Quando si dice esilio, avendo tra le mani la Bibbia, ci si riferisce in genere a quell'evento della storia della salvezza che si verificò nella prima metà del sesto secolo a.C. L’esilio, tuttavia, è qualcosa di più originario, è una chiave interpretativa della storia del popolo di Dio, anzi della storia umana nella sua interezza, fino al giorno glorioso in cui il Signore ritornerà.
Il verbo usato in ebraico è galah, che vuol dire
propriamente "scoprire". C'è uno scoprimento che è
l'esilio. C'è un modo di svuotare la terra che è
l'esilio. Questo stesso verbo in ebraico viene usato per indicare
la rivelazione di Dio, il rivelarsi di Dio, lo spalancarsi del
Mistero. Ed è lo stesso verbo che normalmente in greco
è tradotto con il verbo apocalupto, svelare.
L'apocalisse è uno svelamento, una rivelazione, è il
mistero che si è squadernato. Uno stesso verbo in ebraico
viene usato per indicare il fenomeno dell'esilio e l'atto della
rivelazione.
I primi capitoli del libro del Genesi contengono una raccolta di
verità teologiche che i sapienti del popolo di Dio sono
andati puntualizzando nel corso della storia antica. Con il cap. 12
Abramo riceve le promesse, da qui comincia la storia della
salvezza:
- Dio è creatore e nulla sfugge alla sua iniziativa;
- la umanità ha rifiutato il dono d'amore che da Dio le era
stato elargito: il peccato, il fallimento con tutte le
conseguenze;
- Dio è autore di una opera di salvezza perché fin
dall'inizio, da sempre nel rapporto con le sue creature, Dio ha
espresso la sua intenzione redentiva.
Le grandi verità che stanno all'inizio sono la sintesi di
tutto un lungo percorso che nella storia il popolo di Dio ha
affrontato e ha rielaborato a riguardo del mistero di Dio e delle
sue intenzioni in rapporto al mondo e alla storia umana.
Due scuole
Nei primi 11 capitoli una voce assume rilievo molto qualificato e proviene da una tradizione teologica che solitamente gli studiosi definiscono con l'aggettivo javhista. E’ una scuola di sapienti che si forma alla corte di Salomone la quale acquista le caratteristiche di un vero e proprio centro, oltre che di governo, di raccolta e di irradiazione sapienziale. La corte è l'ambiente nel quale operano, studiano, si esprimono dei tecnici che sono appositamente incaricati di svolgere funzioni relative all'amministrazione, al governo, all'interpretazione degli eventi, per consigliare il re nello svolgimento della sua missione. In questo ambiente, che è prettamente laicale, si sviluppa una particolare intelligenza teologica del mondo, degli eventi, che propone una visione della realtà illuminata dalla esperienza del mistero di Dio che si rivela.Questa tradizione teologica javhista dà forma a molti dei testi che sono presenti nei primi 11 capitoli del Genesi.
C'è un'altra voce teologica, che generalmente viene
identificata con l'aggettivo "sacerdotale", più recente, che
fa capo all'ambiente, carico di una tradizione sapienziale che si
è accumulata nei secoli, l'ambiente del tempio, un ambiente
che non soltanto si esprime nella forma dell'impegno liturgico, il
servizio sacrificale, ma anche come un centro di studio, una grande
accademia, un'immensa biblioteca, un luogo nel quale viene man mano
raccolta tutta la tradizione antica, le memorie, gli scritti. E'
proprio in quell'ambiente, dopo l'esilio, sec. V, IV a.C., che
molti dei libri dell'AT acquistano la loro redazione definitiva.
Noi riceviamo gran parte dell'AT da quell'ambiente scolastico e
teologico, in cui vivono e operano personalità che
appartengono alla categoria dei sacerdoti nel Tempio di
Gerusalemme.
Le due tradizioni javhista e sacerdotale sono poi fuse, amalgamate
tra di loro, sempre però consentendoci di riconoscere l'una
o l'altra voce che convergono sinfonicamente in un contesto
redazionale definitivo, per cui noi leggiamo i primi 11 capitoli
come una composizione unitaria.
