Incontri di discernimento e solidarietà
 
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Isaia: una luce nel presente travaglio del mondo



Terzo incontro del ciclo 2005-2006

Martedì 7 febbraio 2006



Il servo del Signore


La volta scorsa siamo giunti alla fine del cap. 48, concludendo la prima sezione (capp. 40-48) del “Libro della Consolazione di Israele” (capp. 40-55). Ho già spiegato che mentre nella prima sezione l’attenzione è rivolta a Babilonia – luogo dell’esilio, “crogiolo dell’afflizione” ma, al tempo stesso, della conversione e della redenzione – la seconda sezione (capp 49-55) è segnata da un orientamento sempre più insistente e appassionato verso Gerusalemme. Quindi: prima parte, “uscite da Babilonia”; seconda parte, “Gerusalemme è ricostruita”.

Dovremmo ripartire senz’altro dal cap. 49, tuttavia questa sera vorrei richiamare la vostra attenzione su un personaggio che - nell’ambito della predicazione del nostro anonimo profeta, consolatore per antonomasia nella storia della salvezza – svolge un ruolo determinante, anche se si tratta di un personaggio parimenti anonimo. E’ identificato con un titolo prestigioso: “il servo del Signore” che, proprio nelle pagine che stiamo leggendo, è stato più volte utilizzato e riferito al popolo di Dio. E’ un’espressione che qualifica il soggetto che se ne può fregiare, perché la dignità del servo è determinata dalla figura autorevole alla quale quel servo fa riferimento. Il servo “del Signore” riceve, quindi, dal titolo una nota che è massimamente qualificante. Resta vero che il servo è, comunque, figura gregaria, di supporto, di collaborazione che è esposta a tutti i rischi e agli inconvenienti connessi alla sua funzione. Tuttavia è il servo “del Signore” che, come accennavo, è il titolo a più riprese attribuito al popolo nella sua interezza, ma anche - nella tradizione biblica – a personaggi particolari che vengono così identificati, come Mosé o alcuni profeti, ma non solo: anche personaggi estranei al popolo dell’Alleanza, come Nabucodònosor (nel libro di Geremia) e Ciro il persiano ( nel libro che stiamo leggendo) sono qualificati con questo titolo o in modo altrettanto prestigioso. La spiegazione di ciò risiede nel fatto di cui ci siamo resi sempre più conto: la realtà, così minuscola e nascosta, di quel popolo oppresso in condizione di esilio diventa chiave interpretativa della storia universale.

Abbiam visto che anche Ciro è inserito nell’unico disegno con un ruolo carismatico. Fatto sta che nel “libro della Consolazione” compare un personaggio che, sebbene inseparabile dalla realtà comunitaria del popolo, è dotato di una sua fisionomia specifica, personale, inconfondibile, unica, irripetibile; e questo misterioso personaggio anonimo – che per certi versi ci incuriosisce, per altri ci sconcerta – è identificato, appunto, come “il servo del Signore” per definizione, figura che acquisterà competenze messianiche e di cui si riparlerà nella storia della salvezza, sino al Nuovo Testamento.

Noi, questa sera, leggeremo quattro testi che contengono i cosiddetti “quattro canti del Servo del Signore”, nei quali la figura di quel personaggio, così misterioso e affascinante, viene delineata ed emerge in tutta la sua originalità. Scopriremo, così, il ruolo determinante, insostituibile, che proprio questo personaggio svolge all’interno della storia della salvezza ma anche nel contesto della grande storia umana, e in quella vicenda che abbiamo già decifrato nei suoi contenuti essenziali: grande cammino nella conversione per coloro che, da Babilonia, si orientano verso Gerusalemme, attraverso l’esperienza delle parole di Dio che interpella i derelitti, dovunque siano sprofondati e in qualunque abisso siano schiacciati, e che suscita nel cuore umano la novità della consolazione. Ebbene, in quel contesto, un ruolo determinante per la compiuta realizzazione del disegno è quello di cui è protagonista il “servo del Signore”.

Il progetto si svolge in modo tale da attuare quel messaggio che noi abbiamo recepito e contemplato: si è spalancato dinanzi a noi lo scenario di una nuova creazione e il perno di questa vicenda coincide con la presenza e con l’esercizio di una responsabilità operosa da parte di un anonimo “servo del Signore”.

