Profeti Minori:
Sesto incontro del ciclo 2010-2011
3 maggio 2011
Stasera prenderemo in considerazione il libro del profeta Gioele: sono quattro capitoli, ne leggeremo tre. Anche Gioele è un personaggio sconosciuto; è rimasta a noi la testimonianza della sua predicazione attraverso le pagine che leggeremo; probabilmente il nostro profeta ha svolto la sua missione nel corso del V secolo a. C. in un’epoca ormai successiva all’esilio e, dunque, la sua generazione ha alle spalle l’esperienza del grande disastro, della grande tribolazione. Ora si aggiunge una sciagura ulteriore che serve a rievocare tutte quelle affrontate nel passato remoto e recente: molto probabilmente si tratta di un’invasione di cavallette. Una calamità naturale, come diremmo noi oggi; questa, un’altra, divagazioni sul tema, situazioni gravi che compromettono la vita già precaria di gente che, alle prese con tutte le conseguenze di quella tragedia storica che fu l’esilio, è adesso esposta ad altre sofferenze, a nuovi motivi di disagio. Attraverso l’impatto con questa grave ragione di sofferenza, in quella particolare situazione storico-ambientale, è rievocata tutta la lunga sequenza di calamità cui il popolo di Dio è stato esposto: calamità di ordine oggettivo, morale, che hanno manifestato in maniera macroscopica la vicenda fallimentare di cui il popolo è stato protagonista e, d’altra parte, una vicenda nel corso della quale il popolo è stato costantemente messo dinanzi alla serietà, all’intensità, alla fecondità straordinaria degli impegni assunti nella relazione con il Signore: è il popolo dell’Alleanza.
La proposta di leggere il libro di Gioele sembra un po’ fuori tempo e fuori misura, perché probabilmente ricordate che la voce del profeta risuona proprio all’inizio della quaresima: la prima lettura del mercoledì delle Ceneri di ogni anno consiste in un brano del libro di Gioele. D’altra parte è vero che siamo alla seconda settimana di Pasqua, ma è anche vero che la quaresima è sempre attuale e davanti a noi sta la Pentecoste.
Cap. 1: un titolo, poi uno svolgimento che ci porterà fino al v. 20 definendo la prima sezione del libro con ulteriori suddivisioni.
“Parola del Signore, rivolta a Gioele figlio di Petuèl”. Di Gioele non sappiamo di più: chi fosse, quale fosse la sua identità civile e quali altri elementi concorrano a definirne la personalità. Il testo che leggeremo allude più volte a situazioni che riguardano la presenza e l’attività di coloro che sono addetti al culto, anche se con applicazioni piuttosto singolari proprio in relazione alla calamità in corso. Questo lascia intendere che Gioele è, comunque, un personaggio che ha a che fare con quegli ambienti caratterizzati da responsabilità specifiche in rapporto alla celebrazione del culto.
Lamento sulla desolazione in atto
Cap. 1, dal v. 2 al v. 12, un lamento che descrive la calamità in atto e riecheggia il dolore che coinvolge gli abitanti del paese e le loro diverse componenti. “Udite questo, anziani,
porgete l'orecchio, voi tutti abitanti della regione.
Accadde mai cosa simile ai giorni vostri
o ai giorni dei vostri padri?
Raccontatelo ai vostri figli
e i figli vostri ai loro figli
e i loro figli alla generazione seguente.
L'avanzo della cavalletta l'ha divorato la locusta,
l'avanzo della locusta l'ha divorato il bruco,
l'avanzo del bruco l'ha divorato il grillo”. Una serie di guai che si sono abbattuti, uno dopo l’altro, come ondate che vengono plasticamente descritte facendo riferimento all’invasione di locuste, bruchi, grilli; fenomeni che succedono in quei territori e qualche volta in maniera veramente devastante. Il fenomeno qui rievocato ha una sua oggettiva consistenza, è descritto in termini realistici e noi avvertiamo come l’episodio in corso sia l’occasione per rievocare una sequenza di flagelli che si sono abbattuti in forme diverse nel corso del tempo; e, d’altra parte, ogni volta è come se si giungesse ad un livello mai raggiunto precedentemente per quanto riguarda la gravità del disagio che la calamità in atto comporta. E’ come se ci fosse qualcosa di più, ogni volta, da sperimentare a riguardo del disastro in corso che supera tutte le vicissitudini sperimentate nel passato fino a diventare inenarrabile, fino a rendere impossibile l’oggettiva descrizione di quello che sta avvenendo perché le generazioni future abbiano percezione di quello che veramente è successo. “Accadde mai cosa simile ai giorni vostri
o ai giorni dei vostri padri?”. Gli antichi non hanno avuto mai modo di confrontarsi con una calamità così grave come l’attuale. E’ praticamente impossibile descrivere il disastro in corso a quelli che verranno; e così da una generazione all’altra; e così sotto gli scrosci di una tempesta che non lascia tregua; un flagello dopo l’altro.
