APPENDICE
Brani da “La cattedra dei piccoli e dei poveri” (ed. AVE)
Pio Parisi
La cattedra dei piccoli e dei poveri
1.Un’esperienza di tutti
Gianni, un carissimo amico, mi ha detto: ti ho sentito più volte parlare di cattedra dei piccoli e dei poveri, mi vuoi spiegare che cosa vuoi dire con questa espressione. Gli ho risposto più o meno in questo modo.
Qualche volta mi dici che ti senti vecchio, che le forze accennano a diminuire, che c’è qualche vuoto nella memoria e altri guai del genere; esperienze che condivido. Queste cose le senti come negative, ed è evidente che lo sono, ma hanno anche un valore positivo di cui ci rendiamo conto se ci riflettiamo un po’ sopra. Certe diminuzioni ci fanno crescere: diventiamo più comprensivi e più pazienti con gli altri e con i loro limiti, giudichiamo di meno, sentiamo di più il bisogno di essere aiutati dagli altri. Ma penso che la crescita più importante stia nel fatto che sentiamo il bisogno di un Altro che non abbia i nostri limiti e soprattutto che ci voglia bene così come siamo. L’esperienza della debolezza, del nostro essere fragili e bisognosi di aiuto, ci fa crescere, è per noi sorgente di sapienza. Per questo parlo di cattedra dei piccoli e dei poveri.
C’è poi un’altra esperienza che hai fatto tante volte. Qualcuno è colpito da una disgrazia: la perdita di una persona cara, una malattia grave, un guaio economico,uno stato di depressione. E tu, di slancio o dopo averci pensato su, decidi di avvicinarti a questa persona e cerchi di dargli una mano. Non passa molto tempo che ti dici:è più quello che ho ricevuto che quello che ho dato: anche questa è cattedra dei piccoli e dei poveri.
In una comunicazione telefonica Francesca mi ha parlato dei rischi che incombono su di lei e sulla sua famiglia e di come lei cerchi di prevenire e far fronte. Ma ora si sente molto stanca. Altri dovrebbero tirare la carretta insieme a lei ma non lo fanno e si limitano a criticare quel che fa lei e ad aspettare inconsciamente che arrivino i guai. Le ho detto di avere pazienza e di tenere duro, accettando di faticare anche per gli altri.
Ripensando a questa telefonata mi è parso che Francesca si trovasse veramente in una situazione di gran difficoltà, che avesse un’esperienza di piccola e di povera e che tale esperienza, sopportata fiduciosamente, l’avrebbe fatta crescere molto nella vera sapienza. Sente la sua impotenza e la limitatezza degli altri che pesa su di lei. E’ un’esperienza di tante negatività che s’intrecciano e in qualche modo convergono su di lei. Ma è un’esperienza che può portare a una grande sapienza: ci si rende conto di come siamo fatti, di come è fatta la vita sociale, di come va il mondo, di quante storture si aggrovigliano. E cadono così le ultime illusioni di sufficienza umana. E’ la cattedra dei piccoli e dei poveri: piccola Francesca che si sente stanca, piccoli quelli che stanno a guardare, piccola la famiglia che va incontro ai guai, piccola la società.
Cristian è tornato da scuola con un due in italiano orale, un po’ abbattuto, cosa che accade in lui molto di rado. Mi è sembrato anche un po’ cresciuto. Quando racconta con entusiasmo, grazie a Dio sempre più contenuto, i suoi sogni per l’avvenire e le sue imprese del presente, mi sembra tanto inconsistente, in balìa degli altri e della moda. Oggi, finalmente, qualche segnale di maturazione grazie ad una esperienza di piccolezza valutata 2/10. Del resto io ho sempre molto da imparare da lui, dalla sua semplicità, dalla sua sincerità e dalla sua disponibilità. E’ la cattedra dei piccoli e dei poveri che si articola e funziona in più direzioni.
(…)
2. Una prima definizione di cattedra dei piccoli e dei poveri
(…)
per piccoli e poveri intendo quelli che nella società contano di meno, che non hanno voce in capitolo e che non si trovano in cattedra. (…)
E allora chi sono i piccoli e i poveri?
Tutti certamente siamo piccoli e poveri per la fragilità della nostra condizione umana creaturale. Qualcuno si illude di essere grande e ricco ma viene il momento in cui si accorge di essersi ingannato e scopre i suoi limiti. Ci sono sempre tanti che sperimentano maggiormente, in tanti modi diversi, la loro piccolezza e povertà, sulla loro pelle o nella loro psiche.
(…)
Con l’espressione la cattedra dei piccoli e dei poveri intendo proporre un cambiamento prima di tutto interiore, del nostro modo di pensare, di sentire, di giudicare, di vivere e di agire. Un cambiamento radicale, una svolta di 180 gradi, una conversione. Si tratta di considerare positivo ciò che ci appariva negativo e viceversa.
Quando sto male fisicamente penso che questo sia un fatto negativo e mi preoccupo prima di tutto di star bene. Non dico affatto che dobbiamo trascurare la salute e non cercare di star bene, ma che prima di tutto bisogna scoprire il valore del malessere; come esso ci aiuti a capire come siamo fatti, i nostri limiti, i condizionamenti della nostra mente, del nostro cuore e delle nostre possibilità di agire. Ancora più importante è il fatto che stando male possiamo imparare a capire tutti quelli che si trovano nella stessa condizione e soffrire con loro. Stando male ci accorgiamo del bisogno che abbiamo degli altri e può darsi anche che cominciamo a scoprire il bisogno di un Altro che sia come noi, per compatirci, e al tempo stesso al di sopra di noi per salvarci, in grado di darci qualcosa di assolutamente necessario che da soli, intendo fra creature, fra uomini e donne, non riusciamo a darci.
Quando stiamo male scopriamo in noi la cattedra dei piccoli e dei poveri in quanto ci accorgiamo che dal malessere può nascere una sapienza, una grande sapienza.
Quel che ho detto del male fisico vale anche del male spirituale. Le amarezze che sentiamo dentro di noi possono farci capire innumerevoli cose degli altri e della società in cui viviamo, cose che non arriveremmo mai a capire se dovessimo contare solo sui libri. E quante e quanto diverse sono le amarezze che ci fanno crescere: amore non corrisposto, incomprensioni, ingratitudine, dimenticanza, solitudine, confusione.
Fra le esperienze negative una di quelle più gravi è l’impotenza a fare quello che pure ci sembrerebbe bene per noi e più ancora per gli altri. E fra i diversi tipi d’impotenza uno dei più gravi è l’incapacità di pensare, di organizzare le idee, di dominare almeno con la mente la situazione. Ma proprio queste esperienze di impotenza sono spesso quelle in cui si acquista maggiore saggezza, perché ci si libera da quelle illusioni di potenza che sono la sorgente delle più grandi stoltezze e purtroppo delle più dure violenze.
Tutto questo è la cattedra dei piccoli e dei poveri che si trova prima di tutto in ognuno di noi, in quei momenti che ci sembrano di perdita e che sono invece di arricchimento.
La cattedra dei piccoli e dei poveri è poi quel cambiamento radicale del nostro modo di guardare attorno a noi per cui scopriamo che quelli che non stanno in cattedra e che a nessuno verrebbe in mente di metterceli hanno tante cose da insegnarci. Questa è la meraviglia: sembrano insignificanti e invece sono pieni di senso, sembra che non contino nulla e invece sono una grande risorsa, sembra che siano solo da aiutare e invece sono quelli di cui abbiamo maggior bisogno e più possono aiutarci. (…)
Se sto bene non ho che da ringraziare il Signore. Quando c’è la salute c’è tutto. Quando vedo che le cose attorno a me vanno bene posso stare tranquillo. Queste e tante altre affermazioni, considerate di buon senso, e non di rado accreditate di un valore religioso, vengono scosse dalla cattedra dei piccoli e dei poveri.
Nel benessere si rallenta la ricerca e ci si ripiega su se stessi: se uno sta bene che altro deve cercare? Se sto bene è una bella cosa: posso pensare e fare bene. Se stanno bene gli altri attorno a me è un’ottima cosa. Cerchiamo quindi di stare tutti bene.
Ma c’è una prima difficoltà: lo star bene proprio e degli altri non dura a lungo.
C’è poi una difficoltà maggiore: quando si sta bene non ci si accorge di tutto quello che manca e così il vuoto in noi e attorno a noi cresce, finchè tutto crolla.
Quando sto bene è facile che la mia attenzione non sia sufficientemente rivolta a chi sta male. E quando siamo in molti a star bene si forma automaticamente un circolo chiuso che si difende da chi sta male, anche solo cercando di non pensare a loro. (…)
Il benessere ci porta a guardare con simpatia e con ammirazione quelli che stanno bene, ed è difficile che non ci sia un po’ d’invidia per quelli che stanno meglio. Così si va formando in noi la cattedra dei grandi e dei ricchi che è esattamente il contrario della cattedra dei piccoli e dei poveri. Penso che sia necessario fare una scelta fra queste due cattedre. E’ chiaro che a tutti piacerebbe di star bene per aiutare quelli che stanno male e in tal modo sentirsi doppiamente bene: Ma è una via che esiste solo nei sogni, nelle astrazioni degli intellettuali e nelle illusioni dei giovani
3. La Parola
(…)
Per questo occorre ora porsi in ascolto della Parola di Dio non per dare ad essa un posto, sia pure di tutto rispetto, fra le nostre parole ma per riconoscerla al principio di tutto (cf Gen 1; Giov 1; 1Giov 1). Occorre accettare che le nostre parole partano dalla sua Parola,
(…)
Lc 10,21-22
In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto. Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”.
1Cor 1,27-31
Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore.
Fil 2,5-11
Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,umiliò se stesso
facendosi obbediente sino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome
Che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra:
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.
Lc 1,46-55
L’anima mia magnifica il Signore
E il mio spirito esulta in Dio mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
E santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,
per sempre.
Ap 5
(…) Cantavano un canto nuovo:
“Tu sei degno di prendere il libro
e di aprirne i sigilli,
perché sei stato immolato
e hai riscattato per Dio con il tuo sangue
uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione
e li hai costituiti per il nostro Dio
un regno di sacerdoti
e regneranno sopra la terra”.
Durante la visione poi intesi voci di molti angeli intorno al trono e agli esseri viventi e ai vegliardi. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce:
“L’Agnello che fu immolato
è degno di ricevere potenza e ricchezza,
sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”.
Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano:
“A Colui che siede sul trono e all’Agnello
lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”. (…)
4. La Parola che illumina tutto
“Infatti la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non c’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo render conto” (ebr. 4, 12-13).
(…)
Provo a ricordare qualche aspetto (del mistero rivelato) della vita cristiana che ci aiuti a cogliere in essa l’importanza della cattedra dei piccoli e dei poveri.
(…)
La vita cristiana è il più forte dinamismo, è cambiamento continuo e accelerato, è rottura su rottura con se stessi e con il mondo per una esigenza di un amore più grande anche verso se stessi e verso il mondo. (…)
La vita cristiana è una proposta di Dio che solo lo Spirito può realizzare (…) passa attraverso la sofferenza (…)
Il grande cambiamento che è la vita cristiana va dal cuore alle strutture (…) La vita cristiana è liberazione (…) per vivere con intensità crescente l’amore verso tutte le creature e il loro Creatore,
(…)
La vita cristiana è cammino di minorità intesa come la intendeva Francesco d’Assisi, essere di quelli che contano di meno, non solo con loro, ma come loro, dei loro. (…) La condizione di minore è assicurata a chi prende sul serio il Vangelo e più che cercarla occorre essere pronti ad accoglierla: viene da sé a chi segue il Signore.
Un sentiero che porta alla povertà e alla minorità è quello di scegliere sempre di fare ciò di cui c’è più bisogno, alla luce del Vangelo, con un discernimento continuo di quel che accade nel mondo e nella Chiesa.