Quattro canti: sono testi famosissimi, che vengono valorizzati con particolare sapienza teologica soprattutto – ma non solo – nel corso della Settimana Santa, là dove svolgono una funzione didattica che arricchisce l’itinerario dell’edificazione del popolo cristiano. Per il primo, dobbiamo fare un salto indietro al capitolo 42, vv 1-4, tornando alla prima parte del libro della Consolazione; gli altri tre sono, invece, tutti collocati nella seconda parte (capp. 49,1-6; 50,4-9; 52,13 - 53,12).



Primo canto: dolcissimo nella forza, travolgente nella mitezza


Cap. 42, vv.1-4: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio …”. E’ il Signore che si esprime così, che ci parla e ci descrive il “suo servo”! Eccolo: è il servo di cui mi delizio, che corrisponde alle mie intenzioni; io lo sostengo e, adesso, ve lo descrivo. “…Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni …”. Si tratta, quindi, di un personaggio dotato di una singolare competenza carismatica (“il mio spirito è su di lui”), e proprio in forza di questa sua ricchezza pneumatica è depositario di una missione di portata universale (“porterà il diritto alle nazioni”: il suo compito non è ristretto al popolo dell’Alleanza, ma è di valore ecumenico. I versetti che seguono ribadiranno questa prospettiva universale della missione del servo del Signore). “…Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta …”

( questo è il suo modo di comportarsi; gli atteggiamenti interiori che lo determinano sono la mansuetudine, la discrezione, l’umiltà; nel sostenere tutte le situazioni di debolezza lo farà con soavità e delicatezza; ma non basta …) “… Proclamerà il diritto con fermezza; non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra (per la terza volta ricorre il termine “diritto”); e per la sua dottrina saranno in attesa le isole ( un ulteriore accenno alla scena del mondo in tutta la sua ampiezza : dire le “isole” è come dire “l’oltremare”, ma è come dire “il mondo intero”, che è in attesa di quello che il servo del Signore ha da dire e che testimonia con il suo modo di essere e di fare ).

Osservate, a questo riguardo, come alla nota di mansuetudine si aggiunga qui – tra il v. 3 e il v. 4 – una nota di singolare fermezza; una figura caratterizzata da un’irriducibile tenacia e un’energia incrollabile: non ci sarà opposizione in grado di trattenerlo, né ostacolo che possa essere di impedimento per lui; si muoverà in modo da realizzare risolutamente, fedelmente, puntualmente, rigorosamente la missione a lui affidata. Questa connotazione di solidità tenacissima potrebbe apparirci in contraddizione con la nota di delicatezza mansueta che abbiamo prima riscontrato. In realtà, proprio in ciò risiede l’originalità del nostro personaggio: il servo del Signore è mansueto e risoluto; e non “un po’ mansueto” e “un po’ risoluto”, ma è delicatissimo nell’essere energico, così come è potentissimo nell’essere mansueto. E’ il servo del Signore. Tutta la ricchezza carismatica – ha detto il Signore di lui – gli compete: svolgerà una missione di rilevanza universale; si presenterà e si comporterà conformemente alle indicazioni che adesso ci vengono fornite, mediante le quali lo riconosceremo, al momento opportuno, senza possibilità di sbagliarci. E’ dolcissimo nella forza ed è travolgente nella mitezza.



Secondo canto: intimo del Signore e luce delle genti


Cap. 49, vv 1-6. Il secondo canto si collega direttamente con il primo, che - abbiamo appena visto - finisce con il riferimento alle “isole” che si dispongono a ricevere la dottrina e il messaggio del servo del Signore. Adesso è lui a prendere la parola; è lui stesso che si fa avanti, che entra in scena e si manifesta a noi nel momento in cui sta ormai svolgendo la sua missione: “Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane (ancora una volta lo scenario è ecumenico); il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome…”. Il servo del Signore è radicato nell’ascolto della parola di Dio che sin dalle viscere materne lo ha identificato. Un’espressione del genere compare nel libro di Geremia (Ger. 1,v.5), là dove il profeta parla di sé e della sua vocazione. Qui il nostro anonimo profeta ci parla dell’anonimo “servo del Signore” rifacendosi alla tradizione di Geremia profeta. E, in effetti, abbiamo a che fare con un personaggio che assume prerogative propriamente profetiche, ma sullo sfondo intravvediamo anche altre figure della storia della salvezza, oltre a quella di Geremia. Si potrebbe richiamare Mosè e, andando ancora più alle origini, la figura di Giacobbe che, sin dal seno materno, ha manifestato la sua identità (cfr. Genesi, cap.25: nel grembo di Rebecca ci sono due figli in conflitto tra loro – Giacobbe ed Esaù – e Giacobbe è già identificato). Siamo così rinviati alla prima tappa della storia della Salvezza, ai Patriarchi, e cioè a quell’origine da cui tutto dipende, che coincide con l’iniziativa del Signore che parla, che promette, che dice la sua, che interviene a modo suo.