Vv. 5-7. L’attenzione si concentra sulla calamità in atto: l’invasione delle cavallette. E’ un’aggressione che viene descritta come molto più dannosa di quella di un esercito invasore. E le cavallette per quanto siano animaletti minuscoli sono dotati di una ferocia micidiale. “Svegliatevi, ubriachi, e piangete,
voi tutti che bevete vino, urlate
per il vino nuovo che vi è tolto di bocca (è la volta buona che anche gli ubriachi si sveglieranno). Poiché è venuta contro il mio paese
una nazione potente (un esercito invasore? No, sono le cavallette), senza numero,
che ha denti di leone, mascelle di leonessa.
Ha fatto delle mie viti una desolazione (tutta la vegetazione è compromessa) e tronconi delle piante di fico;
li ha tutti scortecciati e abbandonati,
i loro rami appaiono bianchi”. Sono citate due piante che svolgono un ruolo essenziale per il benessere domestico: la vite e il fico. E’ proprio il benessere domestico, semplice e necessario com’è, che è stato compromesso.
V. 12: “Piangi…”. Il lamento si ripercuote nel contesto di questo territorio devastato in modo da coinvolgere tutti gli abitanti; e qui è direttamente interpellata la città, proprio essa, in quanto segno di pace e motivo di consolazione a cui tutti gli abitanti del territorio si rivolgono per essere confermati nel proprio cammino. Probabilmente Gioele vive nel V secolo a.C.; la città è Gerusalemme, appena ricostruita, che ha ritrovato il modo di presentarsi sulla scena pubblica perché dotata di una nuova cinta di mura; Gerusalemme, sacramento di pace, di consolazione e di benessere per il popolo. “Piangi, come una vergine che si è cinta di sacco
per il fidanzato della sua giovinezza (una vergine che è rimasta vedova prima ancora di andare in sposa). Sono scomparse offerta e libazione (la città è in lutto e la scomparsa del fidanzato, prima ancora di essere sposo, è visibilmente dimostrata dall’impossibilità di celebrare il culto nel tempio, perché è impossibile presentare un’offerta in una situazione di devastazione così completa come quella nella quale il popolo di Dio si trova di fronte alle cavallette che imperversano senza limiti) dalla casa del Signore;
fanno lutto i sacerdoti, ministri del Signore (restano senza gli strumenti di cui hanno bisogno per celebrare i riti sacrificali, le offerte per svolgere quelle liturgie che sono di loro competenza). Devastata è la campagna,
piange la terra,
perchè il grano è devastato,
è venuto a mancare il vino nuovo,
è esaurito il succo dell'olivo (adesso lo sguardo si sposta verso la campagna e gli abitanti che sono alle prese con i segni di un fallimento tragico del lavoro a cui si sono dedicati con tradizionale impegno). Affliggetevi, contadini,
alzate lamenti, vignaiuoli,
per il grano e per l'orzo,
perchè il raccolto dei campi è perduto.
La vite è seccata,
il fico inaridito,
il melograno, la palma, il melo,
tutti gli alberi dei campi sono secchi,
è inaridita la gioia tra i figli dell'uomo”. La terra è dolente; è un dolore gigantesco che si manifesta attraverso il linguaggio muto del territorio desolato, ma è un dolore penetrante che ha scavato piaghe sanguinanti nell’intimo degli animi laddove è inaridita la gioia tra i figli dell’Uomo. Non è inaridita soltanto la terra, ma è inaridita la gioia.
Primo svolgimento: il lamento che emerge e cresce d’intensità e coinvolge le voci mute dell’ambiente naturale, ma anche della città che esce dall’anonimato per piangere su se stessa e sulla propria vocazione fallita. Nel contesto di questo lamento la descrizione della calamità in corso.
