LETTERE
In tutti questi scritti Pino Trotta parla di me con molto affetto e molta considerazione. L’affetto era ed è pienamente ricambiato con gioia, la considerazione nei miei confronti mi ha sempre creato e mi crea imbarazzo e perplessità, miste e incoraggiamento. Mi si va tuttavia facendo sempre più chiaro, e spero che lo sia per quanto leggeranno queste pagine, che la sua ammirazione era sempre per la novità del Vangelo di Gesù Cristo che, senza alcun titolo particolare, io cercavo di riproporre.
Nel luglio del ’91 mi scrive: “Ho impiegato del tempo per cominciare a capirti e ad accorgermi di un itinerario di ricerca spirituale che vivevo all’inizio con fastidio, tanto fuori mi sembrava dai temi culturali e politici che si agitavano invece nella mia ricerca.
Un fastidio che non è mai stato sufficienza perché consapevole dell’alterità e dell’autentica provocazione che esprimevano quel modo di esserci e di vivere la tua esperienza di fede.
E’ da tempo, ora, che vivo nella convinzione che il tuo itinerario è tra i pochi che siano in grado di testimoniare la realtà di una Presenza.
Con sgomento mi accorgo che sei l’unico laico in un’associazione cattolica. Di qui sempre più netta la percezione dell’importanza e della necessità della tua presenza in questo movimento così lontano dal vivere il cristianesimo come orizzonte di libertà”.
Su “qas”, Quaderni di Azione Sociale, nel numero di giugno del ’92 propone l’itinerario spirituale che inizierà con il Convegno Nazionale di studi delle Acli, a Urbino, dal 3 al 6 settembre dello stesso anno. Il titolo del Convegno sarà: “Convertirsi al Vangelo. Vie nuove per la politica”.
“Vie nuove per la politica”: se il titolo è questo son preso non so se dall’ironia o dallo sconforto: dunque ancora, l’ennesima omelia sulla politica, l’ennesima trovata!
Ho riletto più volte le pagine di Pio, faccio sempre fatica a capirlo. Io leggo velocemente, anticipo la fine dell’ovvietà delle molte parole. Ma i suoi testi, di una disarmante semplicità, non vogliono anticipi: o ti fermi o li perdi. E l’occhio si deve abituare a trascinarsi lentamente sulle parole. Un primo disagio. Si tratta di tornare da capo. Bisogna costringersi ad ascoltare.
La prima trappola di Pio è proprio questa: ti presenta dei testi da leggere ed invece sono dei testi da ascoltare. Due cose diverse, diversissime. Non sono molti i libri da ascoltare, sono rari: non c’è il costrutto felice dell’intelligenza ma il fascino della parola.
Per me non è facile ascoltare, assai più facile leggere. E’ questo il primo piazzamento che sempre mi hanno fatto i testi di Pio: bisogna fermare la testa, sgomberare il flusso delle idee, cercare di capire. Uno stile il suo che non è solo forma, ma indica il contenuto che non riesce a dirsi se non in quella forma lì, che uncina l’occhio o non fa vedere.
Che questo possa accadere con un discorso sulla politica, anzi su nuove idee per la politica è davvero sorprendente. La politica è un classico luogo di lettura. Eccezioni: rarissime.
Questa è la seconda trappola di Pio. Le sue sono davvero nuove idee? Ma possiamo definirle idee? Pio parla della politica e spiega il Vangelo. All’inizio ho fatto fatica ad orientarmi. E’ la prima volta che mi capita di sentir parlare della politica spiegando il Vangelo. La cosa è provocatoria. Vengo da una cultura piena zeppa di mediazioni culturali: natura e grazia, ragione e fede, cultura e religione, realtà terrene e realtà celesti. Un castello immenso, diventato un labirinto: animazione cristiana del sociale, ispirazione cristiana, teologia delle realtà terrene, segni dei tempi. Scorre il rosario delle frasi fatte e, accanto, la semplice verità di una parola che davvero non ha nulla di nuovo da dire, ma confessa, semplicemente, la propria fede, interpretando con essa, sine glossa, la verità cristiana della politica.
Qui scatta la terza trappola di Pio. Di nuove idee nelle sue riflessioni non ce ne sono. Sono idee antiche come il Vangelo: una per una lui le sgrana all’occhio, come massi squadrati, duri, offerti per essere visti più che interpretati. Paragrafo per paragrafo, capitolo per capitolo la sua strana argomentazione è una confessione: l’ascolto della Parola, la sconfitta come segno di gloria, l’ascolto dei piccoli come disposizione alla Grazia, la comunità cristiana. E’ lo stesso linguaggio della prima comunità di Gerusalemme, di come essa viveva, obbediente, il suo rapporto con la città. Para-cittadini, abitatori dei paraggi, uomini marginali. La dimensione politica è letteralmente tradotta in vita cristiana. Che è rimasto della politica? Quella che intendo io? Quella che intendo intorno a me? Quella che affanna, e come!, le Acli? Davvero nulla! Scomparsa.
L’attacco di Pio è magistrale: Dio ama tutti e la politica è invece la distinzione tra amici e nemici, tra alleati e avversari. Provo ad applicare la formula di Pio: Dio ama tutti e mi trovo senza linguaggio.
La cosa potrebbe essere anche originale, sono riuscito a conquistarmi una sapienza superiore, un punto di vista privilegiato. Niente da fare: non sono migliore di nessuno, mi dicono quelle parole. Pazienza vuol dire allora che con tutta la consapevolezza della mia imperfezione posso agire per il bene comune. Altra strada sbarrata: è Dio che viene, libera, conquista. Noi dobbiamo lasciarci solo conquistare da Dio. Io, quest’uomo ridicolo qui, alla conquista del mio spazio vitale o proiettato nell’impresa del bene verso gli altri ho dinanzi a me un cammino preliminare: il cammino umano è lasciarsi conquistare da Dio. E’ lui che fa tutto. E’ dalla sconfitta della pretesa di essere qualcuno, anche solo un povero diavolo, che possono pensare di aprirmi a qualcosa. E’ proprio dalla sconfitta, non solo dopo, che viene Gesù. Di più la sconfitta dell’uomo diventa vittoria di Dio.
Mi fermo un attimo. Una breve tregua. Il ritmo delle riflessioni è incalzante, inesorabile, ha un suo andare spietato. Vien voglia di fuoriuscire dal testo e dire che qui si sta parlando d’altro, che tutto ciò proprio non c’entra con il discorso sulla politica. Sorge allora un dubbio, una inquietudine penosa: che è la vita cristiana, in quanto vita, cristiana a non c’entrare con la politica. Pio ci lascerà uno spiraglio, un varco, una mediazione attraverso cui quell’io sopraffatto dalla Grazia possa infine trovare uno spiraglio per esserci lui? C’è poi sempre il marchingegno Bianchi: che la contraddizione resti aperta! Tale marchingegno ha la chiarezza di una bella trovata o di una cosa falsa.
Le sequenze di Pio non si diradano, si fanno più serrate.
La sconfitta dell’uomo porta alla vita in Dio. Saliamo a Gerusalemme ad attingere un amore che non muore. Quel cammino alla sconfitta, alla marginalità, al niente dell’io porta dunque alla vita a Dio.
Mi dico: finalmente ci siamo. Arrivati qui inizierà un discorso più umano, si discenderà sulla terra. Certamente, ma attenti: diversi!
Nella fede: apertura, accoglienza, obbedienza, comunione al Mistero Pasquale. Nella fede: non nell’uomo, non nella solidarietà, non nell’altruismo. Nella fede. Per chi si dice cristiano tutto ciò segue “nella fede”, che non è uno sfondo dato, un orizzonte lontano, ma vita minuta di ognuno che rumina la parola di Dio. Una vita afferrata da quella discesa agli inferi che è stata la salita a Gerusalemme. Si comunica non il bene per l’umanità, ma il rapporto personale con Gesù Cristo. Tutto passa di qui e allora: sperare la forza nella debolezza, la liberazione nel dolore, la vita nella morte. Nessun protagonismo umano. Solo così, e siamo alla IV parte, la politica diverta liturgia di carità. Ancora: qualcuno non si confonda: carità non indica altruismo, solidarietà, ma quell’amore per gli uomini che nasce solo dalla sequela della Croce. La politica diventa carità.
“Quando non ci si pone sul piano della carità si finisce inevitabilmente o per cercare altri tipi di unità basata sull’appartenenza, sugli schieramenti, anche quando si invocano i valori. E questo passaggio dal piano teologale a quello fondato sull’uomo è la fine della Chiesa e quindi della sua unità. Non si tratta di surrogati ma di fine della comunione, cioè della partecipazione comunitaria al mistero della vita divina. La situazione sembra molto grave”.
Quali sono allora le parole della politica quali sgorgano dalla carità? Ascoltare, non giudicare; compatire, essere poveri, essere deboli. Ciò porta ad una trasmutazione di tutti i valori: “I piccoli, i poveri, i sofferenti e gli emarginati diventano la più grande risorsa sociale, il tesoro che non va solo custodito ma valorizzato per il bene di tutti. E le vie per la valorizzazione di tale tesoro solo le vie nuove per la politica.