(…)
La vita cristiana, che potremmo essere portati ad immaginare nella bellezza dei discorsie nello splendore delle opere, nasce soprattutto nel silenzio e nell’ascolto. Ascolto in primo luogo della Parola e poi di quello che ai piccoli e ai poveri è dato di comprendere di questa: la cattedra dei piccoli e ei poveri.
(…)
6. Ostacoli e fraintendimenti
(…)Senza, lo ripeto, in alcun modo rallentare l’impegno ad aiutare chi è nel bisogno, dobbiamo compiere il passo decisivo per la conversione: andare alla cattedra dei piccoli e dei poveri.
(…)
Il problema di fondo è che spesso non ci rendiamo conto di quello che avremmo bisogno di imparare: il riconoscimento cioè della immensa dignità di ogni persona umana, pur nella estrema fragilità della sua condizione e nella contraddittorietà della sua vita.
(…)
Mentre sembra che non ci accada nulla di buono in realtà il nostro animo è arato in profondità, si libera da innumerevoli illusioni, si apre agli altri, alla parola degli altri, alla Parola dell’Altro.
7. A che serve la cattedra dei piccoli e dei poveri
(…)
Nella vita personale (…)
Nella vita sociale e politica (…)
L’azione politica dovrà anche preoccuparsi di strutture che facilitino la cattedra dei piccoli e dei poveri. Sia chiaro che la cattedra dei piccoli e dei poveri non è una struttura ma un cambiamento interiore: ma esso ha bisogno di strutture che lo facilitino. Ecco quindi un compito primario per la politica: cercare strutture che rendano possibile la cattedra dei piccoli e dei poveri. (…)
Chi quindi si impegna per delle strutture che facilitino la cattedra dei piccoli e dei poveri non potrà non sperimentare una grande solitudine e la fatica di andare controcorrente per inventare cose radicalmente nuove (…)
Un punto di estrema importanza per rinnovare la politica è quello di saper collegare l’impegno verso situazioni particolari con quello nei confronti dei grandi problemi mondiali
(…)
Nella Chiesa (…)
Il guaio è che la cattedra dei grandi e dei ricchi ti dà tutto quello che sembra utile al Vangelo ma non lascia passare il Vangelo stesso. E quel che è più grave è che, spesso senza che ce se ne accorga, ci stacca dal Vangelo. E il tralcio staccato dalla vite si secca e muore, o rimane sempre verde perché è di plastica, un inganno senza vita. (…)
Occorre liberarsi dalle strutture ricche nelle quali non passa la parola di Dio e non alberga, di conseguenza, la cattedra dei piccoli e dei poveri. (…)
Provo a indicare tre tipi di strutture in cui la Chiesa può rimanere intrappolata. Gli edifici (…) Le costruzioni culturali (…) Gli schieramenti (…).
Lasciamo operare Cristo in noi
Provare a delineare la mia esperienza in fatto di sofferenza non è semplice, non perché la mia sia un’esperienza fuori dal comune – in tal caso il compito sarebbe più facile – ma perché essendo questa così normale, così ordinaria, mi sembra non abbia nulla di eccezionale degno di essere comunicato.
La mia vita personale prima e quella di coppia poi, sono andate avanti senza troppi problemi, nella maniera la più comune: un’infanzia e una giovinezza serene; un tenero, sofferto ma costruttivo fidanzamento; un matrimonio felice; un marito medico stimato e benvoluto da tutti dal quale ho appreso la pazienza cristiana nelle avversità; un amore fresco, sempre in crescita che aveva conservato, anzi, aumentato la gioia della comunione; quattro meravigliosi figli arrivati spontanei come fiori di campo, ma accettati ed amati dal loro primo germogliare. Eccola la nostra vita, vissuta però con uno sguardo costantemente fisso al Signore che operava in noi e che aveva predisposto un piano che dovevamo realizzare. Ci siamo perciò sempre resi disponibili alla sua volontà.
Una volta realizzato il nostro progetto di vita, una volta arrivati alla meta che ci eravamo prefissi pensavamo di aver fatto tutto o quasi, di aver completato il progetto stabilito per noi, invece la nostra opera non era conclusa, il Suo piano non completamente attuato. Mancava il Suo sigillo, mancava il Suo marchio: la Croce.
Mio marito è morto o per meglio dire vive in pienezza di vita ed ora è iniziata per me e per i miei figli ancora piccoli una vita nuova, certo più povera per il mondo, ma più ricca di grazie.
Già la sua malattia aveva operato un miracolo in me. Il tumore che lo ha colpito ha consumato il suo corpo in pochi mesi, ma lo ha trasformato ai miei occhi, lo ha in un certo senso sublimato ed ha evidenziato una realtà fino ad allora sconosciuta: quel corpo così debole affidato alle mie cure, che spietatamente mi presentava la fragilità della natura umana, si poneva dinanzi a me come qualcosa di sacro, degno della massima venerazione e ne ho scoperto l’intima bellezza, la vera grandezza. Quando era sano e forte non l’avevo mai amato con la stessa intensità. E tanto ho amato anche la persona, l’uomo, che umilmente rinunciava, giorno dopo giorno, alla sua indipendenza, che accettava in spirito di povertà di chiedere aiuto, di essere servito, di essere consolato.
Ora sono rimasta sola a portare una croce pesante che mi fa soffrire. Soffro per la solitudine che pervade la mia vita; mi manca colui che era tutto per me, il compagno, l’aiuto, il sostegno. Sento il peso della responsabilità di educare, di guidare i miei figli verso la vita. Spesso vorrei io essere presa per mano e guidata! Mi pesa anche l’incomprensione di alcuni i quali, credendo che la vita sia soltanto salute, ricchezza e possesso, si sentono autorizzati a giudicare senza conoscere, senza capire. Questi non sanno forse quanto fanno soffrire e non si accorgono di soffrire essi stessi. Questa è la mia croce e quante volte cerco di scrollarmela di dosso! Ma poi il Signore mi aiuta a riprenderla, a portarla e a scoprire il valore della sofferenza vissuta con Lui.
La sofferenza che ci ripugna, che cerchiamo di evitare con tutte le nostre forze, che ci fa paura è, in ultima analisi, l’aspetto più vero, più significante della nostra esistenza. Di essa però ci sfugge la spiegazione logica. Perché la sofferenza? Non c’è nessuna risposta razionalmente soddisfacente, come neppure la Croce di Cristo ha una spiegazione, ma Egli ha voluto amarci così! Dunque la sofferenza va accettata con amore e per amore, senza cercare di capire. Amore per chi? Soprattutto amore verso questo Dio che ha offerto se stesso; amore per quanti, come me, vedo portare la loro croce senza strepiti, senza troppo rumore. Allora anche la mia croce diventa, come quella di Cristo, strumento di redenzione.
La sofferenza unisce e rende ogni piccolo gesto d’amore importante per me che lo offro e per gli altri che lo ricevono. Ogni volta che ho offerto un aiuto agli altri, pur con la mia croce, ho regalato ad essi un momento di gioia, ho vissuto con essi un momento di fraternità e come per incanto non ho sentito più il peso della mia croce. Cos’è un sorriso, o un bacio, o una parola gentile, o una stretta di mano? Poca cosa per chi ha altri valori, altre ricchezze. Ma per chi soffre sono la vita e solo chi soffre sa apprezzarne il vero e profondo significato.
Siamo tutti così piccoli, fragili e tanto impotenti, ma se ci sosteniamo l’un l’altro, se usciamo fuori dalla stretta gabbia del nostro dolore, se lasciamo operare l’amore di Cristo in noi, se portiamo come Lui e con Lui la nostra croce diventiamo subito forti e scopriamo il senso vero della vita.
Anna Maria Cerolini Mignini
Mario Castelli
Ero come nudo
Comunque in Te
Padova, 5-14 giugno 1991
Diario di ospedale
Questo diario spirituale è espressione di sentimenti sorti in me durante la degenza di dieci giorni nella clinica neurologica universitaria di Padova.
La cura comportava una “vacanza terapeutica”, cioè la sospensione dei farmaci, la quale, nel caso del morbo di Parkinson. La malattia per cui ero ricoverato, induceva a sua volta l’assoluta immobilità del paziente.
Il racconto, parte narrativo e parte poetico, trasfigura in una riflessione spirituale quei sentimenti, scoprendovi una via di ascesa verso Gerusalemme. La squallidità dell’istituzione ospedaliera, la condizione di totale immobilità dell’ammalato, l’urgenza di comunicare la Parola di Dio a un gregge senza pastore, la mobilitazione di un popolo “nuovo”, diventano momenti di questa ascesa che si conclude nell’illuminazione che lo “stare”, a cui le condizioni fisiche costringono una persona, può rivelarsi occasione privilegiata per raggiungere una stabile comunione d’amore con Dio.
La Gerusalemme a cui ascende il credente è inizialmente, in qualche senso importante, quella terrestre, cioè il soggetto che è dapprima assunto come elemento simbolico è lo stesso di quello della realtà simboleggiata: la Gerusalemme terrestre, città del sommo peccato, si trasfigura per la potenza del Redentore nella Gerusalemme celeste (quella fondata sui dodici apostoli e che ha per luce l’Agnello), la cui visione conclude la Bibbia cristiana (Ap 21-22).
Primo impatto con l’ospedale: ero come nudo
Stamane sono entrato nella Clinica universitaria di neurologia cioè, più semplicemente, nell’ospedale.
La Clinica è situata sopra un piccolo colle.
Esistono alberi, testimonianza di una natura ridotta da bene da coltivare e custodire (Gn 2,15) a opzionale ornamento.
L’insieme è migliore di quanto prevedevo.
Tuttavia rimane l’impressione, tipica di ogni ospedale, di vago squallore. La nudità delle stanze non è solo funzionale. Entrando vieni in qualche modo denudato anche tu: lo spogliamento è quasi impercettibile; la scoperta è brusca.
Nudo, materialmente nudo, perché non sei più nei tuoi panni abituali, ma in surrogati di vestito (pigiama, vestaglia, ciabatte…); e quando ci sono! Perché ti possono togliere tutto per tenerti a letto. Se ti devi vestire da camera, è per non uscire dal reparto; e se ti permettono di uscire, sei un privilegiato che disturba l’ordine delle cose.
Nudo, perché sei solo, col tuo corpo (soprattutto), anche se t’attorniano gli amici.
Nudo, perché sei completamente gestito da altri. I quali ti portano le medicine, una alla volta; ti danno da mangiare in tempi inusuali; ti fanno dormire o non dormire, secondo una logica che ti è esterna… Perdi il senso della responsabilità di te stesso.
Nudo, perché sei posto nella condizione di non protestare: molte volte perché il personale è effettivamente pronto e gentile, l’assistenza clinica efficiente, l’amministrazione ragionevole… La nudità e lo squallore non procedono dalle persone, sono bensì intrinseche all’istituzione. L’ospedale non può essere casa tua; e neppure una piccola stanza di rifugio in affitto. Per molti aspetti è piuttosto un carcere.
Nudità, squallore, carcere…; spontaneamente cerco un’altra nudità, che è invece splendore e libertà. E’ la nudità della Parola di Dio, che si fa carne: il Figlio, Gesù Cristo, pura trasparenza del Padre, fonte di vita eterna, di luce che accende una nuova comprensione di tutte le cose, nello splendore della sua gloria che osa partecipare alle sue creature.
Ispirazione biblica:
“ Non temere e non spaventarti,
Sì, Gesù era nudo perché è con te il Signore tuo Dio,
dovunque tu vada”
Sì, Gesù era nudo (Gs 1,9b)
come il corpo santo di Adamo.
Come la vittima da offrire nel Santo,
quale perfetta trasparenza del Padre.
Ossia, non la nudità del peccato,
di cui Adamo si vergognava.
E neppure la nudità della passione vinta
Da cui l’uomo si è liberato…
Ma la suprema nudità dello Spirito
che apre lo splendore di Dio.
Nudo nella stalla, dove Maria
lo ricopre con fasce, affinché
lo splendore ancora proibito
non distrugga il pellegrino
che brama vederlo.
Nudo nel battesimo affinché possa
Lo Spirito investirlo senza limite
In una missione d’amore
Che nessun limite ammette.