La centralità della persona
C'è una nota caratteristica della teologia javhista che ci consente quasi subito di identificare le pagine, al di là degli usi letterari e del nome del Signore: la centralità della persona umana. La visione di quei sapienti, teologi, è segnata da una preoccupazione di tipo umanistico, inconfondibile. All'inizio del libro del Genesi ci sono due racconti della creazione. Il primo racconto è stato redatto in una fase più recente e per questo è stato messo all'inizio. Più recente in quanto a redazione, non quanto a pezzi di un discorso che fuso definitivamente come opera letteraria, certamente rinvia a reminiscenze culturali e religiose molto più antiche. Fatto sta che il primo racconto della creazione è il racconto dei sette giorni. Quel racconto proviene dalla teologia dei sacerdoti. Ha tutta la ieratica compassatezza, ha tutta la cadenza liturgica di una celebrazione solenne, è il linguaggio dei sacerdoti. Si parte dal primo giorno per arrivare al settimo per dimostrare così la completezza del disegno e si descrivono gli elementi di contesto e poi le creature che occupano il mondo fino ad arrivare al personaggio che interviene nella fase in cui tutto può essere oramai ricapitolato, che è una specie di sommo sacerdote nel cosmo, ossia la creatura umana.
C'è un secondo racconto della creazione che proviene
dalla teologia javhista. E' il racconto che ci parla del fango
plasmato, il fango su cui il Signore Dio soffia, ed ecco la persona
umana. Secondo quest'ultimo racconto Dio crea la persona umana e
tutto il resto si sviluppa intorno a lei. Quello che conta per
questi teologi è precisare la centralità della
persona umana. Creata la persona umana è creato il mondo
attorno ad essa. E' un altro impianto descrittivo, è
un'altra sensibilità teologica, è una preoccupazione
di carattere umanistico: la persona umana con tutte le sue
prestigiose, straordinarie qualità è sempre
valorizzata nei suoi risvolti ulteriori, nelle sue
complessità psicologiche, anche nelle sue imprevedibili
originalità. E' la persona umana che Dio ha creato e tutto
il resto fa corona.
Il racconto della creazione e del peccato sono legati da un filo
conduttore che si impone all'attenzione di tutti.
Dio ha plasmato il fango, ha soffiato su di esso, ed ecco l'uomo:
un essere vivente (Gen 2,7). La persona umana è strutturata
in relazione con l'ambiente che la circonda: la terra
(adamah) con cui è fatto l'adam, l'uomo. Tutte
le altre creature sono in relazione con la persona umana, è
l'uomo che dà un nome agli animali, è l'uomo che
esercita una funzione di responsabilità rispetto a tutto il
resto, tutto quel che nel tempo e nello spazio lo circonda e tutte
le realtà entrano nella luce della creazione in quanto sono
relative alla persona umana. E' una struttura costitutiva della
persona umana questa relazione con il mondo, con tutte le altre
creature di Dio.
Ma non solo. La persona umana è strutturata in quanto
segnata dalla relazione con gli altri. Qui si colloca, nel cap. 2,
il racconto della creazione della donna e dell'uomo e della donna
per l'uomo; l'uomo è in grado di cogliere la sua
identità solo nel contesto di quella relazione che lo pone
di fronte all'altra persona umana. E' una relatività
intrinseca alla persona umana, strutturale della persona umana:
relazione con l'altra persona.
La persona umana a sua volta è in relazione con il Creatore.
La persona sussiste in quanto è coinvolta in un dialogo, in
una comunicazione con il Creatore. C'è una figura che viene
messa in grande risalto nel racconto della creazione che appartiene
alla tradizione javhista ed è la figura del giardino.
Il giardino
Dice 2,8: « Poi il Signore Dio piantò un
giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva
plasmato». Il giardino è l'elemento narrativo
descrittivo che ci aiuta a ricapitolare in un unico colpo d'occhio
quello che vi stavo dicendo. Il giardino nel quale l'uomo è
collocato è l'articolazione di quelle relazioni che sono
costitutive della persona umana. I giardino è un luogo, uno
spazio, un ambiente, qui nel giardino l'uomo deve fin dall'inizio
lavorare e custodire, faticare e conservare.
Il giardino è la articolazione di quelle relazioni che sono
strutturali della persona umana: a Dio, al mondo, agli altri. La
persona umana è strutturata nell'ambito di queste relazioni
e queste relazioni sono articolate in modo da essere intrecciate
tra di loro, in modo da essere intercomunicanti fino a fondersi per
la persona umana nella pienezza della vita. Questa pienezza della
vita è piena apertura alle relazioni che fanno vivere la
persona umana: la persona vive in relazione. Questa pienezza di
relazione è il giardino. La persona è viva nel
giardino, ed è viva non per un mero dato biologico, o per
una qualche consuetudine anagrafica. La persona vive perché
è aperta alle relazioni. Questa è una caratteristica
propria del vivente. Già ci sono altre creature viventi, ma
questa creatura vivente tra tutte le altre è dotata di una
qualità superlativa: vive in quanto è aperta alle
relazioni con il mondo, con gli altri e con Dio, in modo da gustare
la dignità e la bellezza di un giardino.
