figli che il Signore mi ha dato siamo segni e presagi per Israele da parte del Signore degli eserciti, che abita sul monte Sion”. Nel contesto di questo disastro generale, rimane la fedeltà della Parola di Dio, che è testimoniata da un povero profeta e da altri poveri profeti, dopo di lui, che restano appesi a questa rivelazione d’amore che contiene in sé lo svolgimento – attualmente in corso e che si prolungherà chi sa quanto e chi sa come – di una storia sbagliata; la storia di un tradimento. Ma noi siamo appesi a quella rivelazione d’amore, che viene prima, che è per sempre e che già ci viene incontro.