Adesso è la volta del “servo del Signore” – colui che sin dal seno materno è stato chiamato – il quale a noi così si rivolge, in forza di questa sua radicale , originaria appartenenza alla parola di Dio. “Ha reso la mia bocca come spada affilata ( le caratteristiche tipiche del profeta: ascoltatore e servitore della Parola ), mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra (una vocazione profetica colta nei suoi inizi, che già viene esplicitata nei suoi momenti di responsabilità per quanto riguarda la trasmissione e la testimonianza della Parola; c’è inoltre una sottolineatura: la particolare intimità con Dio che lo nasconde “all’ombra della sua mano”, che prende in braccio il suo servo; e questa radicale originaria intimità costituisce il fondamento di tutto e il contesto nel quale la missione del servo si svolge). “Mi ha detto (il servo si rivolge a noi per farci condividere quanto il Signore gli ha detto; vuole offrirci la testimonianza di quel segreto che è custodito nella sua intimità, là dove è in atto il dialogo che struttura internamente la sua presenza nella storia umana; il servo del Signore è testimone di questa intimità che è abitata dalla conversazione con il Dio vivente): Mio servo tu sei, Israele ( l’accenno a “Israele” è probabilmente un’inserzione perché, qui, il servo del Signore non è il popolo, ma colui che ha una particolare responsabilità nei confronti del popolo), sul quale manifesterò la mia gloria >>(un programma luminoso, festoso, epifanico, rivelativo della presenza e dell’opera vittoriosa del Dio vivente nella storia umana). Io ho risposto (è la conversazione; e il servo esprime la sua esperienza che sembra contraddire la promessa di gloria che gli era stata fatta) : <<Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze ( il servo è, ormai, in grado di riscontrare tutti gli elementi fallimentari della missione affidatagli: le cose non sono andate così come il Signore gli ha promesso; una smentita clamorosa, per certi versi, scandalosa! E di tutto ciò il Signore e il servo conversano tra loro. Il servo, comunque, non viene meno, in coerenza con la sua inconfondibile prerogativa di intransigente fedeltà). Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio>>( il servo, a suo modo, reinterpreta la promessa che ha ricevuto in base ai fatti con cui deve misurarsi, ma non per questo cede o rinuncia; e il Signore torna alla carica, aumentando la dose …). Ora disse il Signore che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato stimato dal Signore e Dio era stato la mia forza – mi disse: E’ troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Ma io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra .” Quindi il Signore parla al servo che è consapevole di essere coinvolto in un’avventura pericolosa, drammatica; anzi questo servo ha già riscontrato il fallimento della missione a lui affidata; non per questo, però, desiste e il Signore rilancia con un’intensità, nella comunicazione a tu per tu con il servo, da lasciarci stupefatti: non solo tu sei stato inviato per riunire il popolo – questo è “troppo poco”! – ma tu sei inviato per sfavillare sulla scena del mondo come riferimento luminoso per tutte le nazioni della terra! “Luce delle genti”: questa espressione viene poi ripresa, nella rivelazione biblica, e segnatamente da Simeone nel suo cantico “Nunc dimittis” (Luca 2, 32), che si legge la sera recitando la compieta. Nonostante i riscontri negativi del servo, che intravvede strade sempre più impervie, situazioni sempre più gravose, opposizioni sempre più difficili da superare, il Signore gli spiega che la missione a lui affidata è portatrice di una fecondità traboccante, per essere luce di tutte le genti.