Si badi: non abolire la povertà come una vergogna, l’emarginazione come una ingiustizia, la sofferenza come un male: esse sono la via della grazia. La politica è in funzione della “conversione” sociale al primato del Regno.
Sono queste “idee nuove per la politica”? Proviamo a lasciare sospesa la domanda. Proviamo però a prenderla sul serio. La proposta di Pio non vuole animare cristianamente una pratica sociale, fosse anche di solidarietà, non vuole essere un supplemento d’anima alla politica buona o cattiva che sia. Non un supplemento d’anima, ma un’anima diversa. Nessuna animazione ma capovolgimento. La sua indicazione di una politica tradotta in carità va presa nel suo dichiarato paradosso, nella sua terribile serietà.
Ma è sopportabile questo sguardo alle nostre vite, nell’affanno con cui ognuno si abbarbica al suo pezzettino di potenza (sempre, è ovvio, per gli altri)?
Non è sopportabile. Amiamo queste parole proprio perché siamo costretti a camuffarle, a farne cose da preti. E poi quanti preti le dicono? Amiamo Pio quando sarebbe più saggio odiarlo. L’odio individua il nemico perché scorge la verità del suo linguaggio. Quest’amore nasce spesso dall’incomprensione o dalle frattaglie di una falsa coscienza, quella appunto che ha cessato di odiare.
L’impresa di Pio a me pare ridicola e disperata. Come se non sapesse che le sue sono indicazioni vane, come se non sapesse che altrove è la materialità del quotidiano. Come se… è lo scarto di ogni ridicolo. E poi lui sa che ci sono montagne di dottrina sociale a fare a pugni con le sue poche parole. Lui fa come il rabdomante, scova in cento pagine due righe, messe lì a caso, a chiudere liturgicamente un testo che parla esattamente d’altro. Lui sa. Perché non avere il coraggio di rifiutare queste “nuove idee”? Dirgli con franchezza che sono impossibili, impraticabili?
So già la folla dei devoti e dei sacristi che non saranno d’accordo. Tutto si media, tutto può mediarsi, si tratta di essere ragionevoli. Bianchi ci dirà ancora che la contraddizione deve restare aperta. Eppure essa è stata chiusa circa duemila anni fa, e per sempre. Pio ci ha letteralmente spiegato la chiusura di questa contraddizione. Una chiusura impossibile. Ma allora è la contraddizione ad essere vuota, ad essere costretta a diventare fervorino religioso, buona azione, buon cuore.
Può darsi che non ci si risolva a dire con chiarezza quello che ognuno forse sa e pensa. E allora propongo un’altra cosa, una resa dei conti differita con lui: un convegno, non sulla dottrina sociale della Chiesa, non sulle politiche sociali o sui nuovi scenari della politica, un convegno sulla conversione. Le ACLI organizzano per se stesse e per qualche altro una strategia di cittadinanza particolare: quella dei cieli. Non è una battuta, è una proposta seria. Perché non farlo tra fine agosto e settembre a Camaldoli? Pio e il suo caso serio: la conversione.”
Riporto alcuni passi di una bellissima lettera che Pino Trotta mi ha inviato il 2.2.97 mentre viveva un tempo di forte depressione.
Quanta sincerità, profondità e umiltà: atteggiamenti essenziali per la maturazione della fede. A un certo punto Pino scrive: “Il mio mi appare più un caso di psicoanalisi che di fede”. Non mi intendo di psicanalisi ma sono certo che si tratta dell’azione dello Spirito che operava in Pino quello scavo e quella purificazione tanto necessari a una fede autentica. Per questo penso di dover comunicare questa esperienza durissima di Pino come un dono prezioso per molti di noi.
“Lo sguardo della crisi nevrotica in cui vivo illumina la struttura della mia costruzione identitaria che vive una dimensione affettiva atterrita su cui si erge una enorme mediazione culturale. Tra me e l’esperienza non c’è un contatto diretto, ma una mediazione. Il contatto diretto dell’esperienza è dato dall’affettività. E’ come se la mia vita non avesse radici, o meglio, è come se queste fossero sospese a mezz’aria: tese ossessivamente a immergersi nel suolo e sospese ad una mediazione che impedisce loro di toccare la terra. La “falsità”, la “non coincidenza” con tutto ciò che faccio deriva da questo. Io non posso praticare una dimensione “etica” della vita. Essa, come sai, presuppone un radicamento, un incontro, relazioni affettivamente positive con gli altri. L’unica mia vita reale si svolge tutta all’interno della mediazione. Questo ha per effetto da una parte una intelligenza radente, violenta, dissolvente, non banale, a suo modo profonda; dall’altra un profondo disprezzo di sé. Io mi curo poco, vesto male, vivo poveramente, non tendo ad apparire non per umiltà ma per una radicale mancanza di stima della mia esperienza che sento vivere in un vortice di dissipazione, di evanescenza. Una vita nata per sbaglio e per una imperdonabile distrazione…
Il mio mi appare più un caso di psicoanalisi che di fede. C’è una relazione primaria malata…
Io ci riproverò ancora, Pio, a pregare. Ricordi: “e da chi andremo?”. Ma il risultato sarà lo stesso. Ricordi il “vicolo cieco” di Benedetto Labre? Per un po’ è stato alla ricerca di una trappa, sempre in cammino, finchè ha scoperto che la sua trappa era la via stessa, il vicolo cieco in cui si trovava. Non c’era nessuna trappa per lui, se non quel viaggio interminabile e assurdo che è stata la sua contemplazione. Mi chiedo che non debba anche io accettare questo “vicolo cieco”, questa lontananza come una stravolta e grottesca testimonianza di fede”.
La mia risposta a Pino può essere utile per scoprire il valore della sua esperienza in ordine alla fede.
8 febbraio 1997
“Carissimo Pino, sto a Campo di Giove ed è la sera di una giornata eccezionalmente bella per il cielo e la neve.
Ho un grande desiderio di comunicare con te: ci provo. Dieci giorni fa ti ho scritto una lettera in cui cominciavo dicendo: “penso di capire un poco…”. Ora vorrei cominciare dicendo: “penso di non capire…”. Forse ho capito un po’ meglio la tua esperienza e mi sono reso conto di quanto essa sia tutt’altro che banale. Provo quindi sentimenti di rispetto, di ammirazione, di simpatia, ma soprattutto la certezza che lo Spirito di Dio sta operando dentro di te – forse si tratta di uno “scasso” – in profondità, per il Regno.
Mi sembra di scoprire sempre di più che la Chiesa, che riconosco madre e maestra, è presa da una immensa distrazione etica, ascetica e politica, come dicevo a Urbino. E la distrazione politica, anche se è quella più manifesta, è piuttosto una conseguenza di quella etica e ascetica. Siamo alla ricerca di una nostra identità, moralità, perfezione, “santità”, che ci mette in una condizione di autonomia davanti a Dio.
Per arrivare a scoprire e vivere la teologalità – la fede, la speranza e la carità – non c’è altra via che quella del fallimento; come non si arriva all’umiltà se non si passa per le umiliazioni.
C’è chi ha poca salute, chi è privo di udito e chi è privo della vista, chi scarseggia d’intelligenza e di sensibilità, ecc. A ognuno manca qualcosa di importante. A te manca “concretezza” (è l’unica parola che hai sottolineato, in rosso, nella tua lettera). Io penso che sia bene considerare anche tutto quello che ci è stato donato, ma soprattutto che bisogna rallegrarsi proprio di quello che ci manca, perché è la parte che consente l’accesso al Mistero di Dio e della nostra salvezza. Sono le Beatitudini.
La tua difficoltà a radicarti – che può essere una vocazione per il presente o anche definitiva – è una via d’accesso al radicamento fondamentale per cui prega Paolo: “che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere…” (Eph. 3, 17).
Ciò a cui siamo chiamati è, fidandoci della parola di Dio, uscire da noi stessi, da ogni genere di misurazione di noi stessi, soprattutto dei nostri meriti, per rivolgerci al Mistero infinito, che è il nulla delle certezze umane, per una certezza indicibile. Rivolgersi al Mistero di Dio comporta immediatamente il rivolgerci a tutti, e questo può comportare l’impossibilità di rivolgerci a qualcuno in modo esclusivo. E poi la compassione universale fonda una coscienza politica radicalmente nuova”.
Luglio 1998 in partenza per Milano Pino mi scrive:
“Mentre parto, non so davvero cosa mi aspetti a Milano. Non ho testimonianze da dare o missioni da compiere; più terra terra tenterò un equilibrio non devastante tra la fine di una esperienza ed un’altra, che non so dove porti. “Io speriamo che me la cavo”.
Volevo comunque ringraziarti (so che non lo farei a voce) per la tua amicizia. Quando si chiude un’esperienza come questa, viene sempre il dubbio che si poteva fare di più. Con te è un dubbio che non viene: ho fatto tante cose interessanti inseguendoti che non c’è spazio per pensare a quelle non fatte.