Ed è nudità sulla
croce,
dove ogni affetto diventa inutile,
dove sei tu, abbandonato,
mentre un branco di cani agogna
le tue membra…
Nudo per essere divorato.
Dio,
dacci la nudità che introduce
nello svelarsi del tuo splendore
ora, e nell’eternità di un’unica gloria.
Amen!
(…)
Comunque con te
Il popolo di Dio sia dunque un grande popolo in moto.
Lo Spirito è l’anima e dà il senso di questo movimento.
E chi è ridotto a “stare”, immobile senza neppure poter formulare interiormente una preghiera?
Dio, che ti ha creato dal nulla, può ben chiederti di fare proprio nulla, per esprimere col tuo stesso far nulla quel nulla che sei.
Ma il fine vero non è l’umiliazione dell’uomo, bensì l’apprendimento dell’atto perfetto d’amore.
Lo stare a far niente è comunicazione d’amore per Gesù, il Cristo, con la Santissima Trinità.
E’ lo stare là dove la preghiera raggiunge il suo fine.
Che fanno due innamorati? Si guardano, si stanno vicini, misteriosamente comunicano tutto sé stessi l’un l’altro…
Ecco, Dio è innamorato dell’uomo: sua creatura, suo figlio, partecipe della sua gloria!
L’uomo sia innamorato di Dio.
Insegnami, o Dio, che il mio stare a far niente sia uno stare a far niente per te, con te, in te, come atto supremo d’amore, comunione perfetta d’amore!
Padre Mario Castelli
Pio Parisi
Riprendiamo il lavoro che facevamo ieri in macchina sul tema della coscienza politica, del primato della crescita della coscienza politica, nell’esperienza del lavoro che stai facendo con la S. Pancrazio.
Giorgio
L’impressione è che quanto più ci si radica nelle situazioni di piccolezza e di povertà tanto più si avverte il bisogno di una presa a carico comunitaria dei problemi sociali. L’intervento della persona singola, della singola associazione si mostra sempre più insufficiente rispetto alla gravità dei bisogni che si incontrano, per cui ci si va convincendo che è necessaria una mobilitazione collettiva per far fronte alle situazioni di disagio sociale, soprattutto a quelle più difficili da interpretare e da affrontare. Una partecipazione corale, una presa a carico comunitaria dei problemi richiede una percezione chiara di quali siano i caratteri dei bisogni sociali vecchi ed emergenti. Una consapevolezza del genere può maturare se dentro alle situazioni sociali più complesse ci si radica, vivendole dal di dentro.
Gli apporti degli specialisti, dei tecnici, degli studiosi sono certamente utili, ma se restano sganciati dall'esperienza non favoriscono la comprensione profonda dei problemi.
Pio Parisi
Cosa intendi per radicamento, per stare dentro le situazioni più complesse? Si può pensare che “stare dentro” possa voler dire studiarle a fondo, invece ha più valore la condivisione di vita.
Giorgio Marcello
Radicamento è stare nelle situazioni, mettendoci tempo, passione. Stare, mettendo la vita con la vita. Il radicamento inteso nel senso dello “stare” determina una esperienza di destrutturazione, intesa soprattutto come superamento del pregiudizio, cioè di quel abito mentale per cui io guardo il mondo a partire dai quadri interpretativi che ho in testa.
Stare, radicarsi, mettere vita con vita significa superare il pregiudizio e accettare il punto di vista di chi vive in prima persona le situazioni di sofferenza, di disagio, di marginalità.
Don Milani insegnava che le questioni sociali vanno affrontate a partire dalla prospettiva di chi vive sulla propria pelle i bisogni dei più. Ma questo è possibile solo all'interno di un cammino di vicinanza, di compagnia.
Pio Parisi
Nei confronti dei bambini di cui vi occupate vedere le cose, sentirle come le sentono loro, ma a volte i bambini non vedono o non sentono molto… Dove è che può realizzarsi questo “stare”, mettersi nei panni degli altri?
Giorgio Marcello
Il fatto di stare vicino ad un altro e di provare a vedere le cose dal suo punto di vista non significa che cancelliamo l’alterità tra noi e le persone a cui ci accostiamo. Si sta insieme e si prova a camminare insieme.
Ad esempio, il nostro lavoro pomeridiano con i bambini e i ragazzi è fatto di momenti di animazione pura, di gioco, di attività sportive, ma è fatto anche di proposte impegnative, per cui molti di loro studiano per diverse ore ogni pomeriggio, in un contesto di relazionalità, di amicizia che mi sembra difficilmente riproducibile e sperimentabile di mattina a scuola.
Insomma, non si sta tutto il tempo a giocare a pallone per strada come i ragazzi farebbero se fossero lasciati a loro stessi.
All’inizio di tutto c’è stata una esperienza di vicinanza, di compagnia, di amicizia. Ci siamo accostati a loro, abbiamo stabilito relazioni, stretto legami che hanno aperto dei varchi soprattutto sul piano della fiducia. In seguito, abbiamo cominciato a proporre dei cammini.
L’altra dimensione del radicamento, accanto a quella dello “stare e guardare le cose dal basso, dalla prospettiva di chi sta ai margini”, è la dimensione dell’ascolto e della condivisione.
Ascoltare fondamentalmente significa aprire agli altri lo spazio della propria vita interiore, per cui li accogliamo e ce li portiamo dentro.
Condividere vuol dire provare a stabilire relazioni di amicizia che diano fiducia.
Pio Parisi
Rispetto invece ad un discorso che normalmente si pensa di dover fare: un progetto, un intervento…
Giorgio Marcello
Questa è una mentalità sempre più diffusa. Guardiamo, per esempio, ai passaggi che ci sono stati dal volontariato alla cooperazione e poi all’impresa sociale. Questo percorso mi sembra che sia molto centrato sulla sottolineatura dell’importanza delle competenze e del progetto. Si va diffondendo la mentalità per cui intervenire nel disagio sociale significhi elaborare dei progetti, reperire delle risorse, realizzare gli interventi e poi verificarli. Il tutto come se si trattasse di avviare e portare avanti un processo di produzione aziendale. E mi pare che sfugga la consapevolezza del fatto che il lavoro nelle situazioni di disagio, molto spesso è caratterizzato da un’economia di perdita, più che da una economia dei risultati e dell’efficienza. Nel senso che capita spesso di verificare che tra gli sforzi che si producono per provare a fare qualcosa e i risultati che si ottengono non c’è proporzione. Per cui, se si dovesse seguire una logica di tipo aziendalistico nella valutazione di questi interventi, si dovrebbe dire che sono operazioni in perdita.
Soprattutto rispetto alle situazioni di disagio più difficili, è complicato intervenire con la logica del progetto da verificare e poi ricalibrare. Molto spesso l’unico intervento possibile è quello della vicinanza, dell’ascolto, senza che siano chiare in partenza le ulteriori possibilità di intervento.
Penso, per esempio, alle forme nuove del disagio familiare, alle famiglie che si sfasciano, soprattutto quelle più giovani; ai casi di alcolismo o di fragilità psicologica di tante mamme e di tanti papà: sono tutte situazioni in cui è difficile pensare di poter intervenire individuando una persona che abbia le competenze giuste da piazzare lì e fargli fare un intervento mirato, in grado di produrre dei risultati a stretto giro.
Di fronte a queste situazioni di marginalità diffusa e profonda l'intervento che ci sembra più urgente è quello di qualcun altro che si accosta, provando a ritessere relazioni di amicizia intorno a queste vicende personali e familiari così sfilacciate. Ma questo lavoro di vicinanza, di compagnia, di ritessitura di relazioni è un lavoro lento, che richiede tempi lunghi e, soprattutto, la cui efficacia non è misurabile, né ci sono dei parametri di qualità ai quali fare riferimento per valutazione di tali interventi. Però si tratta di quelle forme di presenza e di radicamento che danno la possibilità di guardare le situazioni dal di dentro.
E per me c'è un dato provvidenziale nelle situazioni di marginalità più difficili che va colto. Queste situazioni limite - che per molti versi sono tragiche, inaccettabili, dolorosissime - ci insegnano che più le situazioni si presentano articolate, complesse, di difficile interpretazione e di difficile soluzione, più è evidente che siamo chiamati in causa noi con la nostra responsabilità. Se è vero che rispetto a queste situazioni possiamo soltanto stare e vivere in atteggiamento di compagnia, di vicinanza, è evidente che è la responsabilità di ognuno ad essere chiamata in gioco, non solo la responsabilità dei servizi sociali che non funzionano o la responsabilità degli operatori sociali o dei tecnici. E' la responsabilità di tutti che è sollecitata ad attivarsi. In questo senso la marginalità, il disagio sociale soprattutto nelle forme più crude e radicali evidenzia il bisogno di una coscienza politica, di una comprensione diffusa dei problemi che produca un atteggiamento di presa a carico comunitaria delle situazioni di disagio più difficili.
Pio Parisi
Presa a carico comunitaria nel senso che il soggetto di questo impegno sia una comunità, un gruppo di persone o comunitaria nel senso che questa coscientizzazione deve essere di tutto il popolo, popolare?
Giorgio Marcello
Tutte e due. Il soggetto che interviene dovrebbe essere un soggetto comunitario e dovrebbe produrre o rafforzare relazioni di tipo comunitario. Se pensiamo alle situazioni concrete che viviamo, ci accorgiamo che questo non è un modello teorico, ma è proprio l’esigenza che viene fuori con forza dalle situazioni in cui siamo coinvolti.
Volendo provare a semplificare il discorso in maniera grezza, anche a costo di banalizzare tutto, potremmo tranquillamente dire che a fondamento delle situazioni sociali più difficili, più complesse, più laceranti c’è un bisogno di amicizia e di fraternità. E questo viene fuori anche ragionando, per esempio, con i genitori che hanno figli con problemi psichici gravi. Gli specialisti che si occupano di queste forme di disagio riconoscono che la terapia più efficace è rappresentata dalla possibilità di sperimentare relazioni di tipo comunitario. Puoi somministrare tutti i farmaci di questo mondo, puoi fare contenimento attraverso terapie farmacologiche, ma anche la terapia farmacologica sortisce degli effetti se la persona in difficoltà ha la possibilità di vivere esperienze di accoglienza, di amicizia, di appartenenza che siano nutritive, che diano senso alla vita.
Pio Parisi
Tante volte ho sentito gli specialisti dire che in molte situazioni l’unica terapia è quella di appoggio che poi sarebbe quella di amicizia di qualcuno con cui condividere una situazione. Nella terapia di appoggio la cosa più importante è l’amicizia.
Giorgio Marcello
Su questo Gianni (un nostro amico psichiatra) ci potrebbe intrattenere per ore.
Pio Parisi
L’ostacolo a vivere e a promuovere questo cercare di stare dentro le situazioni è il fatto che si sono sviluppate tante teorie di interventi stando dal di fuori, interventi fatti a tavolino. Sarebbe importante anche una critica di quello che viene proposto per affrontare il disagio della gente. Una critica non per abolire quelle cose, ma per metterle al posto loro. Nel mondo universitario, e anche più in generale, le cose a tavolino vengono considerate più importanti.
Giorgio Marcello
E' uno stile che emerge anche dalle vicende relative all’attuazione di alcune leggi. Si pensa che esercitare la responsabilità soprattutto nei confronti dei più piccoli e dei più poveri significa avere il potere di governare il cambiamento, anche intervenendo nei processi di produzione normativa. Ora, che una società abbia bisogno di questi strumenti è assolutamente innegabile, non possiamo vivere senza regole; ma pensare di promuovere e di realizzare il cambiamento sociale semplicemente attraverso degli esercizi di ingegneria giuridica mi sembra proprio fuori dalla storia.
Basta pensare alle vicende relative ad alcune leggi importanti, come la 285, oppure alla legge sulla riforma scolastica, o, ancora, alla nuova legge sul riordino dei servizi socio-assistenziali. Si tratta di prodotti raffinati dal punto di vista delle tecniche di costruzione normativa. Quello che manca è la visione delle cose dal basso per usare un linguaggio che semplifica, ma ci consente di capirci. Manca il vissuto, l’aderenza profonda e cordiale ai fatti che poi sono quelli che vive la gente.
