2 aprile 2013
Quinto incontro del ciclo 2012-2013
Abbiamo letto la 1° Lettera a Timòteo e stasera affrontiamo la Lettera a Tito, proseguendo nell'ascolto delle cosiddette Lettere pastorali. E' un piccolo scritto, solo tre capitoli, che dovremmo riuscire ad esaminare stasera anche perché vorrei sorvolare su quelle pagine che riprendono sostanzialmente temi, spunti, indicazioni e insegnamenti che erano già presenti nella 1° Lettera a Timoteo. Vorrei riuscire però a cogliere un'intonazione che certamente è caratteristica di questa Lettera a Tito e che mi sembra importante valorizzare. Tito è un altro dei grandi collaboratori di Paolo. Di Tito non si parla negli Atti degli Apostoli, ma il suo nome è citato e la sua presenza è riconosciuta e apprezzata da Paolo, in alcuni suoi scritti e lettere più conosciute: Lettera ai Gàlati, 2° Lettera ai Corinzi e si parlerà di lui ancora nella 2° Lettera a Timòteo. Tito è pagano di origine, un sirio di Antiochia; nel Nuovo Testamento un altro pagano della stessa origine è noto e svolge un ruolo preziosissimo: si tratta di Luca (l'evangelista) che è l'unico autore tra tutti quelli da cui abbiamo ricevuto gli scritti neo-testamentari che provenga dal paganesimo. Tito proviene dallo stesso ambiente dell'evangelista Luca e questo credo che sia un motivo su cui si dovrebbe riflettere per il fatto che non è mai citato negli Atti degli Apostoli che sono di Luca. Forse, è inutile disperdersi in queste considerazioni mentre certamente abbiamo a che fare con uno di quei collaboratori di cui Paolo si è fidato nel corso della sua attività dedicata all'evangelizzazione: personaggio citato negli scritti di Paolo come figura di riferimento per opere di mediazione e pacificazione come emerge nelle pagine della Lettera a lui indirizzata. Quando Paolo scrive è in viaggio per recarsi a Roma che sarà per lui l'ultima meta, mentre Tito si trova a Creta.
Da Paolo, servo di Dio, a Tito, figlio nella fede
Cap. 1, vv. 1-4. I primi quattro versetti sono di indirizzo e saluto. Vorrei procedere con sollecitudine per cogliere l'intonazione che mi sembra più istruttiva e pedagogicamente più coinvolgente, così come potremo intravedere, tenendo conto del fatto che Paolo rivolge a Tito alcune raccomandazioni che sono già state considerate e analizzate da noi leggendo la 1° Lettera a Timòteo, anche se la letterina che adesso leggiamo dimostra di esprimersi con un linguaggio che è più maturo, più sobrio, come capita a chi ha già chiarito qual è un certo impianto logico, una certa organizzazione dei pensieri ed elaborato certe formule linguistiche che servono a comunicare quello che si ritiene essenziale. La 1° Lettera a Timòteo ha carattere più aperto, più discorsivo, più esposto a elaborazioni creative; la Lettera a Tito, da questo punto di vista, è più circoscritta all'interno di schemi in qualche modo già scontati. Quel che conta, ripeto, è cogliere un'intonazione che al momento opportuno emergerà in maniera determinante e che costituisce la nota caratteristica della comunicazione che Paolo indirizza al suo collaboratore.
