4 giugno 2013
Settimo incontro del ciclo 2012-2013
Abbiamo letto, nel corso di quest'anno, le cosiddette Lettere Pastorali di S. Paolo: la 1° Lettera a Timoteo, la Lettera a Tito, la 2° Lettera a Timoteo. Stasera dovremmo arrivare alla fine della Seconda Lettera a Timoteo e quindi alla fine di un ciclo.
Paolo è a Roma, in carcere (anno 67 o più probabilmente 68 d.C.). E' l'ultimo scritto di Paolo; si rivolge al suo discepolo, amico e collaboratore, Timoteo, in un momento di evidente disagio. Ormai il procedimento giudiziario sta giungendo alla sentenza finale che sarà una sentenza di morte. Paolo in carcere è aiutato da qualche altro amico e collaboratore che ancora può restargli vicino. Nelle pagine che leggeremo stasera fa il nome di Luca e la presenza di Luca evangelista accanto a Paolo a Roma è certamente da intravedere, a parte la menzione esplicita del suo nome, attraverso certe espressioni del testo che stiamo leggendo. Testo che assume in maniera drammatica, ma anche commovente, le caratteristiche di un testamento. La 2° Lettera a Timoteo mette insieme, in maniera davvero affascinante, quella capacità di comunicare, con le forme dell'intimità personale più accese, più intense, di colui che, giunto al termine del proprio cammino, si presenta per quello che è e consegna quello che è stato il percorso della sua vita. E, nello stesso tempo, è costante in queste pagine l'attenzione alla struttura organica della Chiesa e a quella missione al servizio dell'Evangelo che deve proseguire; la dottrina è sapientemente semplificata e, d'altra parte, la tensione emotiva si fa sempre più acuta e profonda.
Abbiamo letto due capitoli. Nei primi due versetti, l'indirizzo e il saluto; poi una prima parte della Lettera (fino al cap. 2, v. 13) che contiene gli incoraggiamenti di Paolo a Timoteo: una serie di richiami che fanno sempre riferimento a situazioni particolari che man mano stanno maturando nel contesto dell'impegno pastorale, per sostenere e incoraggiare Timoteo nel suo servizio di evangelizzazione destinato a proseguire.
Dal v. 14 del cap. 2 una seconda parte della Lettera fino al v. 5 del cap. 4. Abbiamo già letto i versetti che giungono fino a 26, alla fine del cap. 2: questa seconda parte contiene gli avvertimenti di Paolo a Timoteo in ordine a una vigilanza pastorale; dopo richiami molto personali a Timoteo che non mancano neanche nelle pagine che leggeremo questa sera, Paolo elabora motivi più precisi, strutturati dal punto di vista dottrinale per quanto riguarda l'attenzione pastorale a ciò che è l'essenziale della missione a servizio dell'Evangelo. Dal v. 22, negli ultimi versetti del cap. 2, ancora una volta una raccomandazione rivolta a Timoteo perché fugga dalle intemperanze giovanili e si renda disponibile per una comunicazione aperta, libera, gratuita, cordiale, senza prevenzioni e prepotenze di alcun genere; tutto questo confidando sempre nella conversione a cui tutti sono chiamati; una fiducia metodologica che per Paolo sembra coincidere con quella mitezza dell'animo che raccomanda a Timoteo - ma anche a chiunque si ponga al servizio dell'Evangelo - che, in realtà, è una condizione di vita che riguarda la vocazione cristiana di tutti noi. Una fiducia metodologica nella conversione altrui e nella conversione di tutti: vv. 24-26: "Un servo del Signore non dev'essere litigioso, ma mite con tutti, atto a insegnare, paziente nelle offese subite, dolce nel riprendere gli oppositori, nella speranza che Dio voglia loro concedere di convertirsi, perché riconoscano la verità e ritornino in sé sfuggendo al laccio del diavolo". Quella trappola nella quale gli uomini restano trattenuti e bloccati a causa di una volontà diabolica che vuole impedire loro di accogliere la Parola della verità e, dunque, quella forza, quell'impulso, quell'energia che oramai è stata introdotta nella storia umana, a partire dalla Pasqua del Signore, e che trasforma, converte dall'interno tutto l'impianto della nostra esistenza, in modo tale da ristabilire il valore originario della nostra vocazione alla vita. E questa Parola della verità, questo Evangelo che apre per gli uomini strade del ritorno alla vita è più forte di ogni influsso diabolico.