Nel caso della scuola mi sembra sia totalmente mancato l’ascolto degli insegnanti, per esempio, il cui contributo non poteva essere sollecitato solo attraverso questionari o letterine fatte pervenire scuola per scuola dal ministero. Era un altro l’intervento che bisognava pensare per promuovere una partecipazione responsabile dal basso.
Nel caso della legge sul riordino dei servizi socio-assistenziali, mi pare che sia stato costruito un modello di intervento che è tutto centrato sulla capacità degli uffici dei servizi sociali del territorio di promuovere la elaborazione e la realizzazione di progetti - mettendo insieme tutte le risorse (anche sociali) presenti nei vari contesti - e poi di coordinare tutto questo armamentario di interventi. La situazione cosentina, calabrese e meridionale in genere non mi pare che sia strutturalmente idonea a reggere questo tipo di meccanismo.
Ritorniamo sempre al discorso di “spirito e strutture”. E’ come se la legge facesse appello al funzionamento di strutture che esistono ma che non sono al momento adatte, che non esprimono un funzionamento fisiologico.
Pio Parisi
Il concetto dei rapporti fra spirito e strutture, azione sullo spirito e sulle strutture. L’azione sullo spirito sarebbe l’amicizia, il condividere, lo star dentro le cose. E’ quello che fa veramente crescere la società. Le strutture sono una condizione: bisogna pure preoccuparsi di cambiare le leggi, le istituzioni, le strutture, ma la vera sorgente della crescita è l’amore che si esprime nella condivisione, nello star dentro le cose, e quella è la vera politica, rivolta alla crescita della coscienza politica.
Giorgio Marcello
E’ l’esperienza consapevole e anche sofferta dei limiti che lo stare assieme comporta, e che noi chiamiamo con i termini: marginalità, disagio, sofferenza sociale.
Pio Parisi
Quando parli di disagio sociale, quale ne sarebbe la definizione?
Giorgio Marcello
E' come dire sofferenza sociale, oppure esperienza di limite che dipende dal funzionamento della società, che deriva da un indebolimento dei rapporti sociali. E’ uno stato, una condizione, non è una situazione momentanea.
Pio Parisi
L’esperienza dei limiti. Ma c’è l’ignoranza dei limiti, la presunzione di poter passare sopra ai limiti. La legge dice che tutti devono fare così passando sopra ai limiti che hanno i servizi sociali. Tutto si può ricondurre a dire che l’essenziale è la vera umiltà e questo introduce il discorso sulla fede.
Giorgio Marcello
Un colpo abbastanza duro al deperimento della coscienza politica è venuto anche dalle trasformazioni che ci sono state nel corso degli ultimi anni nel mondo del lavoro sociale. Lo sviluppo dell’impresa sociale, del Terzo Settore, della cooperazione sono accompagnate da un’ideologia che ha sussunto senza filtri il linguaggio del marketing, del management. Il linguaggio aziendalistico sta esercitando una forza seduttiva impressionante sul mondo del lavoro sociale. Basti pensare al fatto che la formazione degli operatori oggi è quasi esclusivamente impostata con riferimento ai criteri della razionalità organizzativa e del mercato.
Il passaggio dal volontariato alla cooperazione, e poi all’impresa sociale, ha determinato una sottolineatura sempre più marcata del primato della competenza rispetto alla condivisione. Gruppi sempre più numerosi si specializzano per affrontare un tipo di emergenza sociale e lo fanno fino a quando l’interlocutore pubblico garantisce la contribuzione economica, ma accade sempre più spesso che quando si blocca un canale di finanziamento e se ne apre un altro che magari fa riferimento ad un altro tipo di bisogno sociale, lo stesso gruppo - che per esempio prima si occupava di tossicodipendenti - fa un lavoro di riconversione interna e si mette a fare interventi totalmente differenti. Capita anche questo, con una logica che non è quella della condivisione dal basso ma dell’affinamento delle competenze per intervenire in maniera professionale sul bisogno.
Nella stragrande maggioranza dei casi questi soggetti dell’economia sociale o del terzo settore dipendono totalmente dal pubblico, per cui possono operare solo se l’interlocutore istituzionale garantisce il pagamento di queste prestazioni. Da un lato c’è un soggetto istituzionale che si ritrae sempre di più dalla gestione diretta dei servizi sociali, dall’altro un numero sempre maggiore di soggetti dell’economia sociale che intervengono per gestire questi servizi.
in questo quadro, la "terzietà" del terzo settore non è molto evidente: in realtà si tratta di gestori privati di servizi pubblici, in una situazione di progressiva deresponsabilizzazione del soggetto istituzionale e di pressoché totale dipendenza di queste realtà organizzate (del cosiddetto terzo settore) dal pubblico.
Questo tipo di scenario mi sembra che sia l’esatto contrario di un lavoro teso a far maturare una coscienza politica. I gruppi che operano in questo modo non lavorano tanto per fare scomparire il bisogno o per promuovere una partecipazione corale, un’assunzione comunitaria delle situazioni di disagio sociale; al contrario, mi sembra che maturino sempre più un atteggiamento autoreferenziale, lavorando per autoriprodursi. E questo è anche comprensibile quando ci sono operatori che devono pur campare, per cui l’interesse è sempre meno rivolto a capire, a ragionare sulle cause che scatenano i problemi, a favorire una molteplicità di apporti. L’interesse è quello di intercettare un certo tipo di bisogno, organizzare un servizio e tenere legami con le istituzioni che siano tali da garantirsi i finanziamenti. Tutto questo senza esprimere giudizi o demonizzare nessuno, ma mi pare che questo percorso non favorisce la mobilitazione, non fa crescere la consapevolezza collettiva di come vanno le cose e soprattutto non favorisce un atteggiamento di responsabilità diffusa.
Pio Parisi
Forse sviluppa anche tutto un potere, una gerarchia. Penso ad esperienze associative dove a questi orientamenti corrisponde una direzione sempre più accentrata.
Giorgio Marcello
Un potere enorme di chi sa fare i progetti e sa intercettare i flussi di finanziamento. Ormai nei gruppi più grossi ci sono persone che vengono pagate e che si specializzano solo per fare questo: scrivere progetti di intervento in grado di intercettare i finanziamenti; e poi costoro individuano anche i profili delle persone che devono essere contattate, assunte, formate e messe a lavorare con un processo che è tutto discendente e non di costruzione dal basso di un cammino. E in questo quadro il povero diventa l’utente.
Pio Parisi
La tua esperienza sul primato della crescita di una coscienza politica popolare, illumina e conforta; cercheremo di approfondirla ulteriormente. Ora ho un vivo desiderio di conoscere qualche cosa della tua esperienza di fede in Gesù Cristo e del Mistero della sua morte e resurrezione.
Hai parlato di esperienza di limite. Tutti fanno questa esperienza ma non tutti l'accettano. Alcuni cercano scappatoie per non pensarci e non doversi confrontare con essa. Altri si ribellano e si limitano a sfogarsi in modo violento. Chi accetta in verità e umiltà la condizione umana fa esperienza del mistero che dispone ad accogliere il Mistero Rivelato, quello che viene da un Altro che ci svela il senso profondo delle cose.
Alimentato dal Vangelo, dalla Buona Notizia dell'Amore di Dio, nonostante i limiti miei e altrui, posso continuare a resistere a ciò che non posso dominare o eliminare.
Giorgio Marcello
Nella mia esperienza personale, e in quella delle persone con cui vivo più a contatto, c’è stata una specie di circolarità, nel senso che abbiamo cominciato a porci il problema di un intervento sociale collettivo a partire da una ricerca di fede, da un’esperienza di ascolto della parola di Dio (guidata in maniera decisiva da p. Pino Stancari). In tale contesto è maturata l’esigenza di dare dimensione "carnale" alla ricerca che andavamo facendo. C’era la lettura biblica, c’era la ricerca personale di senso e c’era un bisogno di radicamento nel territorio.
La circolarità sta nel fatto che il percorso di radicamento che abbiamo intrapreso ci ha riportati al primato della fede e della Parola. L’esperienza del limite altrui ma anche di quello personale può fondare un’azione personale e collettiva di resistenza nella misura in cui si sta di fronte a questo Mistero di accoglienza che è Gesù.
Non ho le parole per dirle meglio queste cose….
Pio Parisi
Puoi parlare di qualche situazione.
Giorgio Marcello
Sono undici anni che stiamo lavorando sul territorio e, se dovessimo ragionare su quali cambiamenti ha prodotto lo sforzo, per certi versi anche immane, di tanta gente che negli anni si è accostata e ha dato una mano, dovremmo riconoscere che dal punto di vista concreto le cose non sono cambiate di molto. Anzi, l’impressione è che le forme del disagio si vadano sempre più radicalizzando. Le situazioni di sofferenza vanno sempre più aumentando, e noi ci troviamo sempre più coinvolti in queste situazioni fino al collo: certe volte abbiamo l’impressione di essere come quel pugile suonato che non sa più da dove gli arrivano i colpi.
In una situazione del genere potrebbe anche essere comprensibile l’atteggiamento di chi dice “mi sono fatto la mia bella esperienza di lavoro sociale nelle situazioni più compromesse, ora guardo altrove”. Sarebbe anche comprensibile. Per cui penso che la forza, le motivazioni per resistere, personalmente e collettivamente, ci possono venire soltanto se guardiamo nella direzione del Mistero di Gesù che salva attraverso il limite. Di qui il valore provvidenziale, salvifico del limite, del limite delle persone, dei limiti che presenta la convivenza tra le persone, delle violenze che si sprigionano nei vissuti della convivenza umana. Penso che la luce per accettare queste contraddizioni ci può venire solo dalla contemplazione del Mistero Pasquale. Diceva il card. Martini che lo Spirito si muove, passa inosservato, e danza anche nelle situazioni dove sembra non ci sia e forse è questo che ci aiuta a resistere, la consapevolezza che la salvezza per il mondo passa attraverso la debolezza estrema assunta da Gesù e che si manifesta anche in quelle situazioni concrete che viviamo tutti i giorni. Situazioni che a prima vista sembrano inguardabili, assolutamente inaccettabili, ma lo Spirito sta pure lì.
Pio Parisi
Qualche considerazione che possa aiutare chi ascolta, a entrare nella concretezza di queste situazioni.
Giorgio Marcello
Mi viene in mente la situazione di P. Il padre è morto, la madre è giovanissima, ma vive una vita un po’ disordinata e questo ragazzino di nove anni che da otto e mezzo sta in istituto e che ora è completamente esploso nel senso che per molti tratti della giornata è assolutamente ingovernabile, non si riesce a tenerlo a scuola, non si riesce a tenerlo nei gruppi dove ci sono altri ragazzi, scappa in continuazione dal collegio. Nei quindici giorni prima di Natale siamo stati con lui ventiquattro ore su ventiquattro, ma al momento non riusciamo ad intravedere una soluzione. Gli esperti ritengono che non siamo di fronte ad una patologia, ma ad una sofferenza che viene gridata in forme sempre meno sostenibili da chi gli sta attorno. Un nostro amico psichiatra dice che è come se egli stesse sfidando gli adulti per selezionare chi se la sente di reggere la sfida.
E poi tantissime storie di ragazzi che abbiamo cresciuto e che poi sono finiti in galera; di famiglie che dall’oggi al domani si sbriciolano; e, ancora, storie di dipendenza dall’alcool, dalla droga. Ormai è evidente che queste forme di sofferenza, di marginalità si presentano con un carattere sempre più pervasivo. Siamo sempre più di fronte a forme diffuse di marginalità, non ad episodi singoli, circoscrivibili. Tutto un contesto si va degradando, tutto un tessuto sociale si va sfilacciando. E allora è sempre più chiaro che l’azione del singolo, della singola persona, della singola famiglia, del singolo gruppo è utile e preziosa ma è sempre meno sufficiente.