Un avvio, nei primi quattro versetti, particolarmente solenne, complesso; poche righe dotate di una densità teologica; quello che appunto è possibile quando ormai l'impianto della comunicazione ha assunto una sua forma così precisa e rigorosa per cui non c'è bisogno di disperdersi per vie traverse o procedere per accenni, ma in blocco si condensa tutto un carico di dottrina particolarmente qualificato. "Paolo, servo di Dio (servo in questo caso è un titolo d'onore), apostolo di Gesù Cristo (questa consacrazione di Paolo al servizio di Dio si sviluppa in termini missionari) per chiamare alla fede gli eletti di Dio e per far conoscere la verità che conduce alla pietà ed è fondata sulla speranza della vita eterna, promessa fin dai secoli eterni da quel Dio che non mentisce, e manifestata poi ("in questi tempi", bisognerebbe aggiungere) con la sua parola mediante la predicazione che è stata a me affidata per ordine di Dio, nostro salvatore, a Tito, mio vero figlio nella fede comune: grazia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù, nostro salvatore" (in questi tre versetti Paolo presenta se stesso e il destinatario). Abbiamo incontrato già il titolo di "Salvatore" nella 1° Lettera a Timòteo e qui nel v. 3 è attribuito a Dio e nel v. 4 a Cristo Gesù. E' il nostro Salvatore; è così che l'opera della salvezza si è compiuta in obbedienza a Dio. E' un'iniziativa che viene da lontano; qui il richiamo alle promesse che si sono compiute al tempo stabilito e, quindi, all'incarnazione e a tutta l'evangelizzazione che ormai è in atto, e all'impegno diretto e personale di Paolo in quanto a lui è stata affidata la "predicazione", il "kerigma", l'evangelizzazione, secondo la provvidenziale disposizione di ogni cosa in obbedienza a Dio. Notate che nel v. 1 Paolo si è presentato in quanto incaricato di svolgere una missione che si rivolge a coloro che sono "eletti da Dio", nel senso che a loro è concesso di trovare fondamento nella fede e costoro che sono eletti da Dio sono coinvolti in una relazione che li mette in movimento; una tensione che al modo di un'onda li afferra e li trasporta per far conoscere la verità che conduce alla pietà. Il termine "pietà" è un termine che abbiamo rilevato nella 1° a Timoteo come sintesi teologica di particolare ricchezza e vedete come questa vocazione diventa un itinerario, un coinvolgimento progressivo nell'adesione all'opera di Dio che si è compiuta secondo quella modalità tipicamente Sua che si ricapitola nei segni della "pietà", come ne parlavamo a suo tempo. Questo coinvolgimento che ora è attivato mediante l'evangelizzazione di cui Paolo è responsabile in prima persona, sta in continuità con quella speranza che fu suscitata fin dall'inizio mediante il dono delle "promesse" fin dai secoli eterni, fin da quel segreto nascosto, custodito da sempre nell'intimo del Dio vivente. E Dio non mente e adesso quella promessa si è manifestata, si è compiuta; quel segreto è stato esplicitato e, quindi, dall'incarnazione alla Pasqua redentiva, attraverso l'evangelizzazione procede, cresce questa impresa missionaria che man mano coinvolge coloro che Dio chiama alla pienezza della vita. E' il cammino del ritorno alla sorgente; il cammino della conversione che si sta sviluppando in una prospettiva di efficacia universale. Ma intanto c'è di mezzo la relazione diretta, a tu per tu, tra Paolo e Tito, "mio vero figlio nella fede comune: grazia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù, nostro salvatore".
I presbiteri e l'episcopo, il "visitatore"
Dal v. 5 al v. 16 una prima sezione della Lettera che sostanzialmente riprende elementi che già leggevamo nella 1° Lettera a Timòteo; sono raccomandazioni che Paolo rivolge a Tito circa l'organizzazione dei servizi, dei ministeri all'interno della comunità dei discepoli del Signore con la denuncia anche in questo caso relativa alla presenza di falsi maestri. Le figure che emergono sono quelle che già conosciamo: i presbiteri e l'episcopo (vv. 5-9), gli uni citati al plurale, il secondo al singolare come già avveniva nella 1° a Timoteo. Abbiamo a che fare con una realtà comunitaria dove gli anziani, presbiteri, sono presenze plurali, un consesso che svolge funzioni articolate e polivalenti; la figura dell'episcopo, citata al singolare, ha le caratteristiche di qualcuno che esercita una responsabilità di coordinamento; ma il termine "episcopos" sarebbe meglio intenderlo come la nota caratteristica di un servizio che si svolge mediante la pazienza, la capillarità, la continuità di una visita: l'"episcopos" è il "visitatore" per antonomasia, per definizione; dire di lui che è un coordinatore significherebbe attribuirgli una funzione sostanzialmente passiva (colui che riceve dei dati, li sistema in una forma di archivio che può servire per un'organizzazione futura del vissuto comunitario); ma qui è una posizione piuttosto attiva in quanto è colui che prolunga, con la sua presenza nella comunità dei discepoli, in maniera sacramentale, rappresentativa e apportatrice di grazia, quella che è stata la visita di cui Dio stesso è stato protagonista nella storia umana. Tutta la storia della salvezza è la storia della visita di Dio. Ed ecco la presenza sacramentale nella Chiesa: l'"episcopos" è il segno efficace che, sacramentalmente, prolunga la visita per la salvezza di cui Dio stesso è stato l'autore. "Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato (le qualità caratteristiche di questi presbiteri consistono nell'irreprensibilità personale e nell'esemplarità della vita domestica): il candidato deve essere irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano insubordinati".