Liturgia penitenziale
Dal v. 13 al v. 20 (siamo ancora all’interno della prima sezione) ci si prospetta un’azione liturgica; è ben comprensibile che, in una situazione del genere, si ricorra ad una liturgia penitenziale.
“Cingete il cilicio e piangete, o sacerdoti,
urlate, ministri dell'altare,
venite, vegliate vestiti di sacco,
ministri del mio Dio,
poichè priva d'offerta e libazione
è la casa del vostro Dio (i sacerdoti non possono offrire il culto sacrificale perché mancano gli strumenti necessari allo scopo; in questa situazione d’impossibilità ricevono l’incoraggiamento a celebrare un altro culto che si manifesta nelle forme degli atti penitenziali: il cilicio, il pianto, il digiuno). Proclamate un digiuno (i sacerdoti sono investiti di questa responsabilità liturgica che ha una sua originalità evidentissima rispetto alla liturgia sacrificale a cui sono normalmente dedicati; sono incaricati di convocare il popolo intero perchè tutti si impegnino nel digiuno: in una situazione calamitosa, catastrofica, alle prese con i fenomeni di devastazione che abbiamo intravisto, i sacerdoti devono dedicarsi agli atti penitenziali per essere modelli che trascinano il popolo intero nell’esercizio delle medesime forme penitenziali). Proclamate un digiuno,
convocate un'assemblea,
adunate gli anziani
e tutti gli abitanti della regione
nella casa del Signore vostro Dio,
e gridate al Signore:
Ahimè, quel giorno (io tradurrei “questo giorno”)!
E' infatti vicino il giorno del Signore
e viene come uno sterminio dall'Onnipotente”. E’ un giorno a cui non ci si può sottrarre e non si può evitare di venire alle prese con “questo giorno” e “questo giorno” è il giorno del Signore. E’ il giorno della calamità? E’ il giorno del Signore. Laddove questo giorno si presenta come scadenza drammatica che segna per noi l’esperienza di una privazione così totale, questa stessa privazione viene trasformata in atto di volontaria celebrazione penitenziale.
“Non è forse scomparso il cibo
davanti ai nostri occhi
e la letizia e la gioia
dalla casa del nostro Dio?”. Ora non ci resta che digiunare, in una situazione, peraltro, nella quale il digiuno è una necessità di fatto perché non c’è più niente da mangiare. “Sono marciti i semi
sotto le loro zolle,
i granai sono vuoti,
distrutti i magazzini,
perchè è venuto a mancare il grano.
Come geme il bestiame!
Vanno errando le mandrie dei buoi,
perchè non hanno più pascoli;
anche i greggi di pecore vanno in rovina”. Notate il riferimento al giorno del Signore nel v. 15, su cui necessariamente ritorneremo. Dove il giorno del Signore si presenta in maniera così angosciante e micidiale non si può assumere altro atteggiamento che quello della penitenza nelle forme tipiche del cilicio, del pianto, del digiuno: questo è il culto penitenziale al quale sacerdoti e il popolo dovranno dedicarsi per ottenere una risposta favorevole da parte del Signore.
V. 19: “A te, Signore, io grido (questo è il culto penitenziale a cui Tu darai una risposta) perchè il fuoco ha divorato
i pascoli della steppa
e la vampa ha bruciato
tutti gli alberi della campagna.
Anche le bestie della terra
sospirano a te,
perchè sono secchi i corsi d'acqua
e il fuoco ha divorato i pascoli della steppa”. All’invasione delle cavallette si aggiunge anche la siccità e rimane questo pianto dirotto; ma anche le lacrime sono, per così dire, inaridite, si sono irrigidite, impietrite. A questa celebrazione penitenziale che a Te è offerta (l’unica offerta praticabile), Tu risponderai. Soltanto che non c’è risposta.
Il flagello continua
Nel cap. 2, seconda sezione del libro, la descrizione del flagello in atto che evidentemente non è stato eliminato, superato o ridotto.
Vv. 1 e 2: “Suonate la tromba in Sion
e date l'allarme sul mio santo monte!
Tremino tutti gli abitanti della regione
perchè viene il giorno del Signore,
perchè è vicino,
giorno di tenebra e di caligine,
giorno di nube e di oscurità.