Pio Parisi
Queste situazioni che ti stanno coinvolgendo sempre di più come influiscono, positivamente o negativamente, sulla tua fede in Gesù Cristo, nella comunione ecclesiale?
Giorgio Marcello
Certe volte mi sembra che oggi l’unica lettura possibile del disagio sociale - che sia in grado di sostenere un atteggiamento di resistenza personale e collettiva - sia una lettura di fede. E' una lettura che ci aiuta a guardare queste cose nella luce della kenosi (vedi Fil 2), e che non soltanto ti sorregge ma ti dà anche motivi per sperare, motivi di gioia.
Pio Parisi
Ti chiedo ora una cosa difficile ma che può essere molto utile: comunicare qualcosa di come vivi la fede nella preghiera, nella contemplazione, nel servizio dei piccoli e dei poveri. Penso che tante persone vivono autentiche esperienze spirituali ma abbiano difficoltà a comunicarle per una sorta di pudore spirituale, che è ben comprensibile e spesso opportuno, ma che in qualche modo va superato. Accade che si sia portati, più che a comunicare le proprie originali esperienze, a ripetere dei discorsi fatti da altri, già formulati, ed in cui uno si riconosce. Anche questo è valido. L'essenza della Chiesa non è forse la comunione e la relativa comunicazione della fede nel Mistero Pasquale?
"Parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali". (Cor. 2, 13) Confrontiamo le nostre esperienze ecclesiali con tutto questo splendido secondo capitolo della 1° Lettera ai Corinzi.
Giorgio Marcello
Sono cose di cui è difficilissimo parlare. Posso dire cosa succede a me. Un riferimento essenziale è la parola di Dio, e noi abbiamo la fortuna grande di avere incontrato chi la Parola ci aiuta a spezzarla. L’aiuto di p. Pino è preziosissimo, il lavoro che lui ha fatto con noi in questi anni è stato fondamentale: nella nostra preghiera personale è entrato il riferimento quotidiano, feriale, sistematico alla parola di Dio, che diventa una fonte di consolazione incredibile soprattutto nei momenti in cui si fa esperienza del limite.
Un’altra cosa che mi riesce ancora più difficile spiegare è che andando avanti nell’esperienza, quanto più ci si radica in "periferia" tanto più succede che tra i momenti che sono consacrati alla preghiera (la mattina le Lodi, la partecipazione all’Eucarestia, il confronto con la Parola) e la vita concreta spesa con i ragazzini, per strada, a fare le cose che tu sai, mi sembra ci sia sempre meno soluzione di continuità. Mi succede di pregare e di rivolgermi a Gesù, di orientarmi verso il volto Suo, di stare alla Sua presenza sia quando ho la Bibbia in mano o quando prego le Lodi o i Vespri, che quando lavoro con i ragazzini. Non so se c’entra con quello che tu chiedevi.
Pensando alla ricerca di tipo più spirituale, mi verrebbe da dire che è come se questa ricerca stesse erodendo sempre di più gli spazi della mia vita interiore. Succede sempre di più che è Lui il riferimento della mia vita e la stessa cosa mi succede con i ragazzini, con le persone che incontro. Anche queste presenze sono presenze che occupano in maniera sempre più decisa gli spazi della mia vita interiore. Il momento dell’incontro con gli altri (che è soprattutto quell’ incontro che avviene quando lavoriamo nei quartieri, con i ragazzi) invera la ricerca di fede e, nello stesso tempo, fa riaffiorare con forza l’esigenza di guardare nella direzione del Signore. E tutto ciò all’interno di un percorso interiore che non mi pare abbia delle soluzioni di continuità.
Questo è il massimo della chiarezza che riesco ad esprimere in questo momento.
Pio Parisi
Provo a sollecitare ancora la tua comunicazione spirituale sperando di non guastare tutto con eccessive sottigliezze.
Il riferimento alla parola di Dio, la cui ricchezza è insondabile ed inesauribile, può avvenire in tante forme diverse. Con l’aiuto eccellente di Pino Stancari ognuno può, guidato dallo Spirito, cogliere aspetti diversi del Mistero rivelato.
C’è chi è attratto soprattutto dal Mistero di Dio che si rivela nel suo disegno di salvezza universale in Gesù Cristo: “il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef. 1, 10). Probabilmente ricorrerà spesso a S. Paolo, che pure non parla delle parole e dei fatti del Signore nella sua vita terrena.
Altri cercano soprattutto un rapporto personale con l’umanità del Signore come possiamo conoscerla nella lettura dei Vangeli. E’ chiaro che non c’è alternativa fra questi diversi approcci e innumerevoli altri in cui possiamo essere guidati dallo Spirito. Mi colpì in Teilhard de Chardin la chiarezza con cui affermava che la contemplazione del Cristo cosmico, a cui dava grandissima importanza, staccata dalla fede nella storicità del Signore, sarebbe stata campata per aria.
Nel tuo coinvolgimento con i piccoli, i poveri, i sofferenti e il disagio sociale puoi indicare qualche direzione in cui sei attratto dal Mistero di Dio?
Giorgio Marcello
Ci sono dei "luoghi" nel Nuovo Testamento, degli aspetti della vita, della predicazione di Gesù che mi porto nel cuore e che sono sempre fonte di consolazione. Penso a Gesù davanti alla tomba di Lazzaro, al suo pianto e al fatto che la restituzione della vita a Lazzaro comporta la sua condanna a morte. Muore per un amico.
Un altro luogo importante per me è l’episodio della moltiplicazione dei pani: Gesù si rivolge ai discepoli preoccupati per la folla sterminata che si era riunita; mentre essi erano presi da preoccupazioni di tipo logistico, Gesù interviene e dice: “date loro voi stessi da mangiare”, dove quel “voi stessi” è al tempo stesso soggetto e oggetto. Date voi stessi nel senso di “distribuite voi”, ma “date voi stessi” anche nel senso di “mettetevi in gioco” in prima persona.
C’è poi tutta la teologia paolina del Corpo Mistico come fondamento di qualsiasi discorso e qualsiasi pratica di accoglienza. Ogni contatto con il mondo, ogni relazione, ogni incontro, ogni percorso di vita, prende un senso pieno alla luce del Corpo Mistico di Cristo, che è fondamento della comunione vera, è la radice essenziale della fraternità.
Penso che con il riferimento al Corpo Mistico noi capiamo bene che la fraternità e anche la politica, nel senso che tu ci hai insegnato a dire in questi anni, sono possibili nella misura in cui riconosciamo che l’iniziativa è Sua e che questo disegno nel Corpo di Gesù è già realizzato. Il disegno di riconciliazione tra Dio e gli uomini, di ricomposizione dei rapporti fraterni, nel Corpo Mistico è già compiuto e noi siamo chiamati a riconoscerlo.
Mi vengono in mente le riflessioni su questo punto di p. Corradino, il quale dice che "il corpo di Cristo offre al mondo una ospitalità illimitata; in quel corpo la distanza tra Dio e il mondo viene eliminata", e aggiunge che "nei confronti del singolo e delle società umane opera una chiamata che non ha mai fine, e la Chiesa è la traccia visibile di questa chiamata".
Pio Parisi
Purtroppo non si sente più parlare molto di Corpo Mistico.
Penso sia importante aiutare e servire la comunicazione di come si vive la fede, le difficoltà che si incontrano e i frutti spirituali che si raccolgono, non per governare e dirigere, dall’alto o dal basso che sia, ma per essere docili allo Spirito. Crediamo infatti che lo Spirito di Dio “riempie l’universo” e noi siamo chiamati ad adorarlo e riconoscerlo presente e operante, come dice Martini nel testo che tu hai già citato.
Penso per esempio alle devozioni più o meno popolari. Mi hanno colpito alcune affermazioni di P. Benedetto Calati nell’ultimo incontro che tu ed io avemmo con lui nel mese di settembre 2000, circa la riduzione della fede a devozione. Avrei voluto chiedergli molte spiegazioni. Ora ci sono i suoi scritti… e i suoi confratelli. Al tempo stesso ho molto presente quel che ho sentito anni fa da Pino Stancari sul valore della devozione, diffusa in Calabria, alle Sette Piaghe del Signore, come esperienza del Mistero Pasquale e sulla devozione alla Madonna del proprio santuario e del proprio paese, in cui il popolo coglie il Mistero profondissimo dell’amore che Dio ha per ognuno di noi.
Il discernimento spirituale di queste realtà mi sembra importantissimo non solo per la cura pastorale ma anche per la nostra vita di fede, insidiata sempre dalla tentazione di giudicare o almeno ignorare i fatti reali dello Spirito.
La Chiesa è comunità che ascolta la parola di Dio: c’è chi la percepisce in un modo e chi in un altro e mediante la comunicazione ci si conforta e si capisce meglio. Ricordi l’importanza che P. Benedetto dava al n. 8 della Dei Verbum? Ridurre la Chiesa a un insegnamento di dottrina che parte dall’alto e arriva al più piccolo catechismo, parrocchiale e domestico, sotto la garanzia della congregazione per la dottrina della fede, sarebbe come un’anemia perniciosa. Il pericolo penso sia oggi molto forte.
E la comunicazione di fede, essenza della Chiesa, è comunicazione di esperienze del Mistero infinito. Il Mistero di cui tanto parla S. Paolo, il Mistero di ogni parola e di ogni fatto del Signore di cui parlano i Vangeli, il Mistero di tutta la Bibbia.
Giorgio Marcello
Il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose è un disegno globale.
Pio Parisi
Le vie sulle quali ci si converte al Mistero infinito di Dio sono innumerevoli: ognuno va per la sua via e ci sono vie in cui molti si ritrovano. E’ un segno delle inesauribili ricchezze di Cristo. Quando però pensiamo che la nostra via personale o di gruppo sia l’unica o la migliore per tutti è un segno chiaro che non siamo più guidati dallo Spirito. E’ forse impossibile che dei cristiani dichiarino esplicitamente che la loro è l’unica via, ma nel loro modo di proporsi manifestano chiaramente di ignorare tutto ciò che è diverso dalla loro esperienza. Ignorano, negano, si contrappongono, sfasciano l’unione, non quella che secondo lo spirito del mondo fa la forza dei cristiani, ma quella decisiva con il Signore che ci salva nella estrema debolezza.
Giorgio Marcello
E’ una riproposizione di forme un po’ clericali.
Pio Parisi
Se crediamo nel Signore dovremmo cercare di vivere in modo da essere per tutti testimoni di Lui. Ma ci sono tante persone serie e profonde che si dichiarano non credenti. E ci sono tanti piccoli che non credono. Sembrano proprio fatti per il Vangelo e il Vangelo è fatto per loro. Però non credono. Qual è l’ostacolo? Siamo noi, i cristiani, la Chiesa che non è trasparente?
Giorgio Marcello
Questo discorso ci porta diritti diritti verso il tema della povertà che mi pare un altro aspetto essenziale di una fede battesimale.
Pio Parisi
Ti chiedo la fatica di esporre la tua esperienza di povertà in cui vedo confluire tante esperienze del passato e del presente della vita della Chiesa, in una sintesi nuova e singolarmente rispondente ai bisogni attuali dell’umanità.
Questa tua esperienza che parte dall’ascolto della Parola la vivi in una dimensione comunitaria autenticamente ecclesiale e penso che molti vi si riconoscerebbero nelle loro aspirazioni più profonde.
Ti invito a raccontare nello spirito del “Magnificat”.
Se per questo devi sottrarre un po’ di tempo ai tanti piccoli che hanno bisogno di te, pensa che la comunicazione della tua esperienza può essere un grande servizio alla tua Chiesa che è chiamata a diventare piccola per essere lievito e sale evangelico.
Giorgio Marcello
Per la vita di fede mi sembra un aiuto notevolissimo. Come proporla? Faccio una fatica tremenda a parlarne, e poi mi sento sempre sguarnito e bisognoso di aiuto.
Pio Parisi
Gli elementi che caratterizzano questo tipo di povertà?