Nel caso dell'"episcopos", v. 7, oltre all'irreprensibilità personale c'è da notare l'insistenza sulla benevolenza del tratto e, più esattamente, sul compito dell'insegnamento. "Il vescovo infatti, come amministratore di Dio ...". Il titolo che viene attribuito all'"episcopos" in maniera programmatica è esattamente questo: l'economo, l'amministratore di Dio nel senso che la prerogativa tipica di questa figura nella comunità dei discepoli è la familiarità con Dio: una familiarità che lo rende sacramento della presenza di Dio per cui il suo modo di visitare è il suo modo sacramentale di rendere attiva quella visita per la salvezza che Dio stesso ha realizzato nel corso di tutta una lunga storia fino alla pienezza dell'incarnazione nella Pasqua redentiva del Figlio. Osservate adesso una serie di sei note negative e sette note positive che convergono, attraverso quelle sottolineature relative alla benevolenza del tratto, nell'impegno di una continuità didattica: l'"episcopos" insegna, ed il suo modo di essere presente, di visitare la Chiesa, le chiese, anche la capillarità più periferica in cui si svolge e procede la crescita dell'evangelizzazione, è espressione di un impegno che edifica per come tratta coloro a cui si rivolge. "... dev'essere irreprensibile: non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio (ciascuno di questi termini meriterebbe una riflessione che condenso nell'espressione "la familiarità del tratto", come dicevo prima, che corrisponde, nella relazione con coloro cui l'"episcopos" si rivolge, a quella familiarità che è definizione intrinseca del suo riferimento a Dio), padrone di sé, attaccato alla dottrina sicura (la settima nota positiva: l'insegnamento. Questo impegno didattico si esprime più che con i contenuti con le forme di una particolare abilità nel districarsi all'interno di una conflittualità, che è interna alla vita delle chiese, ma che implica anche il rapporto esterno con la realtà del mondo), secondo l'insegnamento trasmesso, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono". Esortazione e confutazione; incoraggia e contesta. "Perché sia in grado ..." dice Paolo: deve possedere quella abilità energica per essere in grado di districarsi in quella conflittualità cui accennavo prima, perché la continuità dell'evangelizzazione è quel che conta; non tanto la definizione di contenuti che peraltro vengono man mano acquisiti e sempre interpretati ed elaborati, ma è la continuità dell'evangelizzazione che passa in maniera vitale attraverso situazioni di incertezza per cui l'episcopo, a partire da quella familiarità e nel contesto di una familiarità che lo apre a situazioni di vicinanza particolarmente affettuosa e significativa, all'interno della Chiesa e all'esterno di essa, sa come opportunamente elogiare, incoraggiare, esortare e, nello stesso tempo, correggere, rivedere, discernere in maniera da eliminare elementi che possano distrarre la vita comunitaria nella Chiesa dalla coerente fedeltà e adesione alla continuità dell'evangelizzazione.
Chiudere la bocca ai falsi dottori: sono contaminati interiormente
Vv. 10-16. Adesso la denuncia dei falsi maestri: "Vi sono infatti, soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione, molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori della gente". Sono promotori di una pastorale menzognera, parassitaria. "Chiacchieroni, ingannatori della gente"; tradurrei proprio così: "persone che ingannano il modo di sentire della gente"; è una pastorale deviata e inquinata che interferisce con il movimento interiore degli animi e delle coscienze. C'è un richiamo a quelli che provengono dalla circoncisione: sono per lo più, dice Paolo, cristiani giudaizzanti che vogliono, in un modo o nell'altro, affermare la loro superiorità; in realtà in modo spudorato; questioni relative alla circoncisione che vengono da lontano, che sono state dibattute in altre occasioni; questioni riguardanti l'alimentazione e altre norme di comportamento (ne parlava anche Paolo nella 1° Lettera a Timòteo). E Paolo ancora una volta dimostra di essere particolarmente risentito nei confronti di queste menzogne. "A questi tali bisogna chiudere la bocca (proprio una museruola: c'è qualcosa di animalesco per Paolo in questo modo di operare con competenza magistrale, ma in una prospettiva così compromessa e inquinante), perché mettono in scompiglio intere famiglie ...". Un danno che investe la famiglia, le relazioni interne alla comunità e le relazioni che hanno bisogno di una particolare comprensione, delicatezza, attenzione, laddove la potenza dell'Evangelo irrompe con tutta la sua novità di liberazione, di rieducazione, di ristrutturazione di tutto l'impianto della nostra esistenza; e invece questa falsa, menzognera, animalesca pastorale vuole imporsi in nome di un principio di autorità che cala dall'alto e fa appello a una presunzione di superiorità che per Paolo è del tutto squalificata. Che cosa vuol dire essere circoncisi? Paolo non ce l'ha con la circoncisione per quanto riguarda la vocazione di Israele; lui stesso è circonciso. Che cosa vuol dire esercitare il proprio ruolo magistrale nei termini di chi fa calare dall'alto e impone, con severo rigore, norme di comportamento che sono direttamente in contrasto con quella potenza di trasformazione che è la pietà di Dio? Ne abbiamo parlato a lungo nei mesi scorsi: la pietà che opera dal basso con una straordinaria delicatezza e, d'altra parte, con tutta l'efficacia dell'amore puro, santo; l'amore che salva, che libera, che purifica; l'amore che converte, l'amore di Dio. "A questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono in scompiglio intere famiglie, insegnando per amore di un guadagno disonesto". Questo accenno alla ricerca di un guadagno provoca in Paolo un profondo disgusto. "Guadagno" qui fa tutt'uno con quella presa di posizione che vuole imporre la propria superiorità, come se si potesse caratterizzare il superlativo valore morale di chi si adegua a certe norme, o meglio di chi le impone agli altri, per meritare anche un riconoscimento che comporta tutta una serie di arricchimenti inquinati, gratificazioni di ordine umano o economico quanto mai disoneste. "... cose che non si devono insegnare. Uno dei loro, proprio un loro profeta (Paolo cita un poeta di Creta, Epimenide di Cnosso, VI secolo a.C.), già aveva detto: «I Cretesi son sempre bugiardi, male bestie, ventri pigri»". Una profezia non nel senso classico o biblico; una profezia alla rovescia per cui la tradizione popolare dice che i cretesi sono così, come si può dire che "i piemontesi sono falsi e cortesi". A Creta sono evidentemente riscontrati fenomeni di pastorale deviata in maniera particolarmente preoccupante.