Come l'aurora, si spande sui monti
un popolo grande e forte;
come questo non ce n'è stato mai
e non ce ne sarà dopo,
per gli anni futuri di età in età”. Altro che soluzione del problema o superamento del dramma! L’allarme si fa sempre più insistente, la tromba risuona nella città e poi tutto il territorio circostante è interessato da questa esperienza di un tremore inguaribile. “Tremino tutti gli abitanti della regione
perchè viene il giorno del Signore…”. Siamo di nuovo alle prese con l’invasione delle cavallette, ma tutto è sempre più chiaramente ricondotto a quel criterio interpretativo del momento attuale che si sintetizza nell’avvento del Giorno del Signore: è questo giorno, è il giorno della calamità, viene Lui. Questo è il criterio interpretativo del flagello in corso e, d’altra parte, è il criterio interpretativo di quei flagelli che si sono succeduti nel corso di tante e tante generazioni. E’ il Signore che viene, è venuto. Il fenomeno attuale è l’occasione per rievocare tutto quello che è successo e per rivivere l’esperienza di quella venuta di cui è stato protagonista il Signore che si è presentato a noi là dove ci siamo trovati coinvolti in eventi disastrosi. “… giorno di tenebra e di caligine,
giorno di nube e di oscurità”. Ma ora sorge l’aurora di un giorno grigio nel quale la luce non splende come dovrebbe; è un’alba livida quella che consente adesso di osservare la scena e constatare che il territorio è occupato dall’esercito invasore, la moltitudine sterminata di cavallette. “Come l'aurora, si spande sui monti… (man mano che il primo baluginio di luce consente di gettare uno sguardo sulla scena circostante) un popolo grande e forte”. In questo caso non è un esercito invasore come è capitato in passato, al tempo degli Assiri, dei Babilonesi; qui è una calamità naturale e questo “popolo grande e forte” è dotato di caratteristiche negative, distruttive da superare tutti i livelli delle calamità sperimentate nel passato. Sono paragoni che nessuno può ridurre a una graduatoria misurabile in maniera oggettiva, ma una volta che ci si trova dentro a una situazione del genere è sempre vero che si è naturalmente condotti a pensare che la calamità in corso sia peggiore di tutte quelle già patite; e diventa l’occasione per rievocare tutte le altre sventure già sperimentate.
Il giardino è diventato deserto
Vv. 3-5: “Davanti a lui (a loro: tre strofe che iniziano così. E’ un’avanzata travolgente; è l’avanzata di quell’esercito che è composto da questi minuscoli animaletti dotati di una capacità distruttiva incontenibile) un fuoco divora
e dietro a lui brucia una fiamma.
Come il giardino dell'Eden è la terra davanti a lui
e dietro a lui è un deserto desolato (passata l’orda, dov’era il giardino dell’Eden, adesso è un deserto desolato), non resta alcun avanzo.
Il loro aspetto è aspetto di cavalli,
come destrieri essi corrono (sono cavallette).
Come fragore di carri (è il rumore di milioni di ali di cavallette)
che balzano sulla cima dei monti,
come crepitìo di fiamma avvampante
che brucia la stoppia, come un popolo forte
schierato a battaglia”.
L’efficienza delle cavallette
Seconda strofa, vv. 6-9: “Davanti a loro tremano i popoli (l’umanità intera è paralizzata), tutti i volti impallidiscono (quelli che osservano la scena e si rendono conto di quello che sta succedendo e sperimentano l’impotenza di contenere questo fenomeno e la sua irruenza devastatrice impallidiscono. Tutti i volti esprimono sgomento inconsolabile). Corrono come prodi (le cavallette: è la descrizione di un esercito dove l’ordine è meticoloso, i movimenti precisi, studiati in base a una strategia lucidissima; si muovono con una fantasia inesauribile e, d’altra parte, con una coerenza inflessibile, una sequenza di ricami senza nodi, senza cedimenti, senza arretramenti), come guerrieri che scalano le mura;
ognuno procede per la strada,
nessuno smarrisce la via (sanno benissimo dove devono arrivare, non si perdono, non sbagliano l’obiettivo. Gli obiettivi li sbagliano i bombardieri, non le cavallette). L'uno non incalza l'altro (non c’è fuoco amico)
ognuno va per il suo sentiero.
Si gettano fra i dardi, ma non rompono le file.