Potrò infinitamente meno nella situazione in cui mi muoverò; di tanti progetti fatti in questi mesi ho il sospetto che siano una consolazione patetica che prolunga una esperienza ormai morta. Ma in queste circostanze il futuro quasi non esiste, ha voce solo il presente e il passato, e questo è pieno di riconoscenza e affetto per te”.
26 ottobre 2000
“Caro Pio, invece di scriverti le mie riflessioni sul “potere”, eccomi qui ad informarti che tra qualche giorno entrerò in ospedale per una operazione allo stomaco. Si tratta di una grande ulcera e la biopsia ha scoperto qualche cellula cancerogena. In breve mi “ridurranno” lo stomaco nella speranza che tutto termini lì, che la “cosa sia stata presa in tempo”.
Insomma passo anche io tra quelli che stanno dall’altra parte, tra le vite trattenute da un filo di speranza o di fortuna. Esperienza della precarietà”.
4 novembre 2000
“Vorrei avere, Pio, i tuoi occhi ed il tuo cuore per scorgere in questa “novità” che squassa la mia vita un segno dello Spirito. Vivo tutto ciò, invece, con l’inquietudine del povero diavolo che è messo dinanzi alla propria morte. Il mondo è come rinchiuso in un angolo che si fa sempre più stretto, più asfissiante. Viene meno lo spazio, il respiro. La morte credo sia sempre soffocamento.
Mi affido così, Pio, alla tua preghiera; la mia non è neppure un bisbiglio, proprio nulla”.
Dalla presentazione di Pino Trotta, il 23 marzo 2001, al Circolo Dossetti di Milano, di un libro “La ricerca di Dio e la politica”, in cui alcuni amici avevano raccolto dei miei scritti, riporto qualche passaggio più significativo.
“Sono quattro brevi saggi che coprono però quasi l’arco di una vita: 1975-1998. Pio si può dire che non si sia occupato d’altro nella sua vicenda cristiana di gesuita e di sacerdote: della politica.
…Possiamo entrare in questo percorso dicendo che essa si colloca oltre il paradigma su cui si è formata la cultura politica dei cattolici: la distinzione maritainiana tra fede e politica, quella distinzione che fondava la laicità della politica. Distinzione, certo, non separazione. Certamente. Dietro c’era un robusto schema tomista e insieme una lettura del rapporto tra natura e grazia che aveva reso più aperto e libero il confronto tra cattolicesimo e cultura moderna. Maritain non è stato solo un grande cristiano, ma un maestro: ha creato un paradigma, uno stile di pensiero.
Quanti si sono formati negli quaranta e cinquanta, evitando le secche di uno sterile e opportunistico intransigentismo, hanno avuto come modello di riferimento Maritain. Possiamo dire in generale: tutto il cattolicesimo democratico viene da questa cultura. Possiamo qui solo accennare ad alcuni modi di dire che hanno espresso questa figura culturale: quella, per esempio, dell’ispirazione cristiana. Una cultura che si ispira, si orienta al Vangelo. Dal Vangelo è possibile enucleare alcuni principi e in base a questi orientare un sapere sociale e politico. Dico cose banali, tanto esse sono nel linguaggio comune.
Ebbene questo libro non è comprensibile all’interno di questo linguaggio, in base a questi luoghi comuni.
… Formare la coscienza politica. C’è qualcosa di meno originale di questo? Bisogna stare attenti però: il tema è preceduto da quello della fede. Cos’è la fede? Una credenza? No, è una forza, è una dinamica.
La fede prende continuamente in modo nuovo, è esperienza di continuo cambiamento; nella fede non si è mai arrivati. Altre acquisizioni intellettuali possono essere compiute.. nella fede questo non accade. la fede è continua novità anche in fatto di sentimento e di comportamento: novità del cuore, della vita.. Non C’è possibilità di fermarsi e riposare, e , tanto meno, di guardare compiaciuti il punto a cui si è arrivati e a giudicare quelli che ci sembrano essere rimasti indietro. (28)
… Come è possibile formare una coscienza politica che non sia il prodotto delle strutture stesse. La sfida va colta davvero. Non basta una semplice condanna filosofica di materialismo, una semplice condanna moralistica. Bisogna attraversare Marx. Ma per fare questo bisogna attrezzarsi di un linguaggio nuovo: quello della Bibbia. Questo esige una coscienza politica agitata dalla fede.
Il secondo saggio è del 1989 e il titolo è assai significativo: Appello ai piccoli e ai poveri.
Cosa caratterizza la povertà? La consapevolezza del bisogno, della dipendenza, di non essere autosufficienti. Non solo: il povero capisce il linguaggio della carità, ha le antenne per sapere cosa vuol dire compassione. Solo attraverso la povertà passa il linguaggio dell’amore.
… Non si tratta qui di distribuire il potere. Va così riscritto integralmente il concetto di partecipazione. Il potere distribuito, torna a riconcentrarsi. Il concetto di partecipazione deve trasformarsi o immergersi in quello di compassione.
… Partecipazione è compassione. La cosa strana, mettendosi in ascolto dei pensieri di Pio, è questa: parole immense, sminuite e logorate dall’uso tornano a risplendere: compassione è condivisione di gioia, di destino, di amore.
… Il nostro viaggio della coscienza politica deve soffermarsi ora sul terzo saggio del volume. Il titolo è significativo: Lo scasso. Per un ritorno alle radici. Lo scasso è quello del vomere che penetra nel terreno e lo rivolta, in qualche modo lo capovolge. Si tratta di riscoprire le radici. Io farei attenzione a questo rapporto: andare alle radici e capovolgimento. Sono radici sepolte da tanta cultura cristiana, da tanti luoghi comuni.
… La crisi politica dei credenti è originata fondamentalmente da una crisi di fede, dall’insufficienza della propria fede.
… E’ una frase forte, può anche essere una frase banale. Cosa vuol dire infatti che c’è stata una carenza dei cristiani proprio nell’annunciare il Vangelo nella politica?
… Possiamo dire che è qui messa in crisi tutta quella cultura dell’ispirazione cristiana, che, come si è detto, non è solo una cultura, ma un abito mentale. Ora, superare la crisi politica, non vuol dire solo trovare una nuova mediazione culturale, vuol dire affrontare un processo di conversione.
Attenti: ritorna ancora il tema della coscienza politica, quella agitata dal vangelo. Le risposte che in genere si danno alla crisi le conosciamo: nuovi programmi, nuove alleanze, nuove istituzioni, nuovi soggetti politici, una nuova moralità pubblica. Quello che non si cerca da parte dei credenti è l’unica risposta che potrebbe mettere in moto tutto il resto: la conversione.
… Se ci è chiaro questo passaggio, ci è anche chiaro l’approdo paradossale del saggio: cercare nuove vie per la politica, vuol dire cercare nuove vie per la fede.
… Ci sono due cose che ostacolano spesso questo cammino: l’attivismo e il protagonismo. Formare una coscienza politica vuol dire superare la tentazione attivistica e la presunzione di essere protagonisti della storia. L’attivismo fotografa un uomo in fuga dal mistero, il protagonismo un uomo in preda al desiderio di potere.
… Come sfuggire a questa duplice tentazione? Attraverso quella che Pio chiama cattedra dei piccoli e dei poveri.
Mi sembra significativo l’accenno a Dossetti. Per Dossetti la politica è dotata di una sua tragica ambivalenza: essa da una parte è potere, dall’altra servizio; da una parte è potenza, dall’altra pastoralità. E’ questo aspetto bifronte della politica che la Chiesa ha cercato di educare, senza mai riuscirci. Per il cristiano la politica (intesa come impegno istituzionale) non può mai essere un mestiere, durare una vita. Non c’è una vocazione alla politica. Essa può essere una occasione a cui si può essere chiamati per un momento, per un periodo.
15 giugno 2001
Lettera di Pino Trotta
Una scelta difficile dopo aver superato la prima devastante operazione con l’asportazione completa dello stomaco.
“Alla fine, dopo una lacerante altalena, ero anche io orientato a restare a scuola, anche se con motivazioni diverse dalle tue.
Staccarmi un’altra volta dal mio “mestiere” mi disorientava, né avevo alcun interesse a rituffarmi nell’organizzazione di convegni, seminari, ecc. C’è in me, ormai da mesi, come un bisogno di angolini appartati, come di chi, scampato miracolosamente e provvisoriamente a una terribile bufera, non vuole sapere altro che di se stesso, dei movimenti del proprio corpo, della sua salute. Un bisogno di rifugio, di non fare, di ripiegamento in se stessi, una pigrizia interiore forse dovuta alla tristezza verso me stesso e questo mondo così confuso e strano.
Nel 2002 nella presentazione al volume “Dialoghi sulla laicità”, Pino coglie in profondità quel che da anni alcuni Padri gesuiti hanno meditato per rifondare il concetto di laicità sulla parola di Dio. Pochi come Pino hanno capito e accettato questa proposta di laicità liberante e impegnativa come il Vangelo.