L'immagine del giardino è da intendere come il pieno
inserimento nella vita, la partecipazione alla vita, l'esperienza
della vita in pienezza, proprio perché tutte le relazioni
che fanno di questa creatura una creatura vivente sono intrecciate
con quella relazione che apre la persona umana alle altre creature
e a Dio.
Nel giardino, al centro, c’è l'albero della vita.
C'è anche un altro albero che è l'albero della
conoscenza del bene e del male. A riguardo di quest'ultimo
c'è un limite: l'albero della conoscenza del bene e del male
testimonia come la creatura umana sia pienamente realizzata nelle
sue relazioni vitali, in quanto è creatura, in quanto
appartiene al creatore, in quanto è relativa la creatore, in
quanto è in dialogo con il Dio vivente.
Il Signore Dio affida all'uomo una raccomandazione che riguarda la
alimentazione. La creatura vivente si alimenta, questo è
prerogativa dei viventi, mangiare e bere. Se non si alimentasse non
sarebbe più vivente. L’ alimentazione conferisce una
particolare dipendenza nei confronti delle altre creature; la
creatura che vive, vive in quanto mangia e beve, vive in quanto
dipende da altre creature che diventano cibo e bevanda per lei. Ora
per la creatura vivente che mangia e beve c'è una
benedizione: «Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi
e moltiplicatevi», è il vivente che è
dotato di fecondità. Poi Dio disse: «vi do ogni
erba in cibo». Quella benedizione che è
prerogativa del vivente, della persona umana che è coinvolta
in modo così strutturato nella relazione con il mondo, con
gli altri e con Dio, quella benedizione è inseparabile dalla
misura di dipendenza che ogni creatura vivente manifesta in
rapporto alle creature che sono cibo e bevanda per lei.
Questa dipendenza è accompagnata da una benedizione. La
benedizione della persona vivente è inseparabile
dall'esperienza del limite per cui la persona per vivere deve
mangiare e bere. Questo vale per ogni uomo: deve dipendere. Ma
quella dipendenza non è un vincolo che stritola, che
offende, che umilia, tutt'altro. Questa dipendenza è
benedizione, fa tutt'uno con la benedizione che viene direttamente
da Dio per coinvolgere in una relazione di gratuità la
persona chiamata alla vita.
Il peccato: voracità e anoressia. L’assenza del limite
Nel giardino al centro c'è l'albero della vita e poi
c'è l'albero della conoscenza del bene e del male. Nel cap.
3 quando il tentatore si presenta sotto forma di serpente mette
subito in questione la necessità di alimentarsi. Il racconto
non è così semplice come potrebbe sembrarci. Qui
è in questione l'esercizio della alimentazione perché
è in questione il modo di essere in relazione con il mondo,
con le altre creature di Dio, con gli altri uomini, il modo di
essere persona in relazione con Dio che benedice. La persona umana
vive nella benedizione perché è intrinsecamente
relativa, intrinsecamente dipendente.
Tutto questo nel giardino. Il tentatore si presenta e dice:
«E' vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun
albero del giardino?». Questo Dio non l'ha mai detto,
anzi Dio ha detto: mangiate! Dio vi pone dei limiti, dice il
tentatore. Vi è una verità in quella menzogna.
C’è di mezzo un limite, è un limite funzionale
alla qualità della vita, alla pienezza della vita.
La donna risponde: «Dei frutti degli alberi del giardino
noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo
al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete
toccare, altrimenti morirete».
La donna contrasta la tentazione, ma mentre contrasta la tentazione
già manifesta un disorientamento grave, tant'è vero
che ormai ha imboccato la strada che la condurrà al
precipizio, lei e l'uomo con lei. Perché? Perché la
donna dice: non è vero quello che tu affermi. Dio ci ha
detto che possiamo mangiare degli alberi del giardino, ma
c'è un albero che sta in mezzo al giardino, di cui Dio ha
detto: non ne dovete mangiare e non ne dovete toccare i frutti. Ora
qui c'è uno spostamento, perché nel centro del
giardino c'è l'albero della vita, mentre nella risposta
della donna al centro del giardino c’è l'albero della
conoscenza del bene e del male che lei nemmeno nomina. Per la donna
quell'albero che stava lì a indicare il limite, a precisare
la misura, quell'albero che era predisposto per confermare come la
persona umana in quanto dipendente dal cibo e dalla bevanda con cui
si alimenta, è persona benedetta, appartiene a Dio,
quell’albero è diventato il centro del giardino.