Piombano sulla città, si precipitano sulle mura,
salgono sulle case, entrano dalle finestre come ladri (piombano dappertutto, ce li hai in casa. Siamo accerchiati e stritolati).
Grande è il giorno del Signore…; ma che giorno è?
Terza strofa, vv. 10-11: “Davanti a loro la terra trema,
il cielo si scuote,
il sole, la luna si oscurano
e le stelle cessano di brillare (è un fenomeno che coinvolge tutto uno squilibrio dell’universo: il sole è oscurato da un nugolo di cavallette che ne ottenebra la luminosità; e poi di notte le stelle cessano di brillare, la luna è appannata; c’è un accenno anche a un terremoto; sono fenomeni naturali diversi, ma che possono richiamarsi e sovrapporsi uno all’altro).
Il Signore fa udire il tuono dinanzi alla sua schiera (qui è il Signore, è il giorno suo, è Lui che viene), perchè molto grande è il suo esercito,
perchè potente è l'esecutore della sua parola,
perchè grande è il giorno del Signore
e molto terribile: chi potrà sostenerlo?”. Sembra di essere alle prese con una vicenda che ci riporta ai giorni dell’antico racconto della creazione, fino a quel “sabato” nel quale il Signore Dio si compiace della sua creazione. Ritorniamo indietro per trovarci coinvolti in un’impresa, di cui è protagonista il Signore, che sembra avere come obiettivo non la costruzione, ma il disfacimento, non la stabilità dell’universo ma la dissoluzione di esso. E’ come se questo giorno del Signore fosse estraneo ai sette giorni che fino al sabato hanno strutturato l’operosità creativa del Dio vivente. E il nostro giorno che giorno è? Che cosa il Signore sta realizzando in questo giorno Suo che noi sperimentiamo come il giorno del disastro. Chi potrà sostenerlo?
Invito alla conversione del cuore
Vv. 12-18: in questa seconda sezione, dopo che è stata nuovamente descritta la scena, è il Signore che prende la parola, è proprio Lui che interviene. Ricordate che precedentemente i sacerdoti erano stati incoraggiati a mantenere la qualità liturgica in un contesto nel quale non è possibile offrire i sacrifici secondo le regole solite; ed ecco l’offerta degli atti penitenziali. Qui – e questa è la lettura che apre la quaresima, la prima lettura del mercoledì delle Ceneri – è proprio il Signore che si rivolge al suo popolo per invitarli non a compiere atti penitenziali, ma a intraprendere il cammino della conversione che coinvolge il cuore; conversione che mette a disposizione il cuore umano coinvolto in profondità e totalmente; sono rimessi in discussione gli atteggiamenti interiori, le intenzioni, le motivazioni in base alle quali è impostata e gestita l’esistenza quotidiana. “«Or dunque - parola del Signore -
ritornate a me con tutto il cuore (così si apre la quaresima ogni anno),
con digiuni, con pianti e lamenti» (tutto questo è secondario).
Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore vostro Dio,
perchè egli è misericordioso e benigno,
tardo all'ira e ricco di benevolenza
e si impietosisce riguardo alla sventura (questo itinerario di conversione che coinvolge l’atteggiamento interiore profondo del cuore umano è reso possibile dal fatto che il Signore si manifesta a noi così come Egli è; proprio perché Egli è misericordioso e benigno è praticabile un itinerario di conversione. La prospettiva è completamente ribaltata rispetto al progetto iniziale. Proprio perché Dio, Signore nostro è misericordioso e benigno,
tardo all'ira e ricco di benevolenza
e si impietosisce riguardo alla sventura, si delinea dinanzi a noi quel cammino di conversione nel corso del quale saremo in grado di presentarci, porgerci, consegnarci, offrirci con tutta la pena, il carico penoso che ci affligge il cuore). Laceratevi il cuore e non le vesti.
E il v. 14 aggiunge: “Chi sa che non cambi e si plachi
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libazione per il Signore vostro Dio”. E’ interessante questa espressione che torna anche altrove: “chissà che Dio non cambi (alla lettera sarebbe da tradurre “chissà che Dio non si converta”) come se la conversione fosse un’impresa riservata a Lui e il pentimento una Sua prerogativa. E’ un linguaggio un po’ grezzo, ma efficacissimo per indicare che il riferimento decisivo sta nella misteriosa novità di Dio che è diverso da come noi ce lo siamo immaginato. Chissà…; e questo “chissà” è il modo di porre quell’interrogativo che è la fondamentale domanda religiosa. Chissà che Dio non sia diverso da come noi lo abbiamo pensato, desiderato, atteso, voluto, descritto, raccontato; vezzeggiato, coccolato per certi versi, per altri temuto, allontanato, rimosso… E se Dio fosse veramente Dio a modo suo?