“Del gruppo stretto degli autori va detto che sono tutti gesuiti. E’ noto quanto sia disperante trovare un filo comune tra i “gesuiti”, qui un filo comune c’è ed è profondo. Quando personaggi così diversi riescono a ragionare così interiormente insieme è il caso di parlare di un’amicizia spirituale. Definizione forse scialba, se la prendiamo superficialmente, unica se ne intendiamo l’interiorità, che non è fatta solo di attenzioni, di gesti, di sima ma dell’essere in un assillo comune con le stesse domande.
… Cos’è questo assillo? La laicità.
… Cos’è la laicità. Anche qui, come nel volume che abbiamo presentato l’anno scorso, è importante un’avvertenza: siamo oltre le categorie consuete con cui nel mondo cattolico viene usata questa parola, oltre quel patrimonio maritainiano o lazzatiano su cui si sono formate generazioni di cattolici italiani.
… Laicità e profezia sono due aspetti coessenziali della fede cristiana. La laicità in quanto tale è essenzialmente profetica. Non esiste una laicità della fede che non sia profetica. Dal termine laicità siamo ricondotti al termine profezia e viceversa. Cosa vuol dire profezia? Lo si è visto: essere partecipi alla finalità del Cristo.
… Ci troviamo insomma dinanzi ad un radicale rimescolamento delle carte: non mondo e spiritualità, ma spiritualità nel mondo: è questo lo sguardo del cristiano. Non c’è alcuna separatezza tra mondo e spirito. La laicità è proprio lo sguardo che sopprime questa separatezza. E’ lo sguardo della fede, è lo sguardo di Gesù di Nazareth. Non questo mondo e l’altro mondo, ma questo mondo nella terrestrissima prospettiva della redenzione.
… Cosa era la Chiesa degli anni ’30 o ’40? Un altro mondo, contrapposto a questo mondo. C’era appunto un “mondo cattolico” e c’era un “mondo laico”. Due mondi diversi, contrapposti, che non si parlavano se non nella contrapposizione o, peggio, nell’indifferenza. La Chiesa come mondo separato è una Chiesa che si parla addosso. Una Chiesa clericale.
… Questa situazione si è rotta, è esplosa tra la fine degli anni ‘50 e ’60. La parola “esplosa” mi sembra la più appropriata: quanto più forte è stata la chiusura, tanto più liberante deve essere l’apertura. E dov’è l’apertura? Quali sono i modi di questa esplosione? La scoperta della laicità come dimensione propria della fede, la natura eminentemente profetica di questa laicità.
… La Chiesa è esattamente l’esplosione della separatezza di Israele. Non esiste, non può esistere un particolarismo cristiano, proprio perché il cristianesimo è il farsi universale del messaggio di salvezza: a tutti il mondo, per tutto il mondo. Ciò che fa esplodere questo universalismo è la morte e la resurrezione del Signore, Dio stesso.
… Sono riflessioni decisive per intendere tutto lo spessore della laicità. A me ricordano l’impeto lapiriano sulla resurrezione di Gesù che trascina il mondo in un vortice inesauribile, incontenibile. Il mondo. Tutto il mondo. Non solo la Chiesa o i cristiani, ma Kennedy, Kruscev, le guerre, le rivoluzioni del terzo mondo, la lotta per la pace. La Pira parlava di “terrazze apocalittiche” della storia contemporanea. E queste terrazze apocalittiche erano possibili, erano visibili, grazie alla resurrezione di Gesù. In questo senso tutta la storia dopo Cristo è storia contemporanea. Non esiste una storia sacra e una storia profana, ma una unica storia che è quella della salvezza. E questo si riverbera all’interno stesso della Chiesa, rimettendo in discussione modi di dire radicati. Affermerà Mario Castelli che non è vero che “la consecratio mundi” esprima “il compito proprio del laicato cristiano”. La consecratio mundi diventa “il fine stesso della Chiesa nella sua totalità: non come compito riguardante una creazione transitoria, ma come transito di ogni reale valore dallo stadio attuale della corruttibilità a quello futuro della incorruttibilità”.
Non esiste nemmeno una storia ecclesiastica. Qual è infatti la forma che assume la Chiesa e ogni battezzato nella morte e nella resurrezione del Signore? Quella del sale, quella del lievito. Una forma cioè che si scioglie, che non è per sé, ma per l’altro. E l’altro è il mondo intero. Non lo si dice nel testo, ma lo si lascia chiaramente capire: le forme del sale e del lievito sono forme eminentemente laicali. Esse non consistono in “essenze”, ma si dissolvono in relazioni, in dono di sé, perché il mondo cresca nella resurrezione.
… Laicità e profezia sono due facce della fede, due aspetti di una unica realtà. C’è una parola che può riassumere il rapporto tra Chiesa e mondo, ne parla Stancari nella sua lectio continua che cuce e ricuce le riflessioni del libro: amicizia. E’ una amicizia profonda, sconvolgente quella di cui si parla. Non un rapporto di buon vicinato, ma un amore che può arrivare fino alla morte, come quella di Gionata per Davide, di Gesù per noi.
… Arriviamo così all’ultimo punto che voglio toccare di questo volume. Ce ne sono tanti altri, ma questo mi è sembrato decisivo per cogliere fino in fondo questa rivoluzione della laicità.
Se la fede è in quanto fede laica e profetica che senso ha il sacerdozio? Non è il sacerdote figura tipica del sacro o di una Chiesa che si parla addosso? Espressione di una distinzione tra perfetti e non perfetti? Tra chi segue radicalmente Gesù e chi, invece, non lo segue radicalmente? E non è stata proprio la teologia del sacerdozio quella su cui si è costruita quell’immagine di Chiesa come Castello fortificato rispetto al mondo? Non sono tutti gli autori del volume sacerdoti, oltre che religiosi?
Non sono domande da poco. Possiamo riassumerle così: la laicità e la profezia come dimensioni proprie e profonde della fede non mettono in discussione il sacerdozio? Con questi interrogativi si cimenta il densissimo saggio di Francesco Rossi De Gasperis.
… La radicale innovazione portata da Gesù provoca un vero e proprio vuoto cultuale nella primitiva comunità cristiana: il Messia è un laico, i suoi capi non sono sacerdoti ma apostoli, anziani, gente assolutamente comune. E’ su questo vuoto cultuale che nasce una nuova realtà sacramentale: nell’eucarestia noi ripresentiamo l’unico e irripetibile sacrificio di Gesù per inserirci l’offerta che facciamo di noi stessi. Nell’eucarestia noi ci offriamo al Padre. Ci offriamo esistenzialmente. L’eucarestia è questa nostra offerta al Padre nella memoria dell’offerta di Cristo che solo rende possibile la nostra offerta. E quindi nell’eucarestia noi aboliamo anche ogni culto, ogni sacralità, ogni separatezza. “Lungi dall’essere puramente rituale, la liturgia sacramentale è solo un momento comunitario del culto essenziale del popolo”.
… Possiamo così chiudere questo viaggio con una riflessione di padre Pio Parisi:
E’ crollato il muro di Berlino e ne sono crollati tanti altri, ma noi purtroppo ne costruiamo sempre di nuovi alla ricerca di sicurezze che non sono quelle del Signore morto e risorto per la nostra salvezza. C’è un muro nella Chiesa, più grande della muraglia cinese, che dovrebbe difenderne il corpo ma che in realtà ne mura l’anima. Lo si chiami clericalismo o in altro modo, è tutto ciò che i cristiani costruiscono a prescindere da Dio, non fidandosi della sua Parola. E’ un muro fatto di elaborazioni culturali e di organizzazioni che sono cresciute nei secoli e che si riproducono dopo ogni piccola scossa e dopo ogni crollo. E’ stolto pensare che tale muro possa crollare con una spallata o servendosi degli arieti più potenti di cui è fornito il nostro mondo. Solo lo Spirito può farlo crollare impregnandolo di sé della carità, degli anticipi della Gerusalemme celeste.
12 ottobre 2002
Lettera di P. Pio Parisi a Clara Gennaro
Carissima Clara, Giorgio ed io, a partire da situazioni ovviamente molto diverse, siamo impegnati nella ricerca di ciò di cui c’è più bisogno nella Chiesa e nel mondo e che pensiamo di poter fare, e siamo persuasi che tu ci puoi aiutare. Prima che sulla tua competenza di storica contiamo sulla tua esperienza di vita.
Ecco la domanda di fondo: come chi cerca la sequela radicale del Signore, senza sentirsi chiamato a vivere sotto una regola, può oggi aprirsi pienamente alle responsabilità politiche.
Tu conosci abbastanza la mia situazione.