Terzo canto: esperto nel consolare; innocente perseguitato

Cap. 50, vv. 4-9. “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola …”. Come nel secondo canto, è il servo del Signore che parla, e il nostro personaggio assume, in modo sempre più esplicito, la fisionomia propria della vocazione e della missione di un profeta. Il servo è colto - e si presenta lui stesso a noi – nell’atto di svolgere una forma particolare di predicazione; ciò che è caratteristico di questa sua eloquenza e duttilità nell’uso della parola è la sapienza con cui è in grado di consolare i derelitti della terra. “Mi ha dato una parola che mi rende capace di indirizzare allo sfiduciato la consolazione di cui ha bisogno”. Il nostro servo del Signore è impegnato in questa attività, nel prendere contatto con tutte le situazioni di smarrimento, di solitudine, di avvilimento, di sconfitta; e sempre e dappertutto, con tutti coloro che si trovano in questo stato di afflizione, trova una parola consolatrice. E tutto ciò perché “…Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati …”. Non c’è dubbio: se il servo del Signore è profeta in grado di rivolgersi, con un messaggio di consolazione, a tutti i disgraziati della terra è perché egli stesso è uomo d’ascolto e, in quanto tale, acquista libertà e sapienza nell’uso della parola e diventa consolatore che può interpellare tutte le situazioni di miseria nelle quali gli uomini sono schiacciati. L’espressione, nel v. 4, “ogni mattina fa attento il mio orecchio andrebbe tradotta, alla lettera, “ogni mattina apre il mio orecchio”; lo apre nel senso che mi dispone all’ascolto, mi parla e l’orecchio si apre per ricevere la parola; ma qui è usato un verbo che allude anche alla “foratura” dell’orecchio e cioè a quel contrassegno riservato esattamente agli schiavi. D’altronde è la condizione in cui egli si trova: il servo, schiavo, con l’orecchio forato. Il suo essere “ascoltatore” coincide, con il suo essere “servo”, coinvolto in una relazione di totale appartenenza a colui che gli parla. L’orecchio forato (come il naso forato): è lì dove viene stretto quell’anello mediante il quale lo schiavo è incatenato (fa sorridere pensare al “piercing” tanto di moda fra i nostri ragazzi: chissà se sanno che l’incatenamento al naso o all’orecchio era prerogativa degli schiavi!). Ogni mattina mi ha forato l’orecchio, mi ha inchiodato nell’ascolto, mi ha sigillato in forza di questo vincolo, coinvolgendomi in una comunicazione diretta che ha totalizzato tutto dei miei pensieri e dei miei affetti, della mia carne e del mio sangue, delle mie capacità di movimento sulla scena del mondo; tutto ha preso di me con la parola che mi ha rivolto ed ecco, in questo ascolto totale, il motivo per cui il servo del Signore è in grado di porgere una parola consolatrice a tutti i derelitti della terra. “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro …” (di per sé l’operazione non è gradevole, ma non mi sono sottratto). Adesso veniamo a sapere che, davvero, il nostro “servo del Signore” è esposto ad avversità, aggressioni, incomprensioni di ogni genere: è proprio vero che quella “foratura all’orecchio” fa di lui – ascoltatore della parola – uno schiavo che non può sottrarsi a tutte le più spietate e violente asprezze, con le quali innominati aggressori si scatenano contro di lui. “Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba …”. Chi sono costoro? Innominati, ma certamente non mancano, e sembra proprio che l’opposizione al servo del Signore sia tanto più aspra e spietata, quanto più egli si radica nell’ascolto della parola, che fa di lui il testimone di un messaggio che consola i derelitti della terra. Questo suo prendersi cura di tutti gli sfiduciati e sconfortati di questo mondo attira su di sé l’insofferenza spudorata di aggressori che, proprio visceralmente, lo rifiutano; non lo sopportano. Lui non si tira indietro e continua ad essere fermo, risoluto, coerente nel suo modo di procedere. Certo, tutto questo comporta per lui il passaggio attraverso situazioni dolorosissime. Rispetto al secondo canto c’è un salto di qualità e gli eventi precipitano. Lì diceva: “Ma è inutile”; qui dice: “Non sono in grado disfuggire a questa violenza così spietata”. Ma questo non basta; dice adesso, il v. 7: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso”. Là dove l’ostilità è sempre più feroce e stritolante, il Signore Dio assiste il suo servo; il Signore è con lui. E’ solo il Signore, ma è veramente tutto per lui.