Il pianto dell’uomo apre alla comunione con Dio
Nel v. 15 una convocazione liturgica; già precedentemente abbiamo avuto a che fare con una convocazione mirata a coinvolgere tutto il popolo nell’attuazione di atti penitenziali; qui la convocazione liturgica riguarda esattamente questa prospettiva così originale, nuova, gratuita che si sta delineando laddove l’iniziativa del Dio vivente ci viene incontro nell’inesauribile fecondità della sua misericordia. E noi siamo interpellati in modo tale da mettere in gioco la nostra realtà interiore profonda, là dove siamo colpiti, afflitti, piagati, appesantiti da miserie e dolori: nell’intimo del cuore; là, dove tutte le vicissitudini aspre, maligne, negative della nostra vita si sono depositate come piaghe che sanguinano nel fondo del cuore nostro, è la presenza misericordiosa del Signore che fa della miseria patita il contenuto dell’offerta che ci introduce nell’intimità del Suo Mistero. “Suonate la tromba in Sion,
proclamate un digiuno,
convocate un'adunanza solenne.
Radunate il popolo, indite un'assemblea,
chiamate i vecchi,
riunite i fanciulli, i bambini lattanti;
esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
Tra il vestibolo e l'altare piangano
i sacerdoti (nel cortile che è riservato alla loro presenza e attività e laddove i sacerdoti non hanno altro ministero da celebrare se non il pianto; stanno offrendo il culto del pianto; ma è un pianto che non ha più alcuna pretesa, è un pianto che non rivendica, che non esige, che non è presentato al Signore nel contesto di un’attività di culto che esige l’intervento corrispondente da parte del Signore; è un pianto purissimo, è il pianto della miseria, della sconfitta, di coloro che raccolgono le conseguenze di un fallimento. Anche il caso delle cavallette non è più così rilevante; è proprio l’eco di una storia intera passata attraverso le tante sconfitte, generazioni su generazioni, fallimenti, inadempienze, ritardi, tradimenti di ogni genere; tutto un lungo percorso storico segnato da innumerevoli tracolli, slittamenti. Attraverso questa storia che ci scarica addosso le conseguenze di una specie di marea soverchiante di dolori e di miserie, di negatività, i sacerdoti, ministri del Signore, attraverso questo pianto, sono in grado di presentare l’offerta che trova accoglienza al cospetto di Dio) e dicano: «Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al vituperio
e alla derisione delle genti».
Perchè si dovrebbe dire fra i popoli:
«Dov'è il loro Dio?».
Il Signore si mostri geloso per la sua terra
e si muova a compassione del suo popolo (questo versetto va congiunto con i precedenti)”. Non c’è altra offerta presentabile al Signore se non quella che è irrorata dalle lacrime. Tutto quello che nella storia del popolo di Dio è l’evidenza di fallimenti che si sono sovrapposti, incrostati uno sull’altro nella realtà visibile per quanto riguarda quella corruzione interiore – massimo delitto che affligge il popolo di Dio – nell’intimo dei cuori; negatività disgustose che non sono rievocabili con altro linguaggio che sia quello del pianto. Ecco, questo pianto è contenuto, accolto, abbracciato nelle viscere del Dio vivente: “Il Signore si mostri geloso per la sua terra
e si muova a compassione del suo popolo”. Questo pianto che raccoglie tutto il complesso delle negatività che si sono accumulate nel corso di una lunga storia (che è la storia di un popolo, ma anche dell’umanità; è la storia di ieri, dell’altro ieri, di sempre, di oggi) è la valida modalità di accesso al grembo del Dio vivente, là dove le viscere della misericordia del Signore sono spalancate dall’inizio e da sempre. Ecco dov’è il nostro Dio; ecco chi è il nostro Dio. Laddove tutto quello che abbiamo sperimentato come motivo di disastroso fallimento è diventato, diventa in maniera sempre più grandiosa e affascinante, rivelazione di Lui e della Sua presenza, della eterna, inesauribile fedeltà dell’amore Suo che è eterno e che è il motivo per cui dall’inizio noi gli apparteniamo.