C'è qualcosa che si è spostato dentro di lei,
c'è qualcosa che si è spostato nel giardino,
c'è qualcosa che si è spostato nel suo mondo
interiore, c'è qualcosa che si è spostato nel cuore
dell'uomo.
C'è un problema che riguarda il sentimento della vita,
l'esercizio della vita, l'esperienza della vita, il gusto della
vita, la bellezza della vita, la dignità della vita.
C'è qualcosa che riguarda il radicamento nella vita della
persona umana. Spostato al centro il limite, non l'albero della
vita.
Percepiamo una nota di angoscia, all'improvviso: chissà da
dove spunta! Al centro non c'è più l'albero della
vita, al centro c'è il mio limite, la mia dipendenza che mi
diventa sempre più insopportabile, sempre più
sgradevole, sempre più spregevole, e si sviluppano
molteplici tentazioni a partire da questa tentazione.
Due prospettive fondamentali: la tentazione della voracità e
la tentazione dell'anoressia. Devono prendermi il gusto di
dimostrare che non dipendo perché posso divorare a mio
piacimento; devo prendermi il gusto di non dipendere perché
posso farne a meno, non mangiò più!
La tentazione è già impostata, non riguarda quel
frutto roseo o giallastro, la tentazione riguarda la insofferenza
che si sta coagulando nel cuore della persona umana in rapporto
alla necessità di dipendere. Voglio essere
indipendente!
L’ indipendenza che affiora non riguarda direttamente Dio,
riguarda il cibo e la bevanda, la necessità di mangiare, il
limite, ma quel limite fa tutt'uno con la benedizione della
creatura vivente da parte di Dio. La donna qui aggiunge un'altra
annotazione: Dio ha detto che non dovete mangiare i frutti e che
nemmeno dovete toccare quei frutti, altrimenti morirete. Dio questo
non lo ha mai detto: non ha detto di non toccare i frutti, ha detto
di non mangiarli. Subito dopo nel dialogo con il serpente la
situazione precipita: vedi, dice il serpente, se tu lo tocchi non
muori, e siccome non sei morto toccando, puoi benissimo mangiare,
perché vuol dire che non muori.
C'è già uno sbilanciamento nella risposta della
donna. C'è già addirittura un' appesantimento
dell'originario precetto divino, che è già un modo di
ergersi come legislatore al posto di Dio: più severi di Dio,
più intransigenti di Dio, più ascetici di Dio. Non
soltanto non dobbiamo mangiare dei frutti di quell'albero, ma non
dobbiamo nemmeno toccarli. E «la donna vide che l'albero
era buono da mangiare». Lo guarda, è bello,
odoroso,«gradito agli occhi e desiderabile per acquistare
saggezza». Prese quel frutto e lo mangiò. E’
in questione la misura creaturale della persona umana. Quella
misura fin dall'inizio è omogenea alla benedizione che
riempie la vita della persona umana.
Esilio: nel frattempo della morte imparare a vivere
L'albero della vita non è più il centro. Il
giardino è disarticolato. Quell'articolazione delle
strutture relazionali della persona umana è frantumata. La
vita umana è destrutturata, l'esito di questa
destrutturazione è la morte. E' destrutturata la vita, per
questo il comando: se mangiaste, morireste. La morte perché
qui è stata aggredita la vita, rifiutata la vita come
capacità di relazione.
Il racconto dà risalto a tutto questo: sono spaventatissimi.
Si nascondono quando il Signore passeggia nel giardino,
perché il giardino è il luogo della conversazione fra
il Dio vivente e la sua creatura benedetta. Fuggono, si nascondono.
Si accorgono di essere nudi perché la relazione
interpersonale è ormai fratturata e si accorgono di essere
condizionati da preoccupazioni di dominio, dalla ricerca di un
potere mirato alla sopraffazione, all'abuso, alla
strumentalizzazione l'uno dell'altro, gli uni degli altri. Per
questo vogliono rivestirsi. Così proprio là dove la
persona vivente portava in sé, con sé la benedizione
di Dio, adesso emerge il dato drammatico della maledizione.
«Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne
trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi
produrrà per te e mangerai l'erba
campestre…» Questo non è il discorso
repressivo di un giudice che punisce. Questo non è
l'intervento autoritario di chi ha emanato una sentenza di
condanna. Questa maledizione è esattamente il venir meno
della benedizione. E' esattamente lo spegnersi della vita, il
disintegrarsi della vita destrutturata.