Giorgio Marcello
Per esempio, andando proprio sul concreto, passo gran parte del mio tempo a scuola e non sono insegnante, anche se faccio molte cose che potrebbero essere ricondotte al mestiere dell’insegnante, spesso anche di mattina, nelle ore di scuola, quando lavoriamo con i ragazzi che hanno difficoltà a stare nelle rispettive classi.
Pio Parisi
L’insegnante di sostegno per i ragazzi handicappati?
Giorgio Marcello
No, per i ragazzi nostri, quelli che vivono situazioni di difficoltà di altro genere non riconducibili ad un handicap di tipo fisico. Situazioni di disagio socio-culturale: così sono classificati i nostri ragazzi: disagiati dal punto di vista socio-culturale.
Poi mi capita di passare molto tempo a leggere e studiare, ma non sono un intellettuale o uno studioso di professione.
Faccio una vita povera e da celibe, ma non sono un religioso.
Dentro questa situazione ci sono delle difficoltà a definirsi, difficoltà legate appunto al fatto di non essere inquadrato in nessun ruolo né nella società né nella chiesa, ma nello stesso tempo mi sembra che ci sia anche una libertà che non è disprezzabile. Nella interazione con le scuole, per esempio, il fatto di stare così nella scuola ci ha permesso di promuovere iniziative, riflessioni, confronti, esperienze formative che probabilmente non sarebbero state possibili se noi fossimo stati meno liberi.
Pio Parisi
Da quanto hai già scritto e da quello che conosco della tua vita ricavo qualche aspetto della tua povertà su cui ti chiedo di comunicare la tua esperienza.
Giorgio.
Sono rimasto a lungo perplesso di fronte al tuo invito a comunicare la mia esperienza. Forse per un fatto di pudore. Ma soprattutto perché la tua richiesta mi costringe ad esplicitare ancora più chiaramente il senso, le motivazioni profonde che hanno orientato la mia ricerca. E questo è un esercizio sempre complicatissimo.
Da undici anni a questa parte, da quando è cominciato il cammino dell'associazione a cui appartengo, credo di non aver fatto altro che cercare il Signore, con tanti limiti, resistenze, pesantezze, ma anche con tutta l'onestà interiore di cui sono capace. L'ho cercato nell'ascolto della sua Parola, nell'Eucarestia, nella preghiera personale, spesso sciatta, ma incessante. Ho vissuto e vivo alla sua presenza, e mi sento sempre bisognoso di accoglienza e di perdono.
A un certo punto, ho avvertito il desiderio di provare a vivere il Vangelo lavorando in mezzo alla gente. Per cui, insieme ad altri amici, mi sono guardato attorno cercando di capire di cosa ci fosse più bisogno che io e gli altri potessimo fare. Così ho cominciato ad operare nei quartieri del centro storico della mia città, con i bambini, le loro famiglie e le scuole da loro frequentate. Nel corso degli anni tale impegno è andato via via crescendo, e da tanto tempo ormai mi assorbe totalmente. Cerco, insieme con altri, di portare avanti questo servizio con spirito di povertà e gratuità. Non percepisco alcuna retribuzione, anche se nulla mi manca di quanto è necessario per vivere.
In compagnia delle persone con cui lavoro e dei tanti piccoli incontrati sulla strada, ho fatto esperienza di che cos'è la bellezza che può dare senso e sapore alla vita. La bellezza di amicizie che nascono e si consolidano, di legami che si stringono. La bellezza che sta nel sentimento della reciproca appartenenza. Più che puntare ad organizzare dei servizi efficienti, abbiamo tentato di vivere assieme alle persone che abbiamo conosciuto, cercando di condividere la vita, di costruire relazioni fraterne.
Oggi l'associazione, pur essendo rimasta una piccola aggregazione, è tuttavia impegnata su molti fronti. Le cose da fare crescono progressivamente. Cresce anche l'esigenza di dare un carattere di maggiore stabilità e sistematicità ai tanti servizi messi in piedi. Cresce il bisogno, cioè, di meglio organizzare e strutturare le diverse iniziative in atto. Si tratta di un percorso inevitabile, che va affrontato. E' la stessa responsabilità nei riguardi delle persone di cui ci siamo fatti carico che ci spinge in questa direzione. Con questa responsabilità bisogna fare i conti, se si vuole evitare che la capacità operativa dell'associazione si atrofizzi e si spenga. Al tempo stesso, comincia ad emergere, da parte di qualcuno, la disponibilità ad impegnarsi a tempo pieno nelle diverse attività associative. Sono disponibilità che vanno riconosciute, accolte, valorizzate e sostenute, anche economicamente. Sono, infatti, disponibilità preziosissime, indispensabili per realizzare quella stabilità e sistematicità di presenza e di servizio di cui si diceva.
Posto di fronte a questa direzione di marcia che si intravede, mi sento sollecitato a mettere ancora meglio a fuoco le motivazioni e il senso della mia ricerca (ovvero, come diresti tu, il modo in cui il Signore mi ha cercato e continua a cercarmi).
Man mano che cresce il bisogno di organizzare il lavoro associativo, personalmente non riesco a vedermi nella parte dell'operatore di un servizio strutturato. Avverto invece con forza la spinta ad "andare oltre", se così si può dire, continuando a cercare con altri "ciò di cui c'è più bisogno che insieme possiamo fare". A cercare, cioè, di sintonizzarsi, con le situazioni di sofferenza evidenti e, soprattutto, con quelle più nascoste. Sono convinto che la ricerca di nuove zone da esplorare per il lavoro sociale costituisca uno degli aspetti essenziali del volontariato, nonché il fondamento di qualsiasi altra forma di impegno sul territorio.
Inoltre, mi sento sempre più attratto verso quel servizio (politico), povero e gratuito, orientato a favorire la crescita di una coscienza politica, ovvero la maturazione di un atteggiamento interiore di apertura e attenzione responsabile verso tutto e tutti, soprattutto verso i più piccoli e poveri, e di comprensione profonda, "dal di dentro", delle situazioni di ingiustizia, di povertà e dei meccanismi che le scatenano. Credo che questo impegno richieda la disponibilità a radicarsi in periferia, ai margini della città, provando a costruire dal basso relazioni comunitarie e fraterne, e - nello stesso tempo - ad affrontare la fatica umile di riflettere, di collegarsi e confrontarsi con altre esperienze, di favorire l'ampliamento e l'approfondimento di questo confronto.
Desidero convertirmi, con tutta la chiesa, alla povertà del Signore, che si rivela nella sua compassione che salva il mondo.
Chiedo e desidero vivere il dono della povertà, intesa non solo come condizione sociale ed economica, ma come modo di guardare il mondo e di stare nel mondo.
E' la povertà che coincide con il "sentimento della piccolezza" di cui parla san Paolo nella lettera ai Filippesi, quando invita ognuno di noi a "considerare tutti gli altri superiori a noi stessi", cioè a riconoscere il valore di tutte le creature (in quanto appartenenti al Signore) e ad apprezzarle come dono per noi.
Ed è la povertà che si esprime nella scelta di stare, da piccoli, accanto ai minores, seguendo l'invito che Francesco d'Assisi rivolge ai suoi compagni, i quali "devono essere lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, tra infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada" (Regola non bollata, IX).
Questa povertà desidero per me e per la chiesa, oggi più che mai chiamata a perdersi e a disperdersi nel mondo, come il lievito nella pasta.
3. Lettera invito a scrivere su Pino Trotta – 6 settembre 2005
Carissimi Graziella, Giovanni Bianchi, Mario, Fabio, Giovanni Napolitano e Francesco Verducci, nell’incontro del 21 marzo a Sesto ci siamo proposti di scrivere ognuno qualcosa su Pino, comunicando fra di noi per poi eventualmente pubblicare.
Ho scritto qualcosa che mi affretto a comunicare, sperando di stimolare il vostro lavoro, ma soprattutto per avere un parere su quanto mi è venuto in mente su quel che ho trovato di più significativo nelle cose che Pino mi aveva scritto.
Con affetto, stima e tanta amicizia nel ricordo di Pino
P. Pio Parisi s.j.
6 settembre 2005
Pio Parisi – Pino Trotta
I PARTE
Penso a Pino e scrivo di lui. Cerco di farlo alla sua presenza che è molto più che immaginare di essere a colloquio con lui, come ho fatto tante volte in luoghi e situazioni sue e mie tanto diverse. Vivere oggi alla presenza di Pino significa un richiamo alla serietà con cui trattava tutti i problemi di cui si parlava, serietà del ragionamento e dell’impegno relativo, mai dilettantistico, non musone, piuttosto gioviale, deciso nelle polemiche ma non violento, mai banale.
Pensare e scrivere alla presenza di Pino significa per me continuare ad essere sostenuto dal suo incoraggiamento: posso tranquillamente affermare che è la persona che più mi ha aiutato a riflettere e a comunicare in tempi in cui quello che mi veniva alla mente e al cuore sembrava non interessasse a coloro ai quali pensavo che fosse più importante dirigermi. In questo debbo doverosamente accostare Pino al mio grandissimo fratello maggiore Mario Castelli.
Il tema centrale della mia riflessione è la fede, quella di Pino in particolare, quella della Chiesa e quello che lo Spirito opera in tutte le persone: “Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo, egli che tutto unisce, conosce ogni linguaggio, alleluia” (Antifona di Pentecoste).
Per questo comincio pensando e comunicando qualche cosa di ciò che la fede è in me, certamente non per proporre un modello a chicchessia.
I sensi e i sentimenti, la ragione, la scienza, la tecnica potrebbero bastarmi, mi ci troverei bene pur con le mie grandissime limitazioni. Una massa di relazioni non mi inquietano perché mi sembrano proporzionate alla mia natura umana, al mio essere persona. E così penso sia per molti.
Eppure c’è in me una domanda che mi inquieta: quale è il senso di tutto questo? Tutto non ha né capo né coda. Questa domanda inquietante diventa un grido angoscioso quando dentro di me si fa un po’ di silenzio, per lo più a seguito di qualche distacco da progetti, iniziative e persone, e molto più quando sono in comunione con tutta l’umanità. Allora “Dai confini della terra io t’invoco; mentre il mio cuore viene meno” (Salmo 61).
La religione, quella cristiana in cui sono nato e cresciuto profondamente radicato trovandomici bene sotto tanti aspetti, mi va bene, è la bellezza che più riesco ad apprezzare al di sopra di tante altre realtà belle ed amabili. La religione mi dà la pace e mi stimola alla ricerca in campi sconfinati, mi fa prendere coscienza di tanti miei limiti, di tanti peccati – anche se questo termine oggi andrebbe molto chiarito, quanto è possibile – e poi dei limiti della Chiesa come istituzione con la sua gerarchia. C’è comunque la speranza della mia conversione e di quella della Chiesa che non mi abbandona.
Eppure c’è in me un’inquietudine profonda perché anche tutto questo non ha né capo né coda.
La religione stessa, per me quella cristiana in particolare, mi affaccia sul mistero, su qualcosa che non si spiega, che non è per me, anche se provo per esso nel più profondo un’invincibile attrazione doppiata dalla repulsione. La religione mi affaccia sul mistero che rimane al di là di me, anche se mi attraversa ed avvolge tutto in me, attorno a me, nel mondo, nell’universo.
Così mi sembra di essere introdotto alla fede come adorazione silente del Mistero Infinito che ci è rivelato in Gesù Cristo.
“Notte, tenebre e nebbia
fuggite entra la luce
viene Cristo Signore.
Il sole di giustizia
trasfigura ed accende
l’universo in attesa”
(Inno di Lodi)
Riflettendo sui miei rapporti con Pino mi viene alla memoria il fatto che quando lui mi indicava dei temi da approfondire per i quali io mi sentivo inadeguato, data la mia limitatissima preparazione culturale, gli dicevo che l’unica cosa che mi spingeva a pensare e a scrivere era quella di “intervenire”. E poco dopo la morte di Pino mi è venuto in mente di scrivere qualche riga intitolandola “un evento e un intervento”.1
Intervento in che cosa? Nella storia del mondo. Può sembrare il più folle degli obiettivi, ma non saprei trovare un altro; mi succede da tantissimo tempo. Sono persuaso che la storia del mondo è storia di salvezza. E’ evidente che l’intervento non può aspirare ad altro che ad essere una piccola goccia, non come in genere si dice in un oceano, ma in un grandissimo fiume, dalla portata incommensurabile, che va in una determinata direzione.