La risposta del Signore
Dal v. 19 l’oracolo del Signore, che risponde ora quando il pianto dirotto viene versato come unico atto di culto possibile e viene raccolto nelle viscere del Dio vivente: “Il Signore ha risposto al suo popolo:
«Ecco, io vi mando il grano, il vino nuovo e l'olio
e ne avrete a sazietà;
non farò più di voi il ludibrio delle genti.
Allontanerò da voi quello che viene dal settentrione (da settentrione viene l’esercito invasore; venivano gli Assiri, poi i Babilonesi, venne Nabucodonosor; da settentrione anche le cavallette. L’episodio contemporaneo è ormai soltanto l’occasione propizia per ritrovare il senso di tutto uno svolgimento storico) e lo spingerò verso una terra arida e desolata:
spingerò la sua avanguardia verso il mare d'oriente (mar Morto)
e la sua retroguardia verso il mare occidentale (mar Mediterraneo).
Esalerà il suo lezzo, salirà il suo fetore,
perchè ha fatto molto male.
Non temere, terra,
ma rallegrati e gioisci,
poichè cose grandi ha fatto il Signore.
Non temete, animali della campagna,
perchè i pascoli del deserto hanno germogliato,
perchè gli alberi producono i frutti,
la vite e il fico danno il loro vigore”. E’ la terra intera che ritrova sollievo; la vegetazione e gli animali e poi “voi”: “Voi, figli di Sion, rallegratevi,
gioite nel Signore vostro Dio,
perchè vi dà la pioggia in giusta misura,
per voi fa scendere l'acqua,
la pioggia d'autunno e di primavera, come in passato.
Le aie si riempiranno di grano
e i tini traboccheranno di mosto e d'olio.
«Vi compenserò delle annate
che hanno divorate la locusta e il bruco,
il grillo e le cavallette,
quel grande esercito
che ho mandato contro di voi (il disastro che vi ha afflitto in maniera così dolorosa e tragica non passa inosservato: il Signore si ricorda, è attento, presente, è rivolto a questa generazione ed è Lui che sta orientando questa storia, che porta in sé un’inondazione di lacrime, in una storia di conversione impregnata della gioia purissima che l’incontro con la gratuita misericordia di Dio suscita nel cuore umano). Mangerete in abbondanza, a sazietà,
e loderete il nome del Signore vostro Dio,
che in mezzo a voi ha fatto meraviglie.
Voi riconoscerete che io sono in mezzo ad Israele,
e che sono io il Signore vostro Dio,
e non ce ne sono altri:
mai più vergogna per il mio popolo”. L’oracolo del Signore: voi ed io in mezzo a voi; Io, il Signore vostro Dio (v. 27). Abbiamo letto nel cap. 2 il brano che ci introduce ogni anno in quaresima, il mercoledì delle Ceneri, e ci rendiamo conto del fatto che questo testo è proprio adatto in maniera evidentissima, per entrare in un itinerario penitenziale autentico e corrispondente al dono d’amore che sempre ci precede, che sempre più grande ci attende là dove la nostra realtà umana finalmente si arrende consegnando le conseguenze delle proprie responsabilità tradite. Nel brano evangelico di domenica scorsa il Signore risorto che si presenta ai discepoli mostra le piaghe; otto giorni dopo di nuovo le piaghe. E’ sempre così là dove, per l’appunto, il pianto, che è l’unica esperienza possibile nella negatività che ci inquina mortalmente, trova il luogo dell’accoglienza che diventa il luogo che genera, rigenera, converte; le piaghe aperte del Signore, il cuore Suo, il grembo della misericordia di Dio.