Il terzo canto si chiude con una considerazione significativa, perché veniamo a sapere in modo diretto e indiscutibile che il servo, mentre subisce gli effetti strazianti del rifiuto che lo circonda, è identificato per la sua innocenza: “E’ vicino chi mi rende giustizia (cioè colui che garantisce della mia innocenza); chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? ( chi può segnalare una mia colpa o rivolgere un’imputazione nei miei confronti?) Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole? (vedete che è un innocente). Ecco, come una veste si logorano tutti, la tignola li divora”. Il servo è innocente, e questa constatazione esplicita acquista, qui, un rilievo quanto mai drammatico, perché il dolore a cui il servo è esposto e a cui non si sottrae è un dolore inconsolabile proprio perché sconvolge la realtà di una persona innocente. Il dolore innocente è inconsolabile, perché non può essere riparato, ripreso, recuperato con qualche segnale di conforto, di benevolenza, di comprensione: è il dolore senza colpa. E così il consolatore è, e rimane, inconsolabile nel suo dolore; il suo essere accanto al dolore di tutta la realtà umana fa di lui il consolatore per eccellenza, ma lui, nella sua innocenza, è inconsolabile. La conseguenzialità tra colpa e pena, a cui siamo abituati noi tutti in base alla nostra esperienza umana, per lui non funziona. Intanto, attraverso il suo dolore, è entrato in contatto con tutte le situazioni di miseria, di tribolazione, di disagio, di degrado, di sconfitta, che sono proprie della condizione umana. Senonchè, nella nostra situazione noi siamo coinvolti in una vicenda che porta in sé gli effetti di un fallimento, di una ribellione, di un peccato. Anche se non è riducibile ad una precisa corrispettività la correlazione tra colpa e pena, nella condizione umana, è certa, ineccepibile: in ogni esperienza di dolore si ripropone sempre il richiamo, ancorché misterioso, ad una colpa. Nel caso del servo del Signore, invece, non c’è alcuna connessione – diretta, indiretta, allusiva, implicita – tra il suo dolore e una qualunque colpa. E’ innocente, ma nel dolore è accanto a tutti i dolori; nella pena condivide tutte le pene; nel suo patimento incrocia tutte le sofferenze, le tribolazioni e le miserie degli uomini; ieri, oggi e, ancora, domani per sempre.



Quarto canto: orrore e splendore della Passione del servo

Da cap. 52 v. 13 a cap. 53 v. 12. E’ il canto più ampio e, forse, il più famoso. Ogni Venerdì Santo, nella solenne celebrazione della Croce, la prima lettura è questo quarto canto del “Servo del Signore” che ha una composizione più articolata dei primi tre: un prologo (cap. 52, vv, 13 –14 –15 ); un epilogo (cap. 53, v. 11 seconda metà, fino al v. 12); il corpo del canto è nel cap. 53 dal v. 1 alla prima metà del v. 11. Nel prologo e nell’epilogo si fa udire la voce del Signore; è Lui che parla. Nel corpo del canto parlano, invece, i testimoni i quali descrivono, annunciano, evangelizzano il servo del Signore, così come loro lo hanno incontrato e riconosciuto.

Prologo, cap. 52 vv. 13, 14, 15; è il Signore che parla : “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo – così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”. Dunque, un annuncio infallibile quello che, qui, viene proclamato: il successo del servo. Osservate, però, come il successo del personaggio dotato di splendente maestà, che è intronizzato e innalzato, sia riferito a quella persona talmente sfigurata da farci dimenticare che si tratta di un uomo. Così come siamo rimasti stupefatti di quanto fosse orribile quel volto, noi siamo adesso sbalorditi per come quel volto splenda, luminoso, maestoso, sfavillante di gloria. E’ il Signore che parla del “suo servo”, rivolgendosi alla moltitudine: in tre versetti si parla dei “molti” (v.14), delle “genti” o “nazioni” e dei “re” (v.15) ed è chiaro che siamo di fronte ad interlocutori che sono rappresentanti della moltitudine umana. E questo servo - dal volto sfigurato e dal volto che traluce uno splendore che merita il titolo della regalità per eccellenza - realizza, con la sua presenza, un compito che, nel disegno e nelle intenzioni di Dio, coinvolge l’umanità intera, in modo da compiacere la volontà del Signore che parla.



Chi mai potrà credere?