"Questa testimonianza è vera. Perciò correggili con fermezza, perché rimangano nella sana dottrina e non diano più retta a favole giudaiche e a precetti di uomini che rifiutano la verità". Le favole giudaiche sono appunto quel complesso di osservanze a cui bisognerebbe attenersi per dimostrare di aver preso sul serio l'Evangelo e veramente aderito ad esso; aver intrapreso il cammino della vita nuova: menzogne colossali. "... non diano più retta a favole giudaiche e a precetti di uomini che rifiutano la verità"; come diceva Paolo fin dal v. 1, "la verità che conduce alla pietà", la verità che è l'Evangelo che ci coinvolge nel "mistero della pietà". Ce ne parlava nella 1° Lettera a Timoteo.
V. 15: "Tutto è puro per i puri". Ricordate che nei Promessi Sposi padre Cristoforo è in dialogo con Lucia in un momento particolarmente drammatico della sua vita e le dice "Omnia munda mundis": è una citazione della Lettera a Tito, proprio in questo versetto. Paolo ricapitola quello che ha appena affermato come un'esplicitazione di quell'alternativa che implica una radicale rieducazione dell'animo umano, per cui la purezza non sta nell'oggettività dell'osservanza, ma sta nell'intima, radicale rieducazione del cuore umano: "Tutto è puro per i puri": non è certo rifugiandosi nel gioco delle osservanze che si può attestare l'autenticità della vita nuova in corrispondenza all'Evangelo; anzi "per i contaminati e gli infedeli nulla è puro". Le stesse osservanze così come vengono proposte e imposte dai falsi maestri moltiplicano l'impurità; le stesse osservanze, in un contesto nel quale l'animo è ancora ripiegato su se stesso, intrappolato dentro alla logica della soggettività umana autoreferenziale, là dove è l'iniziativa umana che vorrebbe imporsi come protagonista ecco che "per i contaminati e gli infedeli nulla è puro". Anche le osservanze più sofisticate non ottengono altro risultato se non quello di esasperare la negatività del vissuto. "... sono contaminate la loro mente e la loro coscienza (il "nous", la vita interiore, indipendentemente dal significato di questo termine nel linguaggio dei filosofi antichi del mondo greco). Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti, abominevoli come sono, ribelli e incapaci di qualsiasi opera buona". Sono affermazioni molto drastiche; è un fenomeno macroscopico di doppiezza tra proclami verbali e i rinnegamenti nei fatti. Quella coerenza interiore che Paolo vuole in tutti i modi valorizzare come espressione autentica dell'Evangelo che è stato trasmesso, che è stato accolto ed è divenuto la forza trasformatrice della vita; quella positività di una vita operosa perché dalla coerenza interiore dipende poi l'intraprendenza, l'efficacia, la concretezza del vissuto, svapora in uno stato di capillare, generale corruzione. "... abominevoli come sono": questa è corruzione. Tutto per adesso fa perno intorno all'affermazione che abbiamo letto nel v. 15: "Tutto è puro per i puri".