Per questo mi sembra di dover cominciare a riflettere o meglio, se mi riesce, a contemplare lo scorrere, lento o vorticoso, della storia umana.
Il fiume scorre, lento e vorticoso, lento nella sua immensa portata e per la lunghezza del suo percorso, vorticoso nell’esperienza di ognuno di noi.
In che direzione va? In tutte le direzioni, le sue acque si accavallano e si contraddicono, scompaiono sotto terra e poi riemergono non di rado sovrastate dal fuoco della violenza. Gli studiosi percepiscono delle svolte e dei tempi di crisi, il pover uomo si trova ogni giorno la strada sbarrata e poi qualche buon vento e qualche discesa che facilitano il cammino.
“Venga il tuo regno” Il fiume che scorre lento o vorticoso è l’avvento al regno di Dio.
Gesù Cristo “comincio a predicare e a dire: “convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4, 17). Lo stesso evangelista nel cap. 13 riferisce le parabole del regno:
“Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette in riva al mare. Si cominciò a raccogliere attorno a lui tanta folla che dovette salire su una barca e là porsi a sedere, mentre tutta la folla rimaneva sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose in parabole”. (Parabola del seminatore, della zizzania, del grano di senapa, del lievito, del tesoro e della perla, della rete).
E concluse: “Avete capito tutto queste cose?”. Gli risposero: “Si”. Ed egli disse loro: “Per questo ogni scriba divenendo discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”.
Il grande fiume della storia scorre quindi in direzione del regno di Dio, lentamente, nascostamente, non senza ostacoli e correnti contrarie.
La storia umana è storia di salvezza: ecco la grande buona notizia, il Vangelo, e questo in virtù dell’ingresso di Dio stesso in questa nostra storia del modo mirabile descritto da Paolo nella Lettera ai Filippesi al c. 2, 5-11.2
Il dinamismo della storia parte dalla morte e risurrezione di Gesù Cristo ed opera per mezzo dello Spirito Santo che riempie l’universo. Da parte nostra è la crescita della fede per la quale cominciamo a citare la Costituzione conciliare “Dei Verbum”, al n. 8.3
Ecco quello che vorrei contemplare: la crescita della fede nel profondo della storia umana. E poi il significato in questa luce della vita e della morte di Pino.
Contemplazione più di ogni altra affascinante per la sua vastità e la profondità, richiede una mente ed un cuore puro, libero cioè da innumerevoli altre attrazioni che dall’interno di noi stessi e dall’esterno catturano la nostra attenzione.
Contemplazione che si dovrebbe arricchire della storia di tutte le religioni, di tutte le filosofie, di tutte le ideologie, della storia in particolare del cristianesimo e della Chiesa, di tutte le scienze, quelle specialmente antropologiche. C’è poi la ricchezza della fatica umana sempre alla ricerca di quel che è necessario per vivere e per convivere, le gioie e le sofferenze di tutti i piccoli, i poveri e i sofferenti.
La ricerca di una contemplazione tanto vasta suggerisce due cose: il silenzio e l’apporto di tutte le esperienze umane.
Il silenzio interiore. Non molto tempo fa mi sono soffermato su questo tema partendo da un versetto del Salmo 37 “Sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui” (Lettere agli amici, Scriptorium 2003, p. 43 ss). Vado sperimentando sempre di più come questo silenzio sia collegato all’esperienza dell’emarginazione e del non essere ascoltati da tanti a cui ci si rivolge non per un plauso ma per un aiuto e una condivisione spirituale. Anche su questo mi sono soffermato a Pasqua del 2001 (id. p. 91 ss, “La pietra scartata”).
L’apporto di tutte le esperienze umane. Non c’è nulla nella persona umana che non vada ascoltato come un contributo alla crescita della fede, dallo sguardo luminoso del bambino ai suoi molesti eccessi di vivacità, dalle prove estreme dell’amore alle aberrazioni del potere che in ogni modo si vuole difendere e crescere senza misura.
Tutto va ascoltato e quanto è possibile compreso come ricerca, anche se su vie sbagliate, di qualcosa che ci faccia superare la nostra condizione creaturale.
Questa apertura totale richiesta dalla contemplazione della crescita della fede nella storia umana ci fa scoprire un po’ alla volta le numerosissime chiusure che continuamente creiamo nella nostra vita personale, comunitaria e sociale.
Fin da bambini impariamo a dire: “è mio”. E poi anche nei cuori più generosi non scompare, anzi si fa più forte, la tentazione di difendere con ogni genere di recinti i propri beni.
C’è un duplice dinamismo del dono e dell’avidità, del costruire ponti ed erigere muri in tutti i campi, in quello economico fino alle estreme ingiustizie e violenze come in quello spirituale fino a dire questa è la mia verità e guai a chi me la tocca.
A questo punto sento urgente il bisogno di affrontare il tema del possesso della verità da parte della Chiesa. Rileggo il tormento di Geremia nel cap. 20 (vv. 7-10) della sua profezia.4
Gesù, in cui crediamo, ha detto: “Io sono la via, la verità e la vita” (Giov. 14, 6). Crediamo che Gesù è Dio, è l’Assoluto. E noi che conosciamo Gesù, cerchiamo di seguirlo, di imitarlo, di annunciarlo … ma non lo possediamo. La pretesa di possedere Gesù può essere il più grave abuso di potere, l’orgoglio da cui possono nascere tutte le ingiustizie e le violenze.
Non lo possediamo, non possiamo in alcun modo gestirlo e nemmeno donarlo. Gesù possiede noi e nel suo amore senza limiti si dona a noi ma non c’è per questo un passaggio di proprietà.
Paolo parla delle imperscrutabili ricchezze di Cristo (Ef. 3,5). A esse noi attingiamo ma senza esaurirle, senza possederle.
Gesù è la verità ma noi non lo avremo mai capito a pieno. (D.V., n. 8).
Gesù è la verità e non c’è nulla che possa essere aggiunto a lui. Ma la nostra conoscenza di Gesù è sempre limitata e non c’è nessuno che non possa aiutarci a conoscerlo meglio.
Penso dobbiamo fare attenzione a un passaggio delicato. Possiamo pensare che conoscendo Gesù, anche se in modo limitato, possiamo crescere in tale conoscenza con l’aiuto solo di coloro ai quali avremo comunicato la nostra fede e che così potranno aiutarci ad arricchirla. Questo passaggio attraverso la nostra fede non è affatto necessario al contributo che altri possono darci. Anche chi non sa nulla di quello in cui crediamo può partecipare alle imperscrutabili ricchezze di Cristo ed aiutarci a crescere nella nostra fede.
La fede va maturando nell’umanità, verso una pienezza.
Questa affermazione con cui cerco di esprimere una mia convinzione profonda, può essere criticata in molti modi.
Si può cogliere in essa un facile ottimismo e forse un qualche trionfalismo che è smentito da un’osservazione attenta della realtà. Appaiono infatti sempre meno numerosi quelli che si considerano credenti, e fra quanti si professano tali non sembra spesso si vada oltre una religiosità non priva di pratiche, di osservanze, di preghiera per ottenere ciò di cui si sente più forte il bisogno, ma non appare quella piena adesione al Mistero di Dio che è appunto la fede. Specialmente alcune manifestazioni religiose di massa, giovanili e non solo, sembrano fatti belli di emotività da cui non traspare il sentire profondo che è appunto l’esperienza del Mistero di Dio.
A queste osservazioni certamente serie non penso si possa rispondere in modo adeguato con altre osservazioni perché la riflessione richiede di portarsi a un livello diverso di discernimento, quello che parte dall’ascolto adorante della parola di Dio. Comunque si può osservare come non manchi, in alcune circostanze, anche e forse soprattutto nei giovani, il bisogno di trovare un senso alla vita e alla morte, all’amore e alla solitudine, alla gioia e alla sofferenza, alla precarietà più universale che è data dal sentimento del tempo che passa e dell’inevitabile fine dei nostri giorni.
Alla mia affermazione apparentemente ottimistica circa la maturazione della fede sembra che si debba obiettare con la stessa parola di Dio. “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc. 18, 8).
Riguardo all’interrogativo del Signore circa il futuro della fede trova nella TOB la seguente nota: “questa sentenza presente l’apostasia che si svilupperà alla fine dei tempi, tema classico dell’Apocalittica (cf. 2 Ts 2, 3; Atti 24, 10-12)”.
La parabola della zizzania che bisogna lasciare crescere fino alla mietitura (Mt. 13, 24-30 – 36-48) non sembra prospettare una futura crescita della fede verso una conversione universale.
La pienezza della fede , che va maturando a mio avviso nell’umanità, non mi sembra sia esclusa dal crescere contemporaneo del grano e della zizzania. Non penso a una conversione universale visibile ma una misteriosa partecipazione di tutti alla maturazione della fede.
Il problema di fondo mi sembra sia quello di mettere a fuoco come la fede sia esperienza del Mistero di Dio nella esperienza del mistero che attraversa tutta la condizione umana. Ciò avviene per la luce che lo Spirito accende nei nostri cuori.
Se la fede va maturando nell’umanità ciò a cui siamo chiamati, per una sorprendente e meravigliosa vocazione, è riconoscere la presenza operante dello Spirito “che riempie l’universo”, il che non significa affatto chiudere gli occhi sulle resistenze che continuamente costatiamo a partire dall’interno di noi stessi fino alle più dire lotte ideologiche ed economiche.
Tutti partecipiamo alla maturazione della fede.
Nella nostra vita personale e nella comune coscienza ecclesiale abbiamo certamente, in qualche misura, acquisito come anche le esperienze più negative ci possono aiutare a maturare nella fede. La fatica, l’insuccesso, qualche problema piccolo o grande di salute, le innumerevoli delusioni, l’aridità interiore, la percezione viva del tempo che inesorabilmente porta via, insieme ai guai, tante cose che riteniamo belle e buone, ed ogni genere di negatività possono essere stimoli alla purificazione ed alla crescita della fede.
Questa crescita attraverso le diminuzioni che costatiamo in noi stessi possiamo ovviamente riconoscerla in tutti gli altri, uno per uno, e in tutte le realtà comunitarie che crescono e maturano anche, e forse soprattutto, nei momenti di crisi.
Le crisi delle istituzioni, anche quando si concludono con l’estinzione delle medesime, possono contenere e talvolta sprigionare importanti maturazioni della fede. Penso per esempio alla crisi o alla fine di istituzioni religiose, un’associazione, una congregazione, ecc. Si può avere l’impressione che tutto sia finito. Ma per la fede può anche darsi che, insieme alla fine di un sostegno, ci sia anche quello di un laccio: “
“Il laccio si è spezzato
e noi siamo scampati” (Salmo 124, 7)
Finisce l’istituzione ma non finisce lo spirito che l’ha suscitata.
Tutti partecipiamo alla maturazione della fede, non solo quelli che si riconoscono cristiani o anche genericamente credenti. E partecipano alla crescita della fede nel Mistero di Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. E’ questo un punto importante da approfondire per superare i recinti che siamo tanto spesso portati a costruire, anche tra cristiani, senza forse renderci conto di negare in tal modo l’azione universale dello Spirito Santo inviato dal Padre e dal Figlio.
La maturazione della fede che sperimento in me stesso e che non dubito avvenga in tutte le persone, qualunque sia la loro conoscenza riflessa del Mistero di Dio, attraverso le vicende più diverse della vita, implica sempre una fatica, una sofferenza, un distacco da cose belle e buone e da quel bene che era in qualche misura contenuto anche nelle cose che giudichiamo come male.
Così possiamo illuminare, senza pretendere di averne una spiegazione, il problema che più ha angosciato ed angoscia la mente ed il cuore degli uomini: il problema del male.