Giorgio, nell’Associazione San Pancrazio che opera da tredici anni nel degrado e nel disagio di Cosenza vecchia, è impegnato a tempo pieno con una scelta radicale di povertà e di celibato. Altri ed altre sono similmente impegnati, mossi dal desiderio di sequela del Signore, all’interno dell’associazione in cui operano a diversi gradi di impegno e con diverse motivazioni un’ottantina di persone. Tutto è nato dalla Parola e ne è continuamente alimentato grazie anche al servizio di Pino Stancari.
Nel loro impegno gli amici della San Pancrazio vedono una forte valenza politica nel senso di ricostruzione della polis, nel ritessere autentici rapporti sociali a partire dalla condivisione con quelli che sono più emarginati.
Ultimamente ho inviato loro qualche suggerimento che ti accludo.
Ed ecco alcune delle tantissime domande che vorremmo rivolgerti.
Quali sintonie cogli fra la tua e la nostra ricerca e che cosa ci puoi suggerire.
Chi conosci, singoli o gruppi, che si muovono in questa direzione e la cui esperienza potrebbe aiutarci.
C’è qualche punto particolare nella vita di Francesco e Chiara su cui concentrare la nostra attenzione, all’interno di tutta la santità della loro vita da cui già ci sentiamo illuminati e confortati? Così in altri movimenti spirituali laicali dell’epoca che tu più conosci. E in genere nei grandi eventi di vita consacrata con relative regole.
C’è un rapporto fra la responsabilità politica come si presenta ai nostri giorni e il vivere sotto una regola; ci sono stati momenti più oscuri o più luminosi?
È solo un’impressione che fino ad oggi la vita consacrata non abbia maturato una coscienza politica corrispondente agli alti livelli di amore di Dio e dei poveri?
Perché oggi la Chiesa come istituzione fa politica con scarsa profezia.
Le domande non finirebbero mai, ma questo è solo un inizio con la speranza di proseguire anche a viva voce. Un abbraccio e grazie anche da parte di Giorgio.
Pio
21 AGOSTO 2002
DEPOSITUM CHARITATIS
DELL’ ASS. SAN PANCRAZIO (Giorgio Marcello)
(S. Pancrazio è un quartiere di Cosenza)
Nella nostra esperienza dell’ associazione S.Pancrazio abbiamo fatto delle scelte che riteniamo conformi al Vangelo di Gesù Cristo.
Pensiamo sia utile ricordarle non per una compiacenza di noi stessi che ne sminuirebbe il significato, ma per una presa di coscienza più chiara che ci aiuti a proseguire e ci consenta di comunicare ad altri qualcosa che consideriamo un dono ricevuto.
Si tratta di facilitare una piccola tradizione, non per rimanere legati a forme del nostro passato, ma per essere meglio preparati a rispondere ai nuovi bisogni che ci si presenteranno in futuro. La tradizione bene intesa dispone all’ incontro con altre tradizioni vicine o lontane, incontro sempre positivo, anche quando mette in luce eventuali opposizioni, purché sia vissuto in umiltà e carità.
Ogni impegno per dar vita a una tradizione ci inserisce nella grande “tradizione di origine apostolica che progredisce nella Chiesa con l’ assistenza dello Spirito Santo” ( DV,8 ). La tradizione è l’ anima della Chiesa.
Si tratta di portare un contributo alla comunicazione profonda che è oggi particolarmente in difficoltà, anche fra quanti si professano credenti, nella società in cui stiamo vivendo.
Cerchiamo di creare un fondo, un deposito di carità. Nella lettera pastorale ( I Tim., 6,20 e II Tim. 1,14 ) si raccomanda di “custodire il buon deposito”. Il termine “depositum fidei” ha avuto grande importanza nella vita della Chiesa ( v. L. Bouier, Dictionnaire théologique, Desclée, 1963, voce Dépôt de la foi).
Sempre a partire dalla nostra esperienza di vita, noi possiamo parlare di un nostro “depositum charitatis” pensando che ne possa nascere un non piccolo contributo alla crescita della tradizione di origine apostolica.
Una carta in cui formulare alcune esperienze di scelte fatte per amore del prossimo può essere di qualche utilità. Evidentemente è un sussidio che presuppone le esperienze vissute e già comunicate, soprattutto con testimonianze.
E’ una carta sempre aperta a ulteriori contributi da parte di tutti, senza ombra di segretezza né timore di critiche.
Non si tratta di uno statuto o di una regola. La cura di un “depositum charitatis” potrebbe essere una indicazione preziosa per quanti, comunità religiose e associazioni di laici, di accorgono di star smarrendo il carisma fondativo.
Ecco qualche spunto per avviare una ricerca sull’ Associazione San Pancrazio
I PICCOLI.
Molti cercano i grandi per aiutare i piccoli: noi cerchiamo i piccoli con la convinzione che sono loro che possono salvare anche i grandi.
GRATUITA’
Non farsi pagare dalle persone che si cerca di aiutare e non farsi pagare da altri a motivo di ciò che si fa per aiutare.
La gratuità va bene al di là della rinuncia a un contraccambio economico; riguarda ogni forma di compenso sul piano dell’ immagine, su quello affettivo, ecc. E’ come una discesa senza fondo, un distacco progressivo da tante cose che il nostro cuore desidera. E’ possibile solo nell’ amore che si fonda sulla contemplazione del mistero della persona e di Dio.
Ci sono tuttavia dei limiti nella gratuità che derivano da noi stessi ( quel che io posso fare ) e dal bene di coloro a cui ci rivolgiamo. Non possiamo, per esempio, non desiderare che il nostro affetto sia ricambiato: la gratitudine, infatti, è un bene fondamentale per tutti.
Non farsi pagare per quello che si fa cercando di aiutare gli altri: è il problema dei finanziamenti. Si tratta di andare contro una corrente, impetuosa e travolgente: tanti cercano in ogni modo dei finanziamenti per fare del bene senza accorgersi di quanto si rimane legati. Si coltivano innumerevoli compromessi senza accorgersi che si diventa tossico dipendenti.
IL COINVOLGIMENTO
Il coinvolgimento nei problemi degli altri è richiesto ed è la via alla pace tra i singoli e tra i popoli. Mantenere le distanze è un’ offesa in tante direzioni.
Essendo in più persone a cercare di aiutare gli altri ci si accorge ben presto:
che i loro bisogni sono molteplici e strettamente legati l’uno all’altro;
che per questo è necessaria una stretta collaborazione fra quanti si propongono di aiutare;
che in tal modo si inizia una v era comunità;
che l’ aiuto comunitario a chi è in difficoltà porta a vivere una comunità composta da quelli che aiutano e da quelli che vengono aiutati;
questa comunità integrata è il germe di una sana convivenza umana;
il punto di partenza è il bisogno dei più piccoli e il riconoscimento pienamente gratuito del loro valore, con l’ azzeramento di ogni senso di superiorità.
Questo coinvolgimento è sempre più necessario nella società attuale così frammentata nella globalizzazione.
L’ INCOMPRENSIONE E IL SUCCESSO
Non scegliamo l’ incomprensione, che è un fatto negativo, ma facciamo scelte pur sapendo che non saranno comprese. Sappiamo che saremo presi per matti ma non per questo ci tiriamo indietro.
Particolarmente dolorosa è l’ incomprensione di quanti, si dichiarino o meno cristiani, approvano le nostre opere ma suggeriscono moderazione e strane mediazioni nell’ amore del prossimo, a partire dai piccoli, con gratuità e coinvolgimento.
Cerchiamo il successo in tutto quello che facciamo, predisponendo mezzi adatti al fine, itinerari che conducano alla meta. Ma cerchiamo con attenzione che ogni mezzo sia adatto al fine. Così sperimentiamo una serie continua di insuccessi, che tali sono considerati dai più, ma che non ci fanno cambiare rotta quando sappiamo di aver fatto quello che era possibile per andare incontro a ciò di cui c’è bisogno.
LA COSCIENZA POLITICA
Mentre cerchiamo di aiutare i più piccoli ci sforziamo di comprendere le cause della loro condizione e scopriamo di giorno in giorno le ingiustizie che ci sono nel mondo.
Prendiamo in tal modo coscienza delle responsabilità nostre e di tanti altri che sembrano non esserne consapevoli.
Scegliamo per questo di aver sempre presente l’ obiettivo di una coscienza politica che si traduca nel modo di vivere e di operare.
Inseriti in un sistema, non ci si può dichiarare neutrali, tirarsi fuori a qualsiasi titolo. L’ attuale mancanza di coscienza politica, che da quelli che stanno bene nella società sembra spesso che si trasmetta anche a chi è meno favorito, è un male gravissimo, la cui cura sta certamente fra le cose di cui c’è più bisogno, e noi pensiamo di poter fare qualcosa.
Alla radice di questo male c’è anche un fatto culturale: il sequestro del termine politica da parte del potere e di chi lo gestisce. Politica uguale ricerca e gestione del potere. Fra le conseguenze, c’è l’assurda qualificazione della gestione del potere con la carità cristiana.
Tuttavia, pensiamo che la politica popolare, anche se negata, è quella che salva il mondo, come la gratuità nei confronti dell’ economia.