L’effusione dello Spirito
Cap. 3: “Dopo questo,
io effonderò il mio spirito”. E’ un testo famosissimo, citato alla lettera nel primo discorso di Pietro a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste (At. cap. 2). Pietro spiega: “non siamo ubriachi, quello che succede è quanto corrisponde al cap. 3 del libro di Gioele”. Questo testo è citato anche altrove, tra l’altro nella veglia di Pentecoste. Questo annuncio si apre con un’espressione che è tradotta con “dopo questo”: quel “dopo” non è soltanto un dopo temporale, è un “dopo” nel senso di una realtà che è interna, soggiacente, sottostante, ma che è anche determinante e qualificante. E’ un “dopo” che è anche un “dentro”. Dentro a tutto questo disastro succede che lo Spirito è effuso; ed è effuso non come uno svolazzo celestiale o qualche fulmine a ciel sereno, ma è effuso “dentro” questa storia carica di tutte le conseguenze inquinate di cui è responsabile l’iniquità umana. Tutte le conseguenze inquinate che poi vengono rivissute, reinterpretate con angoscia e sgomento quando ci si trova alle prese con le calamità naturali; tutte le negatività comunque presenti nell’esperienza umana non sono mai abbandonate a se stesse; non c’è nulla di negativo che affligga, che sconvolga, che stia lì a rappresentare lo strazio di una creazione prigioniera di una logica assurda che solo un Dio sconosciuto e, a suo modo, perverso può giustificare. Questo mondo che è il luogo in cui gli orrori più infami si succedono in modo che solo Dio ne è responsabile in una incomprensibile per noi severità o prepotenza o violenza…, “dentro” questo “io effonderò il mio spirito
sopra ogni uomo
e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie;
i vostri anziani faranno sogni,
i vostri giovani avranno visioni.
Anche sopra gli schiavi e sulle schiave,
in quei giorni, effonderò il mio spirito”. E’ superata ogni discriminazione di età, di categoria, di sesso; la partecipazione è universale, ecumenica; è l’umanità in quanto tale che è invasa, attraversata, impregnata da questa effusione dello Spirito di Dio, Spirito creatore; Spirito che raggiunge i luoghi più segreti, impervi, oscuri, inquinati del cuore umano e fa di quel pianto inconsolabile il dolce linguaggio dell’incontro nella gratuità dell’amore. I vostri figli diventeranno profeti, poi sogneranno sogni, poi vedranno visioni: tre modalità complementari che servono a descrivere la relazione di intesa, di solidarietà, di vicinanza, di comunione a cui l’umanità è condotta nel rapporto con il Dio vivente, là dove il pianto inconsolabile diventa linguaggio dolcissimo che porta in sé l’esperienza di un incontro di vita, di una comunione d’amore.
“Farò prodigi nel cielo e sulla terra,
sangue e fuoco e colonne di fumo.
Il sole si cambierà in tenebre
e la luna in sangue,
prima che venga il giorno del Signore,
grande e terribile”. Che cosa sta dicendo qui Gioele? Questi segni premonitori del Giorno sono segni che ricapitolano tutto quello che di negativo possiamo sperimentare o anche soltanto immaginare: il sole ottenebrato, la luna insanguinata non sono segni spettacolari tanto per incantare un po’ la fantasia: è il linguaggio plastico, il linguaggio delle immagini che serve a raffigurare ogni possibile e reale negatività. Ma è così che viene il giorno del Signore. Il giorno del Signore non viene come un fulmine senza riferimenti al dramma in corso sulla terra: viene proprio attraverso questo dramma, scandagliando il fondo dell’abisso, quella pioggia che inzuppa l’impasto di cui è fatta tutta la creazione, fino a quegli spazi nascosti nell’abisso del cuore umano; laddove la realtà è proprio sbugiardata, condotta a un’evidenza epifanica per quanto riguarda tutti gli elementi negativi che la inquinano; così viene il “Giorno del Signore
grande e terribile.
Chiunque invocherà il nome del Signore
sarà salvato,
poichè sul monte Sion e in Gerusalemme
vi sarà la salvezza, come ha detto il Signore,
anche per i superstiti che il Signore avrà chiamati”.
Gerusalemme qui diventa un punto di riferimento di valore sacramentale; insieme con Gerusalemme l’invocazione del nome; ed è la storia umana che, travolta nel continuo succedersi di orrori, disastri, calamità, si svolge come infallibile appuntamento con il giorno del Signore, quel giorno di cui è protagonista la fedeltà inesauribile della sua misericordia. E’ un appuntamento con Lui, che consente di interpellarlo con il Suo nome, di entrare, inserirsi, immergersi, consumarsi nella relazione con Lui, là dove tutto quell’abisso di iniquità che la storia umana accumula in se stessa va a depositarsi nel cuore del Signore. Noi lo chiamiamo per nome, è Gesù, nostro Signore e nostro Dio, come dice Tommaso nel brano evangelico di domenica scorsa: “mio Signore e mio Dio”.