Tempi difficili: l'onda dell'egoismo sembra incontenibile
Dal v. 1 al v. 17 del cap. 3 (l'intero capitolo) Paolo si sofferma a considerare il conflitto che inevitabilmente bisogna affrontare una volta che si tratta di assumere e sviluppare quell'impegno di evangelizzazione che man mano si sta configurando in molteplici forme, ma nella continuità con la novità della Pasqua del Signore, in tanti luoghi, lungo moltissime strade, attraverso l'esperienza di tanti testimoni. E anche Timoteo dovrà affrontare quelli che Paolo chiama "i tempi difficili". Nei vv. da 1 a 9 è proprio questo scatenamento di forze negative che inevitabilmente bisognerà affrontare e che di fatto sono già sperimentate nell'esperienza viva e sincera di coloro che si dedicano al servizio dell'Evangelo. Fino al v. 9 le forze dell'empietà scatenate; dal v. 10 "Tu invece", per arrivare al v. 17.
Vv. 1-5"Devi anche sapere che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno (una sequenza di espressioni che risuonano come una grandinata) egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene, traditori, sfrontati, accecati dall'orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio, con la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegata la forza interiore. Guardati bene da costoro!". Gli uomini sembrano travolti da un'onda soverchiante, un'esplosione dell'egoismo umano nelle sue molteplici sfaccettature; ognuno di questi termini potrebbe essere commentato nel suo particolare significato, ma li prendiamo in blocco: c'è di mezzo l'esasperazione dell'individualismo, soggettivo o di gruppo, e comunque la presa di posizione della soggettività umana che si vuole imporre come valore assoluto, sacro, di riferimento e il massimo di questa negatività sta proprio (v. 5) nel camuffamento della pietà, con la parvenza della pietà. Ricordate bene come il termine "pietà" è stato usato da Paolo, nelle Lettere Pastorali che abbiamo letto, con una speciale premura pastorale, nel senso che il termine "pietà" è servito a ricapitolare tutto il disegno della salvezza. Ricordate nella 1° Lettera a Timoteo quel che leggevamo a riguardo del "mistero della pietà": l'amore di Dio dal basso, l'amore di Dio che abbraccia, incalza, recupera, salva in quanto è entrato nella storia umana con potenza redentiva che tutto ristabilisce in virtù di questa corrente d'amore che non schiaccia, non opprime, non s'impone nel modo tipico della prepotenza umana, ma con le forme della "pietà". Si chiama così ed è un riferimento teologico determinante nelle Lettere Pastorali che stiamo leggendo. E qui il massimo della negatività sta nel camuffare la pietà ed è un'eventualità tragica che fa tutt'uno con il rinnegamento della forza interiore di essa. Gli uomini sono geniali, abili, intraprendenti, riescono a strumentalizzare con una disinvoltura veramente diabolica (gli imbrogli del diavolo); il rischio che anche la "pietà" sia ridotta, attraverso la capacità di parlare, gestire, trattare, istituire situazioni complesse, a elaborare ideologie e imporre, se è il caso, metodologie di comportamento tipiche degli uomini che potrebbero anche tentare questa impresa, è la più tragica che mai possa essere compiuta; impossessarsi della "pietà" e farne uso a vantaggio della propria affermazione soggettiva, per l'esaltazione dell'egoismo autoreferenziale. In questo modo viene rinnegata la forza interiore della "pietà". "Guardati bene da costoro!".
Donne e uomini lontani dalla verità
Vv. 6-9.