LA PRECARIETA’
Non è in sé desiderabile, ma l’ accettiamo come condizione di verità e di disponibilità a scegliere di fare ciò di cui c’è più bisogno.
La coscienza della precarietà è fondamento della verità sulla condizione umana e naturale. Si scoprono livelli sempre più profondi di precarietà fino all’ affidarsi pienamente a un Altro, al Padre.
UN AFFANNO CONTROLLATO
Il nostro cuore è inquieto finché non riposa nel Signore. Inquietudine e affanno sono inevitabili quando ci si apre al grido dell’ umanità.
Riconoscendo tuttavia i nostri limiti, dobbiamo controllare l’ affanno in modo che sia sostenibile.
Questo vale per l’ affanno personale e per quello della Associazione e di qualunque momento di impegno comunitario.
L’ ECCLESIALITA’
Sentendo parlare di ecclesialità, molti, che pur sono attratti da Gesù Cristo, provano un forte disagio. La Chiesa per loro non lascia trasparire Gesù Cristo.
Noi cerchiamo di essere Chiesa trasparente, liberandoci da quanto offusca la luce di Cristo, soprattutto dalla seduzione delle innumerevoli forme del potere, “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Ebr. 12,2).
Non rinunciamo alla qualifica “ecclesiale”, pur sapendo la reazione negativa che questa produce, perché sentiamo tutta l’ urgenza di contribuire alla riforma della Chiesa.
IL RAPPORTO CON LA PAROLA
E’ all’ origine dell’ Associazione San Pancrazio e continua ad alimentarla.
15 ottobre 2002
Lettera di Clara Gennaro a Pio Parisi e Giorgio Marcello
Carissimi Pio e Giorgio, grazie della fiducia e delle comunicazioni. Con Pio mi sento in comunione da sempre: pur quando la comunicazione non è diretta, la sua è una delle grandi amicizie che mi sostengono, è una radice profonda che porto in me, che mi spinge a non impigrirmi nella tensione che unica dà senso alla vita.
Di te, Giorgio, sento con gioia, nella convinzione rafforzata che lo Spirito fa sorgere costantemente degli uomini “svegli” (“Svegliati, o tu che dormi…”).
Affrontare il discorso in tutta la sua complessità, secondo quanto mi avete scritto, è più che difficile. Poco per volta cercherò di rispondere ai grandi quesiti che mi ponete, come so.
Sento necessaria, tuttavia una precisazione, nello Spirito di verità che non può essere tradito, tanto più quando la comunicazione si fa profonda.
Quanto dirò cercando di rispondere alle domande che ponete voi e a me è detto dalla parte più vera e grande che è in me, che viene dall’Alto, non da me e che cerco con molta fatica di far vivere e di dare qualche frutto, pur se povero e stento.
La povertà confina spesso in modo molto stretto con la miseria, come su ognuno che accosti nella verità i poveri.
Per questo mi sento a disagio quando si pensi a me come vorrei essere e non poi come finisco ad essere.
Cerco ora di rispondere alla domanda: “quali sintonie cogli tra la tua e la nostra ricerca e che cosa ci puoi suggerire?”.
La sintonia mi pare profonda e vasta. Pur se nei condizionamenti a cui ho accennato, avverto sempre più il desiderio di Dio, di un amore che riempia tutto l’universo, che sia rifugio e resurrezione per ogni vita ferita. Il capitolo 8 della Lettera ai Romani mi pare dar voce a quanto non so esprimere di dolore e di desiderio per tutta la creazione.
La mia invocazione più abissale è: “chi ci libererà da questo corpo di morte?”.
Mi pare che la comunione tra noi sia molto profonda nella ricerca e nella coltivazione della compassione e della misericordia. Dio in Cristo ha mostrato a noi poveri il volto di un Dio compassionevole e pieno d’amore.
Chiara parla degli uomini – lo dico in latino, come lo scrive, perché mi pare più luminoso – “qui erant (e aggiungerei “che sono”) pauperrimi et egeni, caelestis pabuli sufferentes nimiam egestatem” (lettera 1° par. 20).
Sento questa indigenza, questo vuoto e questa assenza e questa fame.
Questa fame, questa indigenza sono di ogni uomo, di chi è nell’abbondanza e di chi è privo di ogni mezzo di sussistenza.
Si può com-patire (e non esternamente avere compassione) se si avverte dentro di sé questo vuoto, questa assenza e se si è avvertito, in qualche modo, in qualche momento donato, la grandezza, la dolcezza, la profondità della pienezza di Dio, dire: “Signore, dacci di questo pane”.
Ma non a me, a noi soli, ma a tutti, perché nessuno vada perduto.
Sento nel povero con cui “com-patisco” quest’esigenza, che è terrorizzata venga delusa, questa angoscia di essere caduta in un vuoto d’insignificanza e di miseria.
La sento – palpabile, pervasiva, angosciata – intorno a me in mille vite.
Invoco il Dio della misericordia e della pienezza: “Dove andremo?” dice Pietro che ci dice tutti.
La dimensione politica di questo dolore, di questa assenza di senso e di questo desiderio di vita nella pienezza mi pare sia indisgiungibile dallo sguardo che Cristo ci ha aperto sugli uomini e su tutta la realtà.
L’idolatria del mercato e del denaro, che cancella uomini, valori, universi gridano vendetta al cospetto di Dio.
Credo che Giorgio, tu, Pio e ogni cristiano che provi a vivere il Vangelo creano “zolle di vita nuova”, come direbbe Michele.
La comunità di San Pancrazio mi pare lo sia, tu, Pio, con i tuoi ragazzi, con la tua presenza, con la tua trasparenza di Cristo lo sei. Michele (e Nerina) con la malata mentale, Rita e con Edoardo, l’analfabeta malato che vivono con loro e con la pura ricerca di Dio senza infingimenti e in piena verità. Anche Luciano con una vita nascosta e povera con amore grande e puro lo vive nella presenza costante accanto ai tanti volti della povertà.
Questa è la vera Chiesa, la comunione dei santi e delle cose sante, di cui parla Michele.
La mia formazione – fatta in un rapporto profondo con mia mamma, con mio zio Manlio, con cui passavo i mesi estivi, seduta adolescente ad ascoltare discorsi politici e discorsi su popoli poveri e i miei studi storici mi hanno fatto sentire – com.patire il dolore della storia (Manzoni ha ben espresso questa dimensione).
Vite infinite che si sono succedute e che si succedono: perché? Dove dirette? E’ lo stesso sentimento che mi prende di fronte alle fiumane all’uscita di una metropolitana o anche solo su un tram.
Politica è partecipare di queste vite, non sentirsene fuori.
E’ lo sguardo di Gesù che sente compassione di queste folle.
E’ anche ciò che sento quando leggo Kapucinski (“Ebano” i mille volti della povertà in Africa), Naipanl (Fedeli a oltranza), Ghosh. E’ un mondo a me estraneo che scopro.
Per me la Parola di Dio si svela anche attraverso la poesia e la letteratura.
Sulla povertà del vivere al di fuori del matrimonio e di regole (ordine) dirò un’altra volta.
Per ora vi mando questi primi pensieri.
Un abbraccio fraterno nella comune speranza.
Clara
All. – Clara Gennaro, Francesco uomo di preghiera
Don Luigi Bozzoli, Al mio amico vescovo…
Clara Gennaro, STATIO VI: L’incontro con la Veronica
novembre 2002
Lettera di Pio a Giorgio Marcello
Caro Giorgio, scrivo ancora a te come primo passo di una comunicazione che, arricchendosi della tua e di altre esperienze, spero divenga il più estesa possibile.
Quanto ti comunico è frutto di un intreccio fra un sogno che vado facendo da tanti anni e la considerazione di quello che tu e la S. Pancrazio realmente fate. Risponde quindi alla domanda chiave: di che cosa c’è più bisogno che noi possiamo fare e, al tempo stesso, constata con grande speranza che c’è qualcuno che sta già facendo ciò di cui c’è, più urgentemente, bisogno.
Mi rifaccio alle tre paginette su “Spirito e strutture” che scrissi e vi consegnai in occasione dell’ultimo incontro a via Popilia.
Poi tu mi hai sollecitato ad approfondire il tema della vita consacrata e mi sono trovato pienamente d’accordo.
Nella prima delle tre paginette su “Spirito e strutture” c’è come un’inquadratura globale di quello che sto per comunicare, inquadratura che non è altro che la ricerca che ha riempito la mia vita. Avrei tante cose da raccontare che potrebbero essere utili a qualcuno. Non lo faccio ora.
Una novità nella vita consacrata
A pag. 3 di “Spirito e strutture” al 6° e 7° paragrafo:
una novità nei nostri tempi potrebbe essere una vita “consacrata” che fino ad oggi è stata concepita e praticata nell’obbedienza a una regola, che sia vissuta com’unitariamente fondandosi sull’ascolto della Parola e sull’amicizia spirituale.
Questa novità potrebbe essere una risposta evangelica ad un aggravarsi molto forte delle responsabilità politiche per la continuazione della storia umana.