Consigli per i vecchi, le donne, i giovani e gli schiavi
Cap. 2, vv. 1-10. Nella sezione seguente che ci porterà fino al v. 11 del cap. 3 (praticamente tutto il seguito della Lettera) Paolo raccomanda a Tito di impegnarsi nella ricerca di questa purezza. L'autenticità della vita cristiana non sta in quelle regole che i falsi maestri vorrebbero imporre (ha già affrontato la questione con estrema chiarezza e decisione intransigente). "Tu però insegna ciò che è secondo la sana dottrina (da quella purezza dipende la purificazione del mondo: "Tutto è puro per i puri". E Paolo rievoca richiami che aveva già rivolto a Timoteo circa diverse categorie di cristiani, categorie per lo più squalificate o emarginate: le persone anziane, i giovani e gli schiavi. Leggo senza soffermarmi sui dettagli): "i vecchi siano sobri, dignitosi, assennati, saldi nella fede, nell'amore e nella pazienza. Ugualmente le donne anziane si comportino in maniera degna dei credenti (i comportamenti degli uni e delle altre esprimerà un valore sacro): non siano maldicenti né schiave di molto vino; sappiano piuttosto insegnare il bene, per formare le giovani all'amore del marito e dei figli, ad essere prudenti, caste, dedite alla famiglia, buone, sottomesse ai propri mariti, perché la parola di Dio non debba diventare oggetto di biasimo". Paolo attribuisce alle donne un presidio didattico, la custodia degli affetti, il valore della comunicazione tra donna e donna e nell'ambiente femminile è accolta e promossa la responsabilità riguardante l'ascolto della parola di Dio. Nel mondo giudaico queste cose non sono per le donne; qui invece la parola di Dio viene raccolta, custodita e trasmessa nella conversazione che è prerogativa intrinseca del mondo femminile e che diventa energia che, dall'interno, struttura la casa, la famiglia, e dunque le relazioni primarie che sono quelle a cui attinge la comunità dei discepoli del Signore. I giovani, dal v. 6 al v. 8: "Esorta ancora i più giovani a essere assennati (aggiungete qui "in tutto") offrendo te stesso come esempio (i giovani come testimoni di un impegno totale nello slancio degli affetti, nella ricerca dei confronti formativi e, d'altra parte, lo stesso Tito che è più giovane di Paolo viene incaricato di mettersi a disposizione in quanto adulto senza pregiudizi per quel rapporto interlocutorio di cui i giovani vanno in cerca) di buona condotta, con purezza di dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti confuso (in questo modo l'avversario, che è il divisore, viene sgominato), non avendo nulla di male da dire sul conto nostro", laddove il linguaggio è aperto al confronto; laddove tra generazioni ci si pone vicendevolmente in ascolto gli uni degli altri; i giovani bisognosi di acquisire esperienze e i più adulti in quanto mettono a disposizione la propria ricerca che continua mediante l'elaborazione di un linguaggio sempre più coerente e fecondo per l'edificazione comune.
Vv. 9-10, gli schiavi: "Esorta gli schiavi a esser sottomessi in tutto ai loro padroni (già parlavamo di questa particolare dignità che compete agli schiavi in quanto a loro spetta l'impegno di evangelizzazione nei confronti dei padroni); li accontentino e non li contraddicano, non rubino, ma dimostrino fedeltà assoluta (ecco dove sta la competenza che qualifica in maniera superlativa gli schiavi in rapporto ai loro padroni), per fare onore in tutto alla dottrina di Dio, nostro salvatore". E' una nobiltà specialissima quella che compete agli schiavi nei confronti dei loro padroni; un vero e proprio magistero per fare onore in tutto alla dottrina di Dio.
La gloria di Dio in Cristo Gesù
Vv. 11-15. Adesso noi troviamo un segnale che ci dà modo di impostare il seguito della lettura nei versetti seguenti, chiarendo bene qual è lo snodo che qui emerge in maniera determinante. Questo verbo "fare onore alla dottrina" è una nota di nobiltà, di eleganza, di bellezza ed è il termine che governa le pagine che seguono nella Lettera: la bellezza della vita cristiana. Potremmo discutere riguardo a queste poche righe, ma per affrontare le questioni relative alla vita degli schiavi bisogna parlare di altro. E invece Paolo parla della bellezza della vita cristiana: è una bellezza che diventa epifania, manifestazione, rivelazione luminosa, gloriosa, sfolgorante dell'Evangelo accolto e che così viene trasmesso: è l'Evangelo di Dio, nostro salvatore.