Questo scatenamento dell'empietà viene preso in considerazione da Paolo nei due paragrafi che seguono con osservazioni che, lì per lì, forse scivolano senza sembrarci particolarmente provocatorie o comunque senza attirare immediatamente la nostra attenzione, ma sono due sobri e molto sapienti tentativi di illustrare quello scatenamento dell'empietà in rapporto al mondo femminile e alla presenza maschile.
Vv. 6-7: "Al loro numero appartengono certi tali (il numero di coloro che pretendono di strumentalizzare addirittura la "pietà") che entrano nelle case e accalappiano donnicciole cariche di peccati (non sono "donnicciole" nel senso di persone di poco conto: Paolo parla di figure femminili che hanno a che fare con l'esperienza dell'appesantimento. Dove leggiamo "cariche di peccati", l'allusione è a quel carico tipicamente femminile che è la gravidanza e le donne di cui sta parlando Paolo qui, sono donne emancipate; non sono donnicciole nel senso di persone squalificate, che non contano niente e che si lasciano abbindolare dal primo che arriva. Sono donne intraprendenti, anche molto volubili, ma c'è di mezzo una trasformazione tale per cui quel carico tipicamente femminile che è la maternità, è dismesso, nel senso che sono altre le presenze che occupano, invadono, che premono come un carico su queste figure femminili), mosse da passioni di ogni genere, che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità". Paolo non sta parlando in modo generico delle donne; sta citando un caso particolare di quella situazione di negatività che rende difficile l'evangelizzazione nel tempo attuale perché è un tempo che per certi versi è cattivo, ma è sempre il tempo dell'evangelizzazione. Ebbene, sono donne agitate da queste sollecitazioni superficiali, ma sono comunque persone istruite che stanno sempre lì ad imparare; hanno la loro presenza pubblica mediante la quale sanno come fare notizia, ma senza un rapporto interiore con l'Evangelo: "senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità" che non è la conoscenza nel senso concettuale del termine, ma è il coinvolgimento emotivo, affettivo; donne che hanno rinunciato alla maternità, per dirla in maniera essenziale, forse un po' grossolana, ma pertinente.
Di fronte a questa constatazione, adesso (vv. 8-9) la corruzione della presenza maschile. E' una riflessione su una modalità di penetrazione per quanto riguarda l'empietà che si scatena nei "tempi difficili": "Sull'esempio di Iannes e di Iambres (sarebbero i nomi dei maghi egiziani, secondo una tradizione giudaica. E' come quando chiamiamo i re magi Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Non c'è scritto nel testo biblico, ma è nella tradizione. Questi personaggi sono citati come figure esemplari per quanto riguarda l'impegno di una responsabilità magistrale; maghi e sapienti dell'Egitto. Attraverso loro Paolo sta rivolgendo l'attenzione a una prerogativa che ritiene tipicamente maschile che è di carattere didattico; più esattamente una responsabilità mirata a promuovere la crescita altrui. In questo coglie qualcosa che è tipico del carisma maschile così come la maternità è prerogativa tipicamente femminile) che si opposero a Mosè, anche costoro si oppongono alla verità: uomini dalla mente corrotta e riprovati in materia di fede. Costoro però non progrediranno oltre (non faranno crescere), perché la loro stoltezza sarà manifestata a tutti, come avvenne per quelli". Una stoltezza che strumentalizza ogni cosa per un puro esercizio del potere, a imitazione dei maghi d'Egitto laddove nel racconto biblico viene utilizzata la competenza tecnologica di cui sono dotati per non far crescere. C'è di mezzo un'intrinseca corruzione della presenza maschile sulla scena del mondo. Anche da questo si deduce davvero che siamo alle prese con "tempi difficili": la presenza maschile senza paternità, in maniera molto sintetica e un po' grezza, e una presenza femminile senza maternità: un arroccamento su posizioni di potere, senza possibilità dialogiche, senza costruire un contatto sapienziale; una rinuncia ad assumere quella responsabilità sapienziale, magistrale, didattica che Paolo ritiene tipica della presenza maschile; anche indipendentemente dalla paternità biologica è la presenza, nel contesto della scena del mondo, segnata dalla preoccupazione di far crescere, di educare, di trasmettere motivi validi per sostenere il cammino della vita in coloro con cui si è in relazione.