Il Mistero infinito di Dio e di una sua inevitabile responsabilità come creatore di tutto ciò che esiste, si svela nel Mistero Pasquale (Apoc. V)
Tutto quello che è e che accade è un’estensione del Mistero Pasquale. C’è una piena coincidenza fra la storia e ciò che celebriamo nella Messa.
Tutte le riflessioni che vado facendo e scrivendo in questi giorni sono accompagnate da Pino Trotta: dal ricordo di lui, dalla sua esperienza, soprattutto dalla sua benevolenza nei miei confronti, dalla sua amicizia.
Ora vorrei chiarire a me stesso e agli altri come vedo il rapporto fra Pino e la crescita della fede in cui colgo il senso profondo della storia.
Pino, per quelli che sono stati chiamati “doni di natura”, per l’educazione ricevuta e per i “doni di grazia” – tutte categorie che mi è difficile distinguere ed approfondire – l’ho conosciuto, quando era già un uomo maturo e grandemente aperto ai più diversi aspetti della realtà umana. Capace di ascolto dei più piccoli come dei più grandi, delle esperienze più intime come delle grandi strutture economiche e politiche, del presente e del passato. Le sue innumerevoli letture erano ascolto di chi scriveva e il suo ascolto era spesso condivisione specialmente di quanti erano alla ricerca. Forse s’interessava di meno di quelli che si sentivano “arrivati” e possessori della verità o delle ricchezze materiali. La sua apertura era in larga misura “compassione” nel senso più alto della parola che è quello che si vive proprio restando in basso secondo i giudizi mondani.
Le grandi amicizie di Pino, senza facili accondiscendenze, vissute nella sincerità che poteva risultare talvolta tagliente, potrebbero essere materia di un racconto costruttivo, anche se non “edificante” secondo un significato scadente e diffuso in un tipo di religiosità devozionale, da noviziati e simili.
Nella grande apertura di Pino al mondo e a tutte le sue voci, mi pare di vedere chiaramente una tensione continua in una direzione ben determinata: come una linea di alta tensione che attraversa territori vastissimi.
Questa tensione che riconosco in Pino è la ricerca di fede, è la fede come ricerca.
Non era per lui un facile e tranquillo possesso né una ricchezza di cui si considerava possessore e in alcun modo gestore.
Era la fede di cui parla mirabilmente Dalmazio Mongillo: “Più si situa la fede nella storia e la si fa valere nella sua radicalità più essa emerge nel suo aspetto di realtà non ancora rivelata” (La speranza per la politica, ed. Lavoro 1999, p. 94).
La grande apertura di Pino al mondo e il suo essere sempre “situato nella storia” facevano si che tutte le difficoltà a credere in Dio e in Gesù Cristo che la mente e il cuore di tante persone provano anche con grande sincerità, risuonassero in lui.
di fratel Marc Hayet
priore dei Piccoli Fratelli di Gesù
Roma, 12 ottobre 2005
Parlo basandomi sull’esperienza limitata delle nostre piccole fraternità contemplative presenti fra i poveri. L’Eucaristia è il modo abituale della nostra preghiera personale e comunitaria. Ma mi piacerebbe dire, parafrasando quel che si è scritto di Charles de Foucauld, che il Signore ci ha fatto congiungere intimamente “l’esposizione del santo Sacramento ed una vita esposta”. Una vita esposta alla vista dei poveri che non temono di venire da noi perché sanno che la nostra è, come la loro, una vita di lavoro e di vicinato e che condividiamo le stesse preoccupazioni e le stesse lotte per un’esistenza più giusta e più degna. Una vita, insomma, esposta a quest’altra presenza del Signore, la sua presenza con i poveri. La vita della gente non ci lascia mai, fa un tutt’uno con noi quando leggiamo insieme la parola di Dio, quando celebriamo l’Eucarestia e quando preghiamo in silenzio. Una preghiera spesso in tensione tra il dolore del salmo:” Perché resti silenzioso mentre si massacra il tuo popolo?“(cf Sal 94,3-5 ; Sal 14,4) , e la lode di Gesù: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt.11,25) ; o il suo grido: “Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo“ (Eb.10, 5s).
Vorrei testimoniare che la condivisione della vita della gente – qualunque sia ciò in cui credono o in cui non credono, oppure le loro bellezze e le loro miserie, impegnati come sono nella loro lotta per la vita – tutto questo ci fa scoprire sempre di più il volto del Dio di tenerezza e di misericordia che cammina umilmente con noi, come lo manifesta l’Eucarestia.
Allora partendo da questa esperienza, vorrei, se mi è permesso, chiedere una cosa. Quando pronunciamo una parola di Chiesa, stiamo attenti a come parliamo. Parlare del nostro mondo soprattutto in termini di “cultura di morte” , parlare della secolarizzazione come della fonte di ogni male (violenza, non rispetto della vita, ecc.) non è forse mancare di rispetto a tutti quelli che tentano di vivere la loro fede in Dio (qualunque sia il nome che Gli danno) o la loro fede nell’uomo (qualunque sia la loro filosofia) spendendo sé stessi per il servizio della vita – che si tratti della battaglia quotidiana del padre o della madre di famiglia per garantire il pane e l’avvenire dei loro figli, o che si tratti di uomini e di donne dedicati al servizio della società? Questo mondo mischiato, dove la zizzania e il buon seme crescono insieme, è anche il luogo di tutte le generosità, di tutte le solidarietà e di tutti gl’impegni, che a volte si pagano con la vita; ed è proprio questo mondo qui e non un altro, che il Padre ama, per il quale dona ancora oggi suo Figlio (l’Eucarestia ce lo ricorda) e in cui lavora il suo Spirito.
La secolarizzazione ci ha spogliato dell’influenza che avevamo sulle persone e sulla società. Ci è molto difficile accettarlo. Come ha detto in questa sala il cardinal Danneels, le attese degli uomini e delle donne di oggi sono “evangelizzabili”. Ma possono ascoltare la parola del Vangelo solo se gliela presentiamo come una proposta indirizzata alla loro libertà, in un vero dialogo nel quale rispettiamo la loro ricerca ed accettiamo di ricevere, di imparare dalla loro competenza e dalla loro esperienza di vita, compresa quella dei più poveri così piena di umanità. Ma, in fin dei conti, non è esattamente questo il cammino preso da “l’umile carpentiere di Nazareth” che si è lasciato sorprendere dalla fede della donna Siro-fenicia, da quella del centurione o da quella dell’uomo crocifisso con lui? Forse è anche a questo che ci invita l’umile segno del pane e del vino, accessibile a tutti e da tutti comprensibile.
Grazie del vostro ascolto.
1 UN EVENTO E UN INTERVENTO
La morte di Pino Trotta il 27 luglio 2004 ha concluso quattro anni di grandi sofferenze fisiche e morali.
La sua serissima ricerca della verità è stata letteralmente soffocata dall’avanzare del male.
La sua piena disponibilità ad aiutare gli altri, specialmente con i frutti della sua ricerca, è stata impedita dalle condizioni fisiche che lo costringevano a dipendere e a farsi aiutare da parenti, amici, medici e infermieri.
Nell’ ultimo mese mi confidava che si sentiva costretto a pensare quasi esclusivamente ai particolari della sua condizione fisica in disfacimento.
Lo tormentava il pensiero di non aver combinato nulla di buono.
Nella malattia e nella morte di Pino possiamo cogliere un evento di grande significato per il tempo presente. La ricerca più pura e la piena generosità nel comunicarne i frutti preziosi a chiunque gli si avvicinava, in grande umiltà e senza nessun compiacimento di se stesso,ostacolati, soffocati e incatenati dall’avanzare del male.
Alcune considerazioni.
Importanti gli accenni di Giovanni Bianchi alle possibili origini psicosomatiche della malattia di Pino.
Una prima considerazione mi sembra possa riguardare la fragilità della condizione umana in cui le più sublimi realizzazioni dello spirito, la ricerca della verità e la generosità nel donare ciò che si ha e ciò che si è, sono limitati in modo radicale dall’ esistenza corporale e mortale.
Una seconda considerazione riguarda la straordinarietà e al tempo stesso la universalità di ciò che Pino ha vissuto e realizzato.
La straordinarietà: quanti sono i grandi, o meglio, quelli che sono considerati tali, che vivono la ricerca della verità con tanta purezza e generosità? Penso di aver fatto una lunga e molteplice esperienza di come quella che viene considerata cultura, anche purtroppo quando viene orientata cristianamente, è ricercata con animo proprietario e come via e strumento per il potere.
Ciò che Pino ha vissuto mi sembra straordinario e al tempo stesso una possibilità universale. Tutti e specialmente i piccoli in senso evangelico sono in grado di cercare sinceramente e disinteressatamente la verità e tutti sono aperti al prossimo, capaci di dono e di gratuità, specialmente nella compassione. E mentre gli uomini di successo tendono a ripiegarsi su se stessi,. compiaciuti di quello che pensano di essere e di avere, gran parte dei piccoli vivono la vera umiltà.
Al fondo dei drammi e delle tragedie della nostra quotidianità come nell’ unico e immenso dramma che è la storia degli uomini, c’è lo scontro fra l’ egoismo e l’amore. E tutto si illumina alla luce del Vangelo, della morte e resurrezione del Signore Gesù, figlio di Dio e di Maria.
Molte volte a Pino che mi diceva di sviluppare questo o quel tema, dicevo che non mi ritenevo in grado di portare seri contributi alla cultura ma tentavo solo come potevo di intervenire in situazioni, specialmente ecclesiali, che mi apparivano contraddittorie e bloccate. Ho sempre sentito in primo piano il bisogno di una chiesa “in conversione” per la mia personale salvezza e per quella di tutto il mondo.
Per questo, con la grandissima affezione che sento per Pino Trotta, spero che insieme a tanti suoi grandi e piccoli amici, si possa, partendo dall’ evento della conclusione della sua fatica terrena, realizzare un intervento a favore di una conversione popolare che ci è apparsa come l’ unica speranza per la democrazia in crisi.
Giovanni Bianchi mi ha comunicato l’intenzione, per proseguire l’esperienza di Pino, di raccogliere i suoi libri e le sue carte in un Istituto storico ( non ricordo esattamente quale) creando un fondo che sia ben custodito e a disposizione di tutti.
Mi ha anche comunicato l’intenzione di fare una associazione Pino Trotta. Anche questa può essere un’ottima cosa, per la quale avrei tuttavia qualche obiezione, come quando diversi amici mi suggerivano di fare una associazione Maurizio Polverari. Allora scegliemmo di fare diversi incontri ed iniziative intestate, e non solo come fatto nominale, a Maurizio. Ho sempre il timore che le istituzioni possano diventare autoreferenziali, come diceva spesso Pino.
La garanzia per intervenire in modo valido penso si trovi soprattutto nell’amicizia sincera e profonda come quella che viveva Pino e di cui P. Benedetto Calati diceva che è il primo sacramento.
2 “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo,
il quale, pur essendo di natura divina,
con considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
E gli ha dato il nome
Che è al di sopra di ogni nome;
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore,
a gloria di Dio Padre.
3 …. “Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo; cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Lc. 2, 19 e 51), sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. La Chiesa cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finchè in essa vengano a compimento le parole di Dio.
Le asserzioni dei Santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega. E’ la stessa Tradizione che conoscere alla Chiesa l’intero canone dei Libri Sacri, e in essa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse Sacre Lettere; così Dio il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo, risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta la sua ricchezza (cfr. Col. 3, 16).
4 “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto forza e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di scherno ogni giorno;
ognuno si fa beffe di me.
Quando parlo, devo gridare,
devo proclamare: “Violenza! Oppressione!”
Così la parola del Signore è diventata per me
Motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno.
Mi dicevo: “Non penserò più a lui,
non parlerò più in suo nome!”.
Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente,
chiuso nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo,
ma non potevo.
Sentivo le insinuazioni di molti:
“Terrore all’intorno!
Denunciatelo e lo denunceremo”.
Tutti i miei amici
Spiavano la mia caduta:
“Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,
ci prenderemo la nostra vendetta”.