Di seguito, ora, v. 11, leggiamo i versetti che costituiscono la seconda lettura della messa della messa di mezzanotte a Natale. Ci sono tre messe per la festa della natività del Signore: la messa di mezzanotte, dell'aurora, e la messa del giorno; la seconda lettura della messa di mezzanotte è, per una tradizione antichissima, presa da qui, dove Paolo ha impostato il discorso della bellezza della vita cristiana quale che sia la condizione di schiavitù che la condiziona, che la definisce in termini oggettivi. "E' apparsa infatti la grazia di Dio". Forse avete nelle orecchie queste parole. La prima lettura è "una grande luce splende nella notte ..." (Is. 9); la seconda "E' apparsa infatti la grazia di Dio", dove grazia significa eleganza, delicatezza, bellezza, come vuol dire carità, gratuità, amore. E' la grazia di Dio. E' l'epifania della grazia. E, nei versetti seguenti, compare anche la seconda lettura della messa dell'aurora a Natale. Quest'anno i due testi che adesso leggeremo di seguito sono stati messi insieme e sono diventati la seconda lettura della messa per la festa del Battesimo del Signore, la prima domenica del tempo ordinario, dopo l'Epifania. "E' apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo; il quale ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone", (fino qui è la seconda lettura della messa di mezzanotte) dove le opere buone sono le opere "belle": zelante nella bellezza. Questa è la nota caratteristica, l'intonazione della Lettera a Tito su cui insistevo all'inizio e che ora val la pena di cogliere e sottolineare. Paolo raccomanda a Tito di porsi al servizio della bellezza della vita cristiana perché ormai è apparsa la "grazia": l'opera di Dio per la salvezza in questo tempo: una singolare pedagogia è stata attivata da Dio per tutti gli uomini. La sua è un'opera impostata in termini pedagogici (v. 12: "ci insegna") ma è sempre più evidente come questa pedagogia abbia le caratteristiche di una rivelazione della bellezza che ci affascina e ci conquista; è la bellezza del presepio, della notte di Natale; è la bellezza nella quale noi ci troviamo accolti e riconosciuti; è il mistero della pietà che conferisce bellezza alla nostra condizione umana, ma una bellezza che implica tutta una ristrutturazione del nostro vissuto. C'è di mezzo una radicale rieducazione dei nostri desideri: "rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà" le direttrici con le quali si svolge questa pedagogia. Sobrietà per indicare le relazioni in noi, giustizia per le relazioni con gli altri e pietà le relazioni con Dio, in questo mondo. E' tutto il sistema del nostro vissuto, la molteplicità delle nostre relazioni, tutto l'intreccio delle nostre relazioni che adesso è ristrutturato a partire da una rifondazione dei nostri desideri "nell'attesa della beata speranza" (v. 13). Si va dall'Incarnazione - Gesù Cristo Salvatore che è apparso - alla parusia, epifania "della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo; il quale ha dato se stesso per noi ...". Vedete come in pochi tratti Paolo riesce a ricapitolare tutto l'itinerario che dall'Incarnazione giunge fino alla parusia, passando attraverso l'opera redentiva di Cristo che si è consegnato per un puro dono d'amore che è più forte dell'iniquità: "ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga". Questa è l'epifania della bellezza dinanzi alla quale noi siamo incantati e dalla quale siamo conquistati. E' tutta l'opera poetica e pastorale di S. Alfonso de' Liguori. "... un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere belle"; questo popolo che appartiene a Lui, converge verso di Lui, aderisce a questa epifania; si immerge, si tuffa in questa rivelazione della grazia, della bellezza di cui Dio stesso è l'autore che coincide con la presenza del Figlio nella carne umana fino ad anticipare per noi quello che sarà l'evento finale, ossia la sua manifestazione gloriosa. E questo popolo che appartiene a Lui è caratterizzato da una gelosia d'amore, un'affezione intima, profonda che diventa il motivo portante della vita nel mondo per la bellezza; è una bellezza che è tutta da vivere nella purezza che (ricordate il v. 15 del capitolo precedente) è prerogativa determinante di tutta l'evangelizzazione in quanto apre strade di conversione nella vita degli uomini e queste strade di conversione sono percorribili a partire da una radicale purificazione. E' quello di cui Paolo sta riparlando qui in maniera così essenziale, ma anche in una maniera così ben articolata, costruita, ricapitolata; sembra proprio di aver a che fare con una sintesi catechetica intelligente (è Paolo, non c'è dubbio) e persuasiva. Un popolo zelante innamorato della bellezza. Questa è l'intonazione caratteristica della lettera che stiamo leggendo. E di questo Paolo sta parlando e vuole parlare con Tito; di questa gelosia d'amore per la bellezza che fa tutt'uno con quella purezza che padre Cristoforo illustrava a Lucia: "Tutto è puro per i puri".
"Questo devi insegnare" (v. 15). Qui sta l'autorevolezza di Tito, altro che gridare dall'alto e imporre regole; qui sta la sua responsabilità magistrale in quanto Paolo gli raccomanda di rivendicare la bellezza della vita cristiana. "Questo devi insegnare, raccomandare e rimproverare con tutta autorità. Nessuno osi disprezzarti!".