"Tempi difficili": lo scatenamento dell'empietà. E l'Evangelo è operante in questo contesto. Non c'è da scandalizzarsi se le cose stanno così, anzi, bisogna essere pronti ad affrontarle perché inevitabilmente fenomeni del genere si manifesteranno.
Nel travaglio delle persecuzioni: la libertà
Vv. 10-11: "Tu invece (Paolo si rivolge direttamente al suo discepolo e amico) mi hai seguito da vicino nell'insegnamento, nella condotta, nei propositi, nella fede, nella magnanimità, nell'amore del prossimo, nella pazienza, nelle persecuzioni, nelle sofferenze, come quelle che incontrai ad Antiochia, a Icònio e a Listri. Tu sai bene quali persecuzioni ho sofferto. Eppure il Signore mi ha liberato da tutte".
V. 12-13: "Del resto, tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati. Ma i malvagi e gli impostori andranno sempre di male in peggio, ingannatori e ingannati nello stesso tempo". Paolo richiama Timoteo all'esperienza di quella che è stata la sua sequela nei confronti di quel riferimento che ha assunto un ruolo così determinante per l'evoluzione della sua vita; il nostro apostolo tiene a ricordare a Timoteo come, essendo stato coinvolto nella sua sequela, ha imparato a vivere. I versetti che abbiamo appena letto illustrano, con diversi segnali, la relazione tra il maestro e il discepolo e apprendista alla maniera di una gestazione materna che è stata travagliatissima: «Ti ricordi di quanto è stata penosa, dolente, faticosa la gestazione che, peraltro, attraverso doglie di ogni genere, proprie di un grembo materno, ha condotto te a "nascere" nell'impatto con la Vita nuova». Timoteo è di Listri. Ricordate che all'inizio della lettera, nel cap. 1, v. 5, leggevamo: "Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te"; ricordate quel richiamo alla mamma e alla nonna di Timoteo e attraverso questa rievocazione di una vicenda familiare riusciamo a cogliere, senza fatica, il valore di quella travagliata vicenda che fu l'impegno di Paolo accanto a Timoteo, per Timoteo. "Tu sai bene quali persecuzioni ho sofferto. Eppure il Signore mi ha liberato da tutte". Nella morsa delle contrarietà, Paolo ha dimostrato di essere presente, solidale, di essere trasmettitore di vita: una fecondità che è tipica della vocazione cristiana e del servizio all'Evangelo che Paolo rievoca attraverso lo sbocco che, a suo tempo, fu decisivo nel senso di una liberazione che, appunto, è il modo per rievocare in termini pastorali, in rapporto a un cammino di iniziazione alla vita cristiana per chiunque (in questo caso per Timoteo), una dimensione che è propriamente materna, fino al travaglio del parto, fino alla liberazione: "è nato!". "... sai bene quali persecuzioni ho sofferto. Eppure il Signore mi ha liberato da tutte. Del resto, tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati": è normale; così vanno le cose nella vita cristiana che è feconda ("piamente") se vissuta nella "pietà"; una pazienza che accoglie e genera questa fecondità generativa che contiene nel grembo la presenza altrui; trasmette nutrimento, diventa energia vivificante: è un'interiorità materna: l'Evangelo funziona così. Contemporaneamente viene sbugiardata l'arroganza umana che, invece, è sterile e si autodistrugge, come ci ricorda il v. 13: "i malvagi e gli impostori andranno sempre di male in peggio, ingannatori e ingannati nello stesso tempo". "Ricordati, Timoteo, di come sono andate le cose, quando tu sei stato generato e l'Evangelo ti ha coinvolto alla maniera di un grembo materno che ti ha sostenuto, si è fatto carico di te, ti ha alimentato, generato, introdotto nella vita". Paolo ha vissuto tutto questo itinerario attraverso le vicissitudini proprie di chi si dedica all'evangelizzazione, a cui non si è minimamente sottratto e che, in un modo veramente misterioso ma qualificante, conferiscono a lui prerogative materne. E' sempre la missione della Chiesa attraverso il servizio dell'Evangelo che sviluppa, esplicita e testimonia la fecondità di un grembo materno.