Il corpo del canto si articola in un esordio (cap. 53, v.1) e, poi, cinque strofe (da v. 2 a v. 11 – prima parte -).

Esordio, v. 1 : “Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?”.

Cambia voce, parlano altri soggetti, che sono imbarazzati: chi potrebbe mai credere a quello che noi, adesso, abbiamo annunziato e continuiamo ad annunciare e che il Signore, da parte sua, ha dichiarato e, cioè, che quel volto sfigurato è splendente? “Credere”, nel senso che qui viene evidenziato, fa tutt’uno con il passaggio dal silenzio al canto : chi potrebbe mai “cantare” con noi e uscire dal silenzio, per condividere con noi la sorpresa di questa scoperta sconvolgente. Passare dal silenzio al canto, senza più essere “spettatori in platea” silenziosi e interdetti; cantare anche noi all’unisono con questi testimoni, significa essere in grado di offrire il volto all’incontro con il volto sfigurato divenuto specchio luminoso. Ma chi potrà mai credere a questo? Chi potrà mai cantare con noi come adesso vi testimoniamo? Chi potrà mai uscire dal silenzio e scoprire il proprio volto ed esporlo allo splendore della luce che proviene dal volto del “servo”?





Una vita nell’ombra

Prima strofa, vv. 2 e 3 : “E’ cresciuto come un virgulto davanti a lui (davanti al Signore ) e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. I fatti della sua vita sintetizzati in modo essenzialissimo : la sua nascita, la sua crescita, il suo modo di muoversi sulla scena del mondo e tutto è ridotto a situazioni minuscole, il minimo che è necessario per tirare avanti, una presenza non valorizzata, rifiutata, disprezzata e che sembra risucchiata dall’ombra, rispetto alla quale solo per qualche momento è emersa. Uomo dei dolori, che ben conosce il patire, davanti al quale ci si copre la faccia, per non vederlo; ed è già passato, finito; il suo volto è già cancellato, così come un virgulto cresciuto in terra arida, senza apparenza, senza bellezza.



La colpa è nostra e il suo dolore ci converte

Seconda strofa, vv. 4 e 5 : “Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”. I testimoni – che hanno avuto modo, in una fase successiva, di reinterpretare tutta la vicenda - ci spiegano il motivo per cui le cose sono andate nel modo descritto nella strofa precedente : le cose sono andate così a lui per causa nostra. Solitamente, nella letteratura antico-testamentaria, un canto di lamento passa attraverso la confessione di una colpa, in modo più o meno esplicito ed elaborato. Qui la confessione della colpa non compete a lui, che ha patito in quella maniera, ma a noi che lo osserviamo! Le cose sono andate così per lui, in modo tale che noi, osservandolo, ci siamo resi conto di essere gratuitamente coinvolti in una vicinanza d’amore, in una condivisione di quel che è propriamente nostro – pena, miseria, vergogna, fallimento – che non aveva alcun altro motivo intrinseco se non la volontà di manifestarci un’autentica solidarietà d’amore. Ha fatto questo per noi, dicono i testimoni. Noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato, ma lui si è addossato i nostri dolori, quel che è “nostro”; è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità e “per le sue piaghe noi siamo stati guariti”. Il suo dolore ci converte, ci apre il cuore, scioglie i nodi della nostra durezza; diventa medicina, terapia per noi. Osservandolo – là dove, nella sua innocenza, ha patito tutto ciò che è nostro, gratuitamente – noi siamo stati condotti ad una confessione della nostra miseria, in un contesto d’amore nel quale siamo stati redenti, liberati, purificati.



Noi, pecore smarrite, abbiamo trovato il Pastore nell’Agnello

Terza strofa (quella centrale), vv. 6 e 7: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”. Il perno di questa terza strofa è il rigo dove si legge “il Signore fece ricadere su di lui …: è il Signore il protagonista, che ha stabilito questa connessione, ormai indissolubile, tra lui ( il suo servo) e noi; una relazione piena, definitiva che, adesso, costituisce il riferimento solido e ricapitolativo di tutto lo sviluppo della storia umana, in forza del quale noi – che siamo pecore sbandate, di un gregge disperso – abbiamo trovato un pastore in quell’agnello che, senza alcuna colpa, è stato condotto al macello. Noi abbiamo riconosciuto il pastore attorno al quale tutte le pecore disperse, dovunque siano precipitate e comunque si siano smarrite, si ritrovano come parte di un unico gregge che, ancora una volta, ha dimensioni universali. Abbiamo riconosciuto il pastore in quell’agnello, che ha voluto condividere tutta la tragedia della nostra desolazione umana. L’Agnello è divenuto Pastore; le pecore Lo riconoscono.