In questa prospettiva non c'è altro esito che la morte.
Questa paura conduce alla morte, questo atteggiamento di ricerca
del potere nella relazione interpersonale conduce alla morte,
questo stato di maledizione in rapporto al mondo, alle cose, alle
altre creature, vicine e lontane, conduce alla morte. Siamo alla
fine del cap. 3: l'uomo e la donna sono espulsi dal giardino, sono
in esilio. Ecco il nostro tema.
E' un esilio primigenio questo, un esilio radicale, un esilio che
riguarda ogni uomo e ogni donna, ogni creatura umana che riguarda
ogni persona vivente: siamo in esilio dalla vita, in esilio dal
giardino.
In realtà questo esilio, che porta con sé le
conseguenze della destrutturazione porta anche in sé tutto
un complesso di segni di speranza, promesse di redenzione, di
ritorno alla vita, perché nel frattempo la morte, che
è la conseguenza inevitabile di quel che è successo,
si è spostata in là, c'è stato uno
slittamento, uno spostamento: quando mangiaste così e
così, morireste. In realtà mangiano, ma non muoiono.
Moriranno. Si apre uno spazio intermedio, un tempo imprevisto,
imprevedibile, ma tutto è rivelazione di una iniziativa di
Dio che, nella sua gratuità, fin dall'inizio è
già espressione di una incrollabile fedeltà di amore
che vuole recuperare, Tra quella situazione di disagio, di
smarrimento della vita, di paura, di disordine e la morte si
inserisce questo esilio.
L’esilio non è semplicemente la raffigurazione della
condanna, sono buttati fuori dal giardino. L'esilio diviene il
luogo e il tempo di una situazione che ancora trattiene la morte,
perché nel tempo e nel luogo dell'esilio Dio ha ancora
qualcosa di suo da realizzare. Siamo in esilio dalla vita per
andare incontro alla morte. Ma questo essere in esilio dalla vita
ci coinvolge nella novità di una rivelazione. Esilio =
rivelazione
C'è la rivelazione di qualcosa che appartiene al segreto di
Dio di cui noi ancora non ci eravamo resi conto. I progenitori sono
mandati in esilio dal giardino, ossia dalla vita, perché
debbono imparare a vivere. Intanto la morte è trattenuta,
certo che moriranno, ma proprio il loro essere esuli non li fa dei
condannati, ma persone che debbono imparare a vivere. E non
c'è alternativa ormai alla nostra condizione umana, non
c'è altro modo per re-imparare a vivere che non sia
l'esilio.
E' vero che poi la storia umana ci parla di molteplici tentativi di
recupero, di ritorno, di rivincita, gli uomini che dal giardino
sono stati buttati nel deserto, si arrabattano per uscire dal
deserto ed espugnare di nuovo il giardino. Le inventano tutte a
modo loro. La grande cifra simbolica che ricapitola questo
tentativo dell'uomo per riuscire dal deserto per ricostruire il
giardino è la città che in realtà poi si
riduce in un ulteriore sprofondamento nel deserto.
Ma la situazione dell'esilio non è affidata
all'umanità. Nella situazione dell'esilio si rivela Dio, in
quel brancolare degli uomini che nel deserto vogliono uscire per
conquistare il giardino e costruiscono una città a misura
del deserto, interviene Dio. Siamo in esilio dalla vita, stiamo
imparando a vivere.
"Mio padre era un Arameo errante", dice (Dt 26) il devoto
del popolo di Dio che offre le primizie dopo essere entrato nella
terra promessa. La coltivazione di campi e finalmente il raccolto,
ed ecco le primizie del raccolto offerte al santuario insieme a
questa dichiarazione: "Mio padre era un Arameo errante", mio
padre era un esule, la nostra umanità invisibile, ma proprio
l'esperienza dell'esilio ci ha condotti a urtare con la presenza di
un interlocutore che attraversa tutte le nostre relazioni
destrutturate come sono: relazioni con il mondo per cui noi
divoriamo o rifiutiamo di mangiare, la relazione con gli altri per
cui noi ci scateniamo nella ricerca del potere vincente per
sopraffarci, la relazione con Dio per cui noi abbiamo paura oppure
ci ribelliamo nel tentativo di dominare anche la potenza di Dio a
nostro vantaggio. Tutte le nostre relazioni destrutturate come sono
state attraversate da questa presenza. La presenza di un
interlocutore che ci è venuto incontro e ha conferito
all'esilio della nostra condizione umana la qualità piena e
feconda e benedetta di un ingresso nella vita: stiamo imparando a
vivere.