Una novità dei nostri tempi: quello di cui c’è più bisogno che io possa fare.
Una vita consacrata: prima di parlare di comunità, rivolgiamo l’attenzione all’impegno personale (che postula la comunità).
Che significa consacrata? E’ in primo luogo la consacrazione del battesimo nella morte e resurrezione di Cristo, che è già una scelta radicale a cui non c’è nulla propriamente da aggiungere.
S’intende il battesimo vissuto nella fede.
Una vita consacrata che fino ad oggi è stata concepita e praticata nell’ubbidienza a una regola. E’ un fatto certamente positivo e provvidenziale ma che non esclude un’alternativa: fondarsi sul solo battesimo. Vita consacrata vissuta com’unitariamente, fondandosi sull’ascolto della Parola e sull’amicizia spirituale.
Torniamo all’esigenza di vita comunitaria non più fondata su una normativa ma
sull’ascolto della Parola
che accomuna (ecclesia)
anzi è l’unico autentico fondamento della comunità cristiana, anche se può avvenire
in forma molto diverse
sull’amicizia spirituale e la comunicazione spirituale delle proprie esperienze.
Non si tratta di dibattere delle idee ma di comunicare esperienze di vita. Comunicare è donare agli altri qualcosa di personale, esclude ogni polemica, ogni volontà di prevalere, è un fatto di gratuità.
La comunicazione è spirituale nel senso che è mossa dallo spirito, che è appunto la sorgente del dono ed esclude ogni intervento proprietario.
Il metodo della comunicazione spirituale fa sì che ognuno parli di quel che vive e che sente di poter partecipare agli altri. Questo rende difficile ogni tematizzazione, ogni programmazione di temi e di tempi della ricerca. Non è tuttavia un arrendersi alla frammentazione o al disordine, perché in quanto comunicazione nella docilità allo spirito, realizza il massimo di unità organica e di continuità. 1
Questa novità potrebbe essere una risposta evangelica ad un aggravarsi molto forte delle responsabilità politiche per la continuazione della storia umana.
Questa novità. Nessuna pretesa di essere l’unica novità nel presente, né una novità assoluta rispetto al passato. Abbiamo già preso coscienza di quanto la nostra ricerca si alimenti dell’esperienza di Francesco d’Assisi.
Potrebbe essere una risposta evangelica: non abbiamo alcuna certezza di essere nel presente e di riuscire ad essere nel futuro quel che oggi desideriamo, ci sembra sinceramente, di voler essere. L’incertezza è grande soprattutto riguardo all’autenticità della nostra adesione al Vangelo che pure ci sembra il punto di partenza di tutta la nostra ricerca.
Ad un aggravarsi molto forte delle nostre responsabilità politiche. Qui ci si fonda sul concetto di “coscienza politica” su cui tanto ho scritto dal ’75 e che pur sembrando molto semplice passa difficilmente nelle coscienze attuali, in particolare dei cristiani, perché rinchiuse in recinti vari di carattere culturale, etico, religioso… Comunque si tratta della responsabilità verso quel che succede nel mondo a cui siamo sempre più legati nel vari processi di globalizzazione.
Per la continuazione della storia umana. Ci diciamo spesso: “così dove si va a finire”, ma si dovrebbe non dimenticare “dove siamo andati a finire”, cioè il male presente nel mondo.
A tanto male occorre cercare una risposta radicale, quella che con evidenza ci viene proposta dal Vangelo.
In che modo questa consacrazione può rispondere al bisogno di continuare la storia umana.
E’ nata e si alimenta continuamente della parola di Dio
Di conseguenza si apre alla radicalità cristiana “con tutto il cuore, con tutta la mente…”. Non propone mediazioni di compromesso con lo spirito cristiano.
Cerca la vera laicità, profezia del popolo di Dio nel mondo (Castelli)
nel coinvolgimento pieno con la vita e i problemi dei piccoli e dei poveri
nella coscienza della dimensione politica dell’esistenza umana.
Trova la comunione attraverso una profonda amicizia spirituale, più che regole e statuti.
Sperimenta il nesso tra la coscienza politica che richiede un discernimento continuo dei mutamenti e quindi una comunicazione delle varie esperienze spirituali, e la piena libertà nei confronti di regole e norme.
E’ nata e si alimenta continuamente della parola di Dio.
Riportare come esempio e non come alimentazione esclusiva le lectio di Pino Stancari.
Di conseguenza si apre alla radicalità cristiana. Questa radicalità parte chiaramente da Dio che è tutto per noi come Padre creatore, Figlio redentore e Spirito santificatore. La radicalità della nostra risposta “amerai il Signore con tutto il cuore e con tutta la mente e il prossimo come te stesso”. Non propone mediazioni di compromesso con lo spirito mondano come fanno quelli che non capiscono il senso profondo di “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”.
Ma l’ostacolo maggiore alla radicalità viene, forse, dal fatto che sperimentandoci inadempienti, invece di riconoscerci peccatori e affidarci alla misericordia di Dio, ipotizziamo itinerari cristiani accomodati ai nostri limiti e… ai nostri gusti. Così ci allontaniamo dal Mistero di Dio.
Cerca la vera laicità, profezia del popolo di Dio nel mondo.
Per la comprensione di questo punto fondamentale abbiamo gli scritti raccolti nel volume “Dialoghi sulla laicità”, una miniera ancora quasi tutta da sfruttare.
Recentemente mi è capitato un altro termine biblico che ci può aiutare a comprendere la laicità: la conversazione, la conversatio cristiana che va dalle quattro chiacchiere, spesso giudicanti, al nostro pensare interiormente e alla nostra ricerca di fondo delle cose, richiede una conversione continua della lingua, del pensiero, del cuore e per essa può passare la potenza dello Spirito per il rinnovamento di innumerevoli cose.
Laicità nel coinvolgimento pieno con la vita e i problemi dei piccoli e dei poveri.
Questo coinvolgimento è un momento essenziale della nostra personale conversione a Dio e dei nostro impegno per cambiare il mondo nelle sue innumerevoli storture.
Questo coinvolgimento è pieno quando investe tutta la nostra vita, dal modo di usare e possedere i beni materiali alla tranquillità interiore.
“L’uomo nel benessere non comprende
è come gli animali che periscono”
(Salmo 48, 13-21)
E’ un cammino progressivo verso un coinvolgimento totale: innumerevoli possono essere le tappe proporzionate alle nostre forze ma la meta è unica: Gerusalemme dove il Signore è stato ucciso ed è risorto.
Chi non patisce non compatisce… e non capisce.
Ma anche chi compatisce patisce sempre di più di tutta la sofferenza umana e la sua vita interiore diventa invocazione incessante del Salvatore.
Laicità nella coscienza politica dell’esistenza umana.
Qui esporre il grande blocco culturale e morale che si è formato sul concetto di politica catturato dal potere.
Trova la comunione attraverso una profonda amicizia spirituale, più che regole e statuti.
Vedi il pensiero di Benedetto Calati sull’amicizia come sacramento.
Sperimenta il nesso tra la coscienza politica, che richiede un discernimento continuo dei mutamenti e quindi una comunicazione delle varie esperienze spirituali, e la piena libertà nei confronti di regole e norme.
Quel che ho chiesto infinite volte ai superiori.
Quel che ho vissuto intensamente con i dialoghi sulla laicità e con innumerevoli altri rapporti, fino alla recente esperienza di due giorni all’ospedale S. Camillo.
La composizione dell’Associazione San Pancrazio per esempio può favorire tutto questo. La stessa radicalità che nasce dall’ascolto della Parola può essere vissuta in forme diverse. C’è chi sceglie il celibato, chi si sposa, chi rinunzia ai lavori “riconosciuti”, chi s’impegna in un lavoro retribuito.
Mi sembra che, come per S. Francesco, la radicalità evangelica vada cercata soprattutto nella povertà.
La ricerca di una vita “consacrata” in modo comunitario ma senza regole può essere un importante stimolo a riscoprire la consacrazione fondamentale che è il battesimo. Sarebbe un passo avanti molto importante per uscire dal clericalismo.
Caro Giorgio, quanto fin qui esposto, dopo tutto quello che ci siamo detti a voce e negli scritti, mi sembra abbastanza chiaro.
Il tutto va confortato con l’esposizione delle tue esperienze, di quelle della S. Pancrazio e poi di tanti altri, come quelle religiose di cui mi hai scritto.
Poi ci sarebbero da consultare vari amici come abbiamo fatto con Clara Gennaro, Bottoni, Fusarelli, Chiara Patrizia… fino a Secondin.
Bisognerebbe poi mettere in luce questa proposta in rapporto alla necessità attuale di riforma della Chiesa.
Infine illuminare l’attualità politica di tutto questo. Il lavoro non manca, è chiaramente superiore alle nostre forze, ma lo Spirito viene incontro alla nostra debolezza, e colui che ha iniziato in noi questa opera buona la porterà a compimento.