Vittima innocente, fino alla morte

Quarta strofa, vv. 8 e 9 : “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l’iniquità del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca.” Il distico finale del v. 9 ha tutte le apparenze di un epitaffio sul suo sepolcro : “Non ha commesso violenza, non c’è stato inganno sulla sua bocca, ma – innocente com’era – è stato condannato, rifiutato, tolto di mezzo, ucciso e tumulato con una sepoltura infame”. Anche il riferimento al tumulo insieme con il ricco conferma il disprezzo di cui egli è stato oggetto. Innocente fino alla morte. Non c’è uomo peccatore, uomo dolente, derelitto, non c’è uomo mortale che non abbia a che fare con Lui. Quale uomo non è dolente? Quale uomo non è mortale? Là dove gli uomini peccatori, nel dolore, sono intrappolati in mezzo agli ingranaggi della morte, il Pastore esercita il suo servizio, il suo ruolo, la sua competenza, la sua missione: è il “Servo del Signore” che ha portato a compimento la missione redentiva a lui affidata.



Il disegno si compie: la morte è vinta e sorge una nuova umanità

Quinta strofa, vv. 10 e 11 (prima metà): “Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza”. Si è compiuto il disegno, la volontà, l’intenzione del Signore e il suo compiacimento è pieno. Siamo ormai oltre la morte del Servo e siamo in grado di sperimentare il frutto benefico di questa liberazione totale. In forza di questa sua intrasigente, inesauribile gratuità d’amore, Lui è vittorioso sulla morte (“vedrà una discendenza, vivrà a lungo …, vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza”); l’orizzonte dell’avvenire si spalanca e in quel che è avvenuto – annunciano, adesso, i testimoni - il Signore si è rivelato a noi attraverso il suo servo, in modo da realizzare quell’opera che ci converte, ci guarisce, ci libera e fa di noi – peccatori, dolenti, mortali – un’umanità nuova.



Il volto del Messia

Epilogo, v. 11 (seconda metà) e v. 12: “Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Si ritorna alla voce del Signore, la stessa che parlava nel prologo. Per tre volte si ripete il termine “molti”, “moltitudine”: l’umanità. Non c’è creatura umana che possa sfuggire a questa attrazione, a questo coinvolgimento, a questo incontro con il Servo del Signore, l’Innocente che si è addossato il carico. E notate bene come il carico, cui si accenna nel v. 11, diventi il “bottino” nel v. 12. Dunque, il carico si trasforma in insegna trionfale; il carico che Egli ha sopportato fino ad essere schiacciato è il trofeo del vittorioso, “perché ha consegnato se stesso alla morte”( alla lettera: “ha denudato, ha sporto il collo”. L’Agnello è diventato Pastore. “Ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Ecco il Servo di cui il Signore si compiace; ecco colui che, nell’avventura del popolo di Dio da Babilonia a Gerusalemme, svolge il ruolo decisivo; ecco il personaggio verso il quale il nostro anonimo profeta richiama l’attenzione di tutti. Sullo sfondo – vi dicevo – riconosciamo la figura dei grandi personaggi della storia della salvezza. Siamo andati a ritroso: Geremia, Mosè, Giacobbe e …, in un certo senso, chi più ne ha più ne metta. Gli studiosi, oggi, insistono molto nel dare risalto alla figura dell’ultimo sovrano significativo dell’epoca antecedente all’esilio: Giosìa, che morì tristemente, tragicamente in battaglia, ed è una figura prestigiosa che aveva attirato a sé gli animi dei suoi contemporanei.

Il “Servo del Signore” rimane anonimo, ma non c’è dubbio che il nostro profeta, nel suo dialogo con la parola del Signore, veda attraverso questo servo il volto del Messia, che realizza nella pienezza del tempo, secondo le intenzioni del Dio vivente, l’opera della redenzione. E noi, nella Babilonia di oggi, già siamo testimoni di questa novità assoluta, definitiva, portatrice di una trasformazione universale della storia umana.