Dolcezza verso tutti gli uomini
Cap. 3, vv. 1-3: "Ricorda loro di esser sottomessi (una sorpresa ulteriore: dopo aver parlato di alcune categorie schiacciate, compromesse per evidenti motivi nel contesto della vita sociale come gli anziani, i giovani e gli schiavi, adesso si rivolge a tutti. Paolo qui ha davanti a sé la novità della vita cristiana in quanto tale che è vita battesimale; e la presenza dei cristiani nella vita pubblica più esattamente. E ribadisce ora l'impegno che Tito deve assumersi per quanto riguarda il servizio della bellezza, la rivendicazione della bellezza della vita cristiana nel contesto dell'organizzazione pubblica della società. Questo è sconcertante per noi) ai magistrati e alle autorità (non c'è dubbio, abbiamo a che fare con l'impegno politico e con la coscienza politica dei cristiani nel contesto della società civile. E l'insistenza adesso sta sul valore della bellezza), di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona; di non parlare male di nessuno, di evitare le contese, di esser mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini". La vita pubblica per Paolo è diventato ormai il luogo in cui viene resa testimonianza a quella bellezza della vita cristiana che si manifesta come capacità di accoglienza universale. Le espressioni usate non alludono semplicemente alla bonarietà, all'indulgenza di chi non va tanto per il sottile; qui si tratta più esattamente di esercitarsi costantemente in quella testimonianza di bellezza che riversa, proietta, trasmette e genera bellezza. Che la vita pubblica sia lo scenario della dolcezza: questo Paolo raccomanda a Tito perché lo raccomandi a noi. Quando Paolo parla della bellezza della vita cristiana non sta parlando dei bambini che fanno la prima comunione e che portano il vestitino bianco, sta parlando ai cristiani che sono alle prese con tutte le vicissitudini, le contrarietà, le asprezze, le complicazioni, le contraddizioni della vita sociale. Lo scenario della dolcezza.
Siamo ormai eredi della vita eterna: la politica della bellezza
E prosegue perché un'affermazione del genere lì per lì è da ritenere come il segno di un improvviso impazzimento di Paolo. Ma Paolo dice: no, non sono impazzito, perché questo è l'effetto di un cambiamento avvenuto, di una conversione realizzata: "Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell'invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda". Un tempo era dominante l'odio vicendevole, la politica come esercizio del potere potrebbe dire Pio, volontà di morte. E Paolo non parla a vanvera quando sta raccomandando a Tito di rivendicare il valore della bellezza della vita cristiana perché sa bene che noi proveniamo da questa situazione di orribile, infame bruttezza.
"Quando però (dal v. 4 comincia il brano che è la seconda lettura della messa dell'aurora a Natale e questo, da secoli e secoli, è riferimento insostituibile nella preghiera del popolo cristiano che contempla la natività del Signore) si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna". Siamo passati da quel tempo in cui l'odio vicendevole era modalità scontata, ritenuta necessaria per assumere impegni di ordine pubblico, civile e politico (l'esercizio del potere), da quella volontà di morte a una situazione nuova nella quale si è illuminata per noi la prospettiva di una morte per amore (la politica come svuotamento del potere, avrebbe detto Pio). E questa prospettiva che si apre dinanzi a noi fino a morire per amore è quanto noi siamo in grado di cogliere, intravedere e ormai riconoscere come il percorso da affrontare dal momento che siamo spettatori della epifania, della vera e unica filantropia, la vera e unica amicizia per gli uomini: l'epifania della bontà di Dio, salvatore nostro. E qui c'è di mezzo quella che è stata già la nostra morte e, quindi, la nostra rinascita nel battesimo. "... egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo". E' il battesimo; e noi in questo modo abbiamo acquisito un titolo valido, dice Paolo, per conseguire l'eredità che già è stata depositata, dal momento che Lui ci ha preceduti; è passato attraverso la morte, nella gratuità dell'amore ha sconfitto l'odio ed è entrato ormai nella sua gloria. Ha depositato per noi l'eredità "perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna". Tutto si svolge per noi in corrispondenza all'opera della misericordia di Dio che ci ha coinvolti in un rapporto di comunione indissolubile con il Figlio che Dio stesso ha donato a noi, Gesù nostro salvatore. Per questo è stato effuso lo Spirito Santo che ci ha sigillati nella comunione con Lui. Notate che il verbo "effondere" che viene usato a riguardo dello Spirito Santo è lo stesso verbo che viene usato anche a riguardo del sangue; per cui là dove lo Spirito Santo è stato effuso noi siamo stati sigillati in un rapporto di comunione con quel suo modo di morire per amore che ha sconfitto l'odio e che ha inaugurato la "politica" della bellezza, elemento politico per eccellenza. La Chiesa celebra il mistero della Natività del Signore con qualche luminaria e qualche canto che commuove gli animi e conviene confermarci nella constatazione che la Chiesa celebra l'evento politico per definizione, per eccellenza, per antonomasia; il passaggio dalla volontà di morte alla morte per amore, dall'odio vicendevole in quanto esercizio del potere alla politica della bellezza che svuota quel potere di efficacia negativa, distruttiva, corrosiva. In queste poche righe, anche se a Natale non ci si pensa, è la bellezza del martirio che fonda la società civile, la bellezza della vita battesimale, della vita nuova, della vita cristiana.