Una pedagogia per la conversione
Vv. 14-17. Paolo riprende le considerazioni circa la corruzione della presenza maschile perché, se si dà il caso che in un mondo sconvolto non ci sia più maternità, in un mondo maschile corrotto non c'è più paternità, non c'è più responsabilità. "Tu però rimani saldo in quello che hai imparato ("Tu l'insegnamento lo hai ricevuto, sei stato alle prese con un interlocutore che si è presentato a te come maestro che si è reso responsabile della tua crescita") e di cui sei convinto, sapendo da chi l'hai appreso e che fin dall'infanzia conosci le sacre Scritture (ci sono stati maestri - tra questi, eminente, la figura di Paolo - che hanno assunto la responsabilità del loro ruolo. E' interessante questo richiamo alle Scritture perché tutto è passato attraverso il loro studio): queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia (c'è una pedagogia avvenuta attraverso le Scritture e la mediazione magistrale di coloro che accompagnano il cammino nella vita cristiana, la crescita e la maturazione di essa; è un contatto pedagogico sempre aperto in vista di una conversione che deve, opportunamente, qualificarsi. Paolo ha detto: "non dimenticarti che sei stato generato da un grembo materno e hai avuto a che fare con una pedagogia paterna; e, per Paolo, questo è il modo di affrontare i "tempi difficili"; ed è un modo per sbugiardare quella menzogna che vuole strumentalizzare anche la "pietà" per renderla nient'altro che una forma di esaltazione dell'egoismo umano. Che imbroglio, che contraddizione catastrofica!), perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona". L'uomo di Dio è il cristiano che nel discepolato acquista una responsabilità paterna verso il mondo. Paolo parla di questo uomo di Dio come di un operaio istruito per ogni opera buona; questo modo di stare al mondo operoso, questa responsabilità paterna verso il mondo sempre e comunque, anche al di là di quel rapporto primario che intercorre tra il genitore e il generato; l'uomo di Dio realizza la propria autentica vocazione al servizio dell'Evangelo; è completo, ben preparato per ogni opera buona nel senso, in questo caso, di quella presenza nel mondo che è attenta, sempre e comunque, a promuovere situazioni che siano favorevoli alla crescita di tutti e di ciascuno: crescita per la vita, naturalmente. E' una prospettiva completamente antitetica rispetto a quella dell'egoismo.
Nei versetti che leggeremo Timoteo è posto dinanzi a questa incancellabile memoria di come è stato evangelizzato lui: un grembo materno, una pedagogia paterna.
Solenne esortazione: ora tocca a te accogliere e annunciare l'Evangelo
Cap. 4, vv. 1-5. Paolo dice: "adesso tocca a te perché i tempi sono e saranno difficili; tocca a te affrontare quella tempesta in cui il negativo irrompe con tutta la sua spudorata prepotenza": il travaglio della maternità, la pazienza, il coraggio, l'umiltà della pedagogia che sempre e comunque si propone l'obiettivo della crescita altrui per la vita.
"Ti scongiuro (il richiamo qui si fa accorato) davanti a Dio e a Cristo Gesù (è commosso Paolo e d'altronde tutta la sua vita ormai è ricapitolata in questa estrema testimonianza; tutto si è svolto per lui in modo tale da esporlo alla presenza di Dio e di Cristo Gesù, in attesa della parusia e del Regno) che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno (una presa di posizione solenne, ma commovente più che mai per rivolgere a Timoteo quest'ultima raccomandazione): annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina". Sono cinque verbi all'imperativo, li prendiamo in blocco: si tratta per Timoteo di mettere in gioco la sua vita e a questo riguardo Paolo stesso si è presentato come esperto in questa esperienza della vita consegnata, esposta, gettata allo sbaraglio. Nel v. 2: "tocca a te consegnarti con tutto della tua vita, integralmente, sempre e dappertutto"; senza dimenticare l'opposizione a cui inevitabilmente anche Timoteo andrà incontro.