Efficacia e utilità della bellezza della vita cristiana
Vv. 8-11: "Questa parola è degna di fede e perciò voglio che tu insista in queste cose, perché coloro che credono in Dio si sforzino di essere i primi nelle opere buone". "Si sforzino di essere i primi nella bellezza". E' l'operosità della vita cristiana che fa tutt'uno con questa epifania della bellezza e, notate, per Paolo non c'è niente di più utile di questo. Questa bellezza che è l'espressione intrinseca dell'operosità cristiana nella storia, nel mondo, sulla scena pubblica, è dotata di un'efficacia suprema. Non è la bellezza estetica, evanescente, puro dettaglio estetico che serve a incantare coloro che hanno altro da fare e da pensare perché le cose di questo mondo vanno gestite secondo altri criteri, i criteri propri dell'esercizio del potere. Non è così, dice Paolo: "Ciò è bello e utile per gli uomini": questa bellezza è utile; dove c'è di mezzo, naturalmente, tutto il nostro vissuto, nelle forme più spicciole, quotidiane, anche più personali; la professionalità della presenza cristiana nelle cose del mondo, l'arte di far bene le cose (vecchi temi di memoria "corradiniana"). "Guardati invece dalle questioni sciocche, dalle genealogie (gli schieramenti, le ideologie, i raggruppamenti che sono determinati da interessi condivisi e contrapposti, intrecciati e divaricanti), dalle questioni e dalle contese intorno alla legge, perché sono cose inutili e vane (questa vanità inoperosa, fannullona, una realtà disgustosa e avvilente per Paolo). Dopo una o due ammonizioni sta lontano da chi è fazioso, ben sapendo che è gente ormai fuori strada e che continua a peccare condannandosi da se stessa". E' questa prospettiva di abbrutimento della vita che è chiamata alla bellezza; una vita che sceglie una gestione autoreferenziale di se stessa come gli operatori che sono impegnati nella gestione di tutto quello che è pubblico per interessi privati. Questa ricerca di un'affermazione autoreferenziale si autocondanna, dice Paolo, all'inutilità e alla bruttezza: c'è gente che continua a peccare condannandosi da se stessa.
Saluto finale: un arrivederci escatologico
Vv. 12-15: "Quando ti avrò mandato Artema o Tìchico, cerca di venire subito da me a Nicòpoli (un appuntamento: Paolo prosegue per la via Ignazia dalla Macedonia, vuole arrivare a Durazzo; da lì imbarcarsi e arrivare, dopo l'inverno, a Roma, dove sarà nuovamente processato), perché ho deciso di passare l'inverno colà". Questa fretta che Paolo raccomanda a Tito è da intendere nel senso che è tipico di tutto il linguaggio neo-testamentario, dove la fretta è prerogativa della corsa evangelica. Ricordate nei vangeli dell'infanzia la fretta dei pastori, la fretta della Madonna che va a trovare Elisabetta; una tensione verso l'appuntamento finale. "Provvedi con cura (rapidamente, sollecitamente) al viaggio di Zena, il giureconsulto, e di Apollo, che non manchi loro nulla". Sono chiese in movimento; la chiesa è una stazione di sosta e poi di rilancio, dove temporaneamente si parcheggia e si viene rilanciati. "Imparino (verbo del discepolato che fa tutt'uno con quest' itineranza missionaria che si esercita nei modi dell'accoglienza, della condivisione e della corresponsabilità; chi si allontana viene sostenuto con tutti gli aiuti necessari) così anche i nostri a distinguersi nelle opere di bene (ritorna il tema dominante della bellezza della vita cristiana) riguardo ai bisogni urgenti, per non vivere una vita inutile". Lo affermava poco prima: la bellezza, quella bellezza battesimale, fino al martirio, è l'espressione della suprema utilità.
"Ti salutano tutti coloro che sono con me. Saluta quelli che ci amano nella fede". Questo modo di salutarsi che Paolo cita spesso nella conclusione delle sue lettere non è solo un convenevole di buona educazione, ma è già un anticipo di quello che sarà l'appuntamento finale: è un saluto escatologico, un "arrivederci" in vista di quello che sarà l'incontro nel contesto in cui tutta la creazione finalmente sarà riportata a quella bellezza che dall'inizio il Creatore le ha conferito e che ormai è apparsa per noi nella carne derelitta, crocifissa e glorificata del Figlio suo. Gesù Cristo.