V. 3: "Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole". L'opposizione all'Evangelo si nasconderà sotto forme di erudizione che rifiutano l'ascolto nel senso di obbedienza, accoglienza, affidamento. L'Evangelo è la salute della vita "ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri": chissà quante parole, notizie, proclami secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto" alla verità che è l'Evangelo per volgersi alle favole. Man mano che Timoteo metterà in gioco la sua vita sarà sempre più in grado di rendersi conto di quel che Paolo gli sta dicendo. Sembra che di quanto sia grave, pesante, aspra, amara, perversa l'opposizione all'Evangelo ci si può render conto soltanto quando l'evangelizzazione diventa l'impegno totale di una vita; non ci si rende conto di quanto l'Evangelo sia osteggiato finché non lo si prende sul serio come la novità che dall'interno ha trasformato la propria vita. Opposizione che è presente in tante forme: nelle persone, nelle organizzazioni sociali, nelle istituzioni, nell'animo umano e non soltanto negli interlocutori con cui Timoteo avrà a che fare, ma riscontri inevitabili, riflessi, ripercussioni, forme di coinvolgimento nell'animo anche di Timoteo o di chiunque tra di noi. Un "prurito" che si sollazza con il ricorso alle favole, ai miti che poi è come dire che è proprio la volontà umana che cerca l'inganno, la soddisfazione di chiudersi dentro uno stato di sordità che non accoglie l'Evangelo; la volontà di essere ingannati. Di tutto questo Timoteo si renderà conto - glielo ricorda Paolo - man mano che si esporrà con tutto il suo vissuto. Questo modo di intendere le cose mi sembra importantissimo: non c'è un'opposizione e poi si trova il rimedio per superarla, ma è proprio nel momento stesso in cui si comincia a prendere sul serio l'Evangelo che le opposizioni appaiono e diventeranno sempre più incombenti. La scelta decisiva non è riparare all'opposizione; è scegliere, aderire, rispondere, ascoltare l'Evangelo, e in questo progressivo coinvolgimento con tutta la vita ecco una conflittualità quanto mai capillare, continua, assillante, ma... (v. 5): "Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero". Il paragrafo e la seconda parte della Lettera si concludono con queste quattro indicazioni; quattro direttrici di carattere metodologico per quanto riguarda l'impostazione della vita. Prima quei cinque verbi all'imperativo: "mettiti in gioco totalmente e vedrai che cosa succede"; adesso quattro piste, indicazioni di metodo, direttrici di movimento. "Tu però vigila attentamente" (in greco: in tutto): è una veglia a tutto campo sulle cose del mondo; la veglia come apertura al mondo "in tutto"; "sappi sopportare le sofferenze". Poco prima aveva chiesto a Timoteo: "ho bisogno che tu sia in com-passione con me, che tu mi com-patisca"; questa esperienza interiore del dolore e di un dolore che, proprio in quanto interiorizzato, diventa tramite di comunicazione, via di comunione, soglia d'ingresso, di penetrazione, di inserimento nella storia dell'umanità, nel groviglio delle vicende umane, nel mondo. All'evangelizzatore non è risparmiato niente. Terza direttrice: compi la tua opera di annunziatore del vangelo: qui c'è di mezzo la fatica operosa, quella fatica che consuma la vita. L'evangelizzatore si consuma, questa operosità non è considerata in rapporto agli effetti che produce, ma nel momento in cui consuma, esaurisce. Quarta direttrice: adempi il tuo ministero. E' un'indicazione strettamente legata alla precedente perché, mentre l'impegno per l'evangelizzazione consuma, esaurisce, macina, sbriciola, frantuma, quella fatica è condotta fino all'estremo svuotamento della vita; quella diaconia di servizio, o il ministero di cui si parla qui, riempie. Sembra un paradosso, una contraddizione che non potrebbe essere più vistosa: se svuota non riempie e viceversa, se esaurisce non porta a completamento e viceversa. Ed invece in quella diaconia la pienezza della vita; in quell'esaurirsi dell'evangelizzazione che si consuma dentro alla storia umana; in queste relazioni che si aprono senza più confini, la pienezza. E questa pienezza è la pienezza della Pasqua del Signore, è la pienezza di cui è portatore l'Evangelo che porta in sé la novità della Pasqua redentiva: la Parola che si è fatta carne e nella carne umana è passata attraverso la morte ed è vittoriosa nella gloria. E' evidente che l'evangelizzatore non esiste indipendentemente dalla Pasqua, né la Pasqua è il contenuto di un messaggio che può essere stampato in un libro o trasferito nei canti liturgici o nelle formule della catechesi corrente: la Pasqua è nella vita stessa dell'evangelizzatore: si consuma come una madre genera o un padre educa perché la vita degli uomini sia promossa e cresca fino alla pienezza di Cristo e della sua gloria.
Quanto a me, è giunto il tempo di sciogliere le vele
Vv. 6, 8. Una terza parte della Lettera dedicata da Paolo a presentare la sua situazione attuale: è il momento in cui si sta preparando a morire; non parla in teoria, sta parlando nelle misure proprie della sua carne che si consuma. "Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele". Due immagini: la libagione, una vita versata come libagione tra l'immolazione della vittima e la libagione; prevista nella liturgia sacrificale con un linguaggio adeguato a un contesto liturgico. La seconda immagine è quella delle vele spiegate: bella, bellissima immagine; una nave che affronta il mare aperto; quel che serve a lui per indicare la partenza come una fine che segna il distacco, ma, nello stesso tempo, questa partenza segna il principio nella prospettiva del vero viaggio. "Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede (sta parlando della sua morte: quello di cui parlava prima a Timoteo sta avvenendo a lui; il suo testamento). Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno (la corona è il premio al vincitore della gara; la gara è terminata ma la premiazione non è ancora avvenuta. La vittoria ormai è conseguita e non consiste per Paolo nell'aver compiuto l'evangelizzazione, ma nel fatto di trasmettere il testimone: l'evangelizzazione continua e per questo c'è di mezzo Timoteo. "Questo è il premio per me: che ci sei tu", c'è l'Evangelo che cresce); e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione". Si apre un orizzonte immenso perché è il Disegno definitivo, l'opera della salvezza che coinvolge l'umanità intera, quelli del passato e quelli del futuro e non è possibile stabilire date e misure o conteggiare le generazioni. La giustizia del Signore nel suo giorno: Paolo ha il presentimento della sua morte, ormai prossima, come atto di comunione universale: tutti coloro che attendono con amore la sua epifania. E' un'espressione molto sobria, ma potentissima perché include tutti quelli che aspettano di morire: è l'umanità intera, tutti gli uomini dove in questo essere in cammino verso la morte - che ci pensino o che se ne siano dimenticati, che siano pronti o ancora non si arrendano - Paolo scorge la partecipazione all'unico disegno dove tutto si ricapitola nell'epifania del Signore. Di queste cose non parla in teoria, ma ne parla attraverso il suo modo di andare incontro alla morte e nel suo morire c'è un atto d'amore totale che abbraccia tutti gli uomini che muoiono.
Ultime raccomandazioni
Vv. 9-18. "Cerca di venire presto da me": ultime raccomandazioni a Timoteo ed estremo lascito personale. Paolo ha bisogno del suo amico e non lo nasconde. Timoteo si trova ad Efeso, chissà se ce la farà ad arrivare a Roma, ma è interessante questa sollecitazione da parte di Paolo. Affrettati "perché Dema mi ha abbondonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me (ecco Luca). Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero. Ho inviato Tìchico a Efeso". La solitudine di Paolo è reale e Paolo non nasconde la pena; si rende conto di come sia drasticamente limitata la sua possibilità di impegno, di ministero, di servizio e chiede a Timoteo di darsi da fare. "Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene (interessante). Alessandro, il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere; guardatene anche tu, perché è stato un accanito avversario della nostra predicazione". C'è un servizio a cui Paolo non può più dedicarsi e quando parla della sua fatica, nel senso dell'evangelizzazione con tutte le espressioni collaterali a cui questo impegno darà forma, subito fa riferimento allo studio. Il mantello, un borsone: ha lasciato i libri, le pergamene e tutta una serie di altri scritti che fanno da commento alla sua vita. E' una specie di contatto fisico di cui Paolo ha bisogno, per come si possono palpeggiare le pagine, come profuma la stampa, per come è manipolabile un miserabile parallelepipedo di carta: è il suo libro, la sua Bibbia: "portami libri, soprattutto le pergamene"; sta in carcere, sta per morire...
Lo studio e contemporaneamente l'urgenza della disputa (c'è di mezzo il povero Alessandro, il ramaio, il quale chissà che cosa ha combinato) che ancora è necessaria per precisare meglio "il senso delle mie parole che sono state fraintese"; libri che diventano essi stessi commento delle parole: "portami libri".
V. 16: "Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro". Ricordate le parole di Gesù quando ormai è moribondo; sembra proprio che intervenga la mano di Luca che ha raccontato quel che avviene quando il Signore ormai è crocefisso (cap. 23 del Vangelo secondo Luca); il dialogo con i due malfattori che sono accanto a lui. "Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza (il Signore crocefisso è vicino. Questo momento segna per Paolo l'occasione più intensa, feconda, efficace di comunione con il Signore Gesù), perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili". Questa situazione attuale viene subito intesa da Paolo come l'occasione propizia per evangelizzare: è l'evangelizzazione che riguarda tutti i Gentili, tutti i pagani, il mondo, l'umanità. Sta per morire e non è la sconfitta dell'Evangelo, è il riempimento dell'Evangelo che si configura alla Pasqua redentiva del Signore attraverso la sua vita consegnata, consumata fino alla morte: "e così fui liberato dalla bocca del leone". E' una citazione del Salmo 22: "Dio, mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato" e, nel Salmo 22 il v. 23 "Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli"; c'è di mezzo anche un richiamo al famoso racconto di Daniele fra i leoni. E' il momento attuale di Paolo, il momento in cui si sta consumando ed è il momento il cui la forza dell'Evangelo passa attraverso di lui con questa testimonianza di fecondità universale; una liberazione che accompagna l'atto generativo che introduce la miseria umana nella pienezza della vita che non muore più. E' la nascita autentica e in questo modo è sconfitto il maligno: il leone è sconfitto. "Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno (ricordate che noi nel Padre nostro diciamo "liberaci dal male"; "venga il tuo regno": sta recitando il Padre Nostro); a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen".
Saluti e auguri conclusivi
Vv. 19, 22: "Saluta Prisca e Aquila e la famiglia di Onesìforo (stanno a Efeso. E' come se Paolo, ormai moribondo, ci tenesse a ricordare questi nomi, come spesso avviene al capezzale di un uomo che muore: sembra così possibile ricapitolare tante presenze, tanti fatti e tante persone, nome per nome: d'altronde è un intreccio di persone e di luoghi che dà alla memoria umana la forma di una geografia interiore; nomi che si intrecciano, si congiungono tra di loro, si dispongono lungo un elenco che non ha bisogno di rispettare la cronologia nè la logica degli eventi, ma tutto quel che serve a ricapitolare la totalità del vissuto che si consuma e che si riempie in un atto d'amore totale). "Saluta Prisca e Aquila e la famiglia di Onesìforo. Eràsto è rimasto a Corinto; Tròfimo l'ho lasciato ammalato a Milèto. Affrettati a venire prima dell'inverno (chissà se ce la facciamo a passare l'inverno). Ti salutano Eubùlo, Pudènte, Lino, Claudia e tutti i fratelli (questi stanno a Roma). Il Signore Gesù sia con il tuo spirito. La grazia sia con voi!". Manda a salutare quei tali a Efeso, manda i saluti di questi amici a Timoteo e in questo modo siamo salutati anche noi.