Pio Parisi
Spirito e struttura – Pio Parisi – 16 novembre 2002
Spunti per avviare una ricerca
Nei primi anni ’70, mi accorsi che questo tema richiedeva un serio approfondimento 2. Oggi ne sono ancora di più persuaso e mi sembra di cogliere meglio come l’illuminazione più urgente e più profonda venga dalla parola di Dio, e in particolare dalla rivelazione dello “spirito”.
E’ necessario considerare i molteplici significati del termine “spirito”, fino al “mistero” della persona umana che può essere risolto in discorsi vaghi e sfuggenti ma che in realtà è ciò che di più concreto esiste, con cui siamo chiamati a fare i conti in ogni momenti e in ogni situazione.
E’ parimenti necessario considerare i molteplici significati del termine “struttura”.
La congiunzione “e” sta per tutti i possibili rapporti tra spirito e strutture. Mi pare che una stessa realtà può essere spirito di una struttura e struttura di un livello superiore di spirito; per esempio, un’ideologia.
E’ opportuno iniziare con una breve riflessione sul senso della parola (latino, declaratio terminorum), senza però soffermarcisi troppo.
Una teoria generale appena abbozzata: solo lo Spirito può essere la causa della crescita della persona e della società, ma le strutture ne sono la “conditio sine qua non”, la condizione necessaria. L’azione della struttura che ignora lo spirito è negativa così come quella sullo spirito che ignora la struttura è evasiva.
Il metodo adatto a questa ricerca è la comunicazione spirituale delle proprie esperienze.
Non si tratta di dibattere delle idee ma di comunicare esperienze di vita. Comunicare è donare agli altri qualcosa di personale, esclude quindi ogni polemica, ogni volontà di prevalere, è un fatto di gratuità.
La comunicazione è spirituale nel senso che è mossa dallo spirito, che è appunto la sorgente del dono ed esclude ogni intento proprietario.
Il metodo della comunicazione spirituale fa sì che ognuno parli di quel che vive e che sente di poter partecipare agli altri. Questo rende difficile ogni tematizzazione, ogni programmazione di temi e di tempi della ricerca. Non è tuttavia un arrendersi alla frammentazione o al disordine, perché in quanto comunicazione nella docilità allo spirito, realizza il massimo di unità organica e di continuità.
Nel ’75, trattando di coscienza politica ho affrontato il tema spirito e struttura per comprendere qualcosa di quello che poteva allora essere l’intervento politico più necessario. Le mie proposte non furono prese in considerazione da quelli che erano considerati i grandi attori della politica, anzi mi pare che perlopiù si sia fatto tutto il contrario e i risultati negativi dovrebbero confermare la validità di quanto proponevo.
Non fa eccezione l’operato della Chiesa gerarchica e di quanti nella Chiesa contano secondo valutazioni mondane.
Oggi, quale speranza per la politica
La speranza è unica: la conversione al Vangelo.
Precisando che tale conversione
è opera dello Spirito
è cambiamento radicale
è essenzialmente un evento comunitario, ecclesiale
è pienamente laicale, nel senso di carità per il mondo (Castelli)
è il maturare di una vera coscienza politica, presupposto di azione politica valida.
La dimensione comunitaria è essenziale ma, ed è qui che ci può essere una forte novità, si deve basare soprattutto sull’amicizia spirituale, cioè su una comunicazione pienamente gratuita delle proprie esperienze spirituali. Ogni forma di regole, di statuto, d’impegni formali è radicalmente insufficiente e può essere un ostacolo, anche insuperabile.
L’unica garanzia, se ha senso di cercarne una, deve essere cercata nello Spirito e nella Parola.
Per questo a Quaresima suggerii una riflessione sul “depositum charitatis” dell’Associazione San Pancrazio, che può essere ancora più necessaria quanto più si accentuano disomogeneità interne che portano a crisi profonde.
La novità evangelica che vedo e che spero nell’Associazione San Pancrazio.
È nata e si alimenta continuamente della parola di Dio.
Di conseguenza si apre alla radicalità cristiana “con tutto il cuore, con tutta la mente…”. Non propone mediazioni di compromesso con lo spirito mondano.
Cerca la vera laicità, profezia del popolo di Dio nel mondo (Castelli):
nel coinvolgimento pieno con la vita e i problemi dei piccoli e dei poveri
nella coscienza della dimensione politica dell’esistenza umana
Trova la comunione attraverso una profonda amicizia spirituale, più che regole e statuti.
Sperimenta il nesso tra la coscienza politica, che richiede un discernimento continuo dei mutamenti e quindi una comunicazione delle varie esperienze spirituali, e la piena libertà nei confronti di regole e norme.
Una novità nei nostri tempi potrebbe essere una cita “consacrata”, che fino ad oggi è stata concepita e praticata nell’ubbidienza a una regola, che sia vissuta com’unitariamente fondandosi
sull’ascolto della Parola
e sull’amicizia spirituale.
Questa novità potrebbe essere una risposta evangelica ad un aggravarsi molto forte delle responsabilità politiche per la continuazione della storia umana.
La composizione dell’Associazione San Pancrazio può favorire tutto questo. La stessa radicalità che nasce dall’ascolto della Parola può essere vissuta in forme diverse. C’è chi sceglie il celibato, chi si sposa, chi rinunzia ai lavori “riconosciuti”, chi s’impegna in un lavoro retribuito.
Mi sembra che, come era per San Francesco, la radicalità evangelica vada cercata soprattutto nella povertà.
La ricerca di una vita “consacrata” in modo comunitario ma senza regole può essere un importante stimolo a riscoprire la consacrazione fondamentale che è il battesimo. Sarebbe un passo avanti molto importante per uscire dal clericalismo.
2 marzo 2003
Pino Trotta
Pino risponde alla mia richiesta di un suo parere su alcuni miei appunti.
“Ho letto in questi giorni le bozze del libro di Castelli, e anche con lui ho avuto la stessa impressione: stare ad ascoltare. Ma perché questa incapacità di critica, questa esigenza di solo ascolto. Perché vi intravedo la verità di una esperienza inconfutabile, sofferta, rispetto alla quale la mia mi pare davvero povera cosa.
Ho scoperto da te cosa vuol dire “conversione” e cosa vuol dire invece cultura religiosa, cosa vuol dire ascoltare la Parola e cosa vuol dire, invece, parlare sulla Parola. Contraddizioni in cui sono passato anche io e che tu mi hai smontato tra le mani. Certo, dietro quella passione per le letture c’era un’inquietudine che portava proprio lì dove tu stavi: la vita cristiana, il seguire Gesù povero, oltre le tante chiacchiere della teologia. E seguirlo con la vita. Solo che quella soglia per me è stata sempre un tormento. Te l’ho scritto tante volte: un senso irrimediabile di spaesamento che si calmava nelle nostre conversazioni, nella nostra amicizia. Ho rincorso le tue idee con convinzione, perché vi vedevo e vi vedo una esperienza cristiana nel mondo. Non mi restava che mettermi in ascolto della tua esperienza e cosa essa dettava al tuo cuore e alla tua mente. E’ come se uno, svuotato di qualsiasi autenticità, andasse alla ricerca di qualcuno con cui cercare di capire questo suo svuotamento, di riempirlo con parole che salvino dalla propria tristezza e dal proprio dolore. Sergio prima e poi tu siete stati questo riferimento. Per questo non riesco a vedere a distanza, non riesco a contraddire. Sento mie le cose che scrivi, che cerco di capire. Quello che non posso sentire è la profondità della tua fede, quel tuo immergerti nella contemplazione. Io ne vivo ai margini. Anche io mi dichiaro credente in Gesù, in pubblico e in privato, ma poi in me sento tutta la distanza che passa tra chi vive di fede e chi vive di una tensione irrisolta alla fede stessa.
Il quadro che fai della tue meditazioni a volte mi lascia frastornato, come già ti ho detto, per questa tua volontà di completezza: una mappa di problemi, articolata, complessa, quasi capillare. Io la leggo come una lectio sul mondo. E la leggo con interesse, perché non conosco altro sguardo cristiano che affronti i problemi della storia, della politica, del potere, della società a partire dal Vangelo. E’ come vedere il mondo capovolto. Uno sguardo strabico, una vita strabica, se non ci si immette in quel cammino di conversione che è la chiave del tuo discorso. All’interno di questo cammino le tue riflessioni acquistano una profondità inaspettata, le si capiscono d’un tratto, non con il lavoro di un lungo pensiero, ma come per illuminazione che lega una cosa all’altra, facendone vedere la coerenza interiore.
Fuori dal potere e dal mercato, dentro la gratuità e l’umiliazione, in quella nullificazione della croce che solo porta la salvezza e fa comprendere come in questo mondo così amaro si preparino e agiscano segni di salvezza. Io non sempre riesco a vedere queste cose. Mi basta che le veda tu. Non fa parte dell’amicizia questo affidarsi?
aprile 2003
Lettera di Clara Gennaro a Giorgio, Pio e Pino
Appunti su Vita consacrata per Giorgio, Pio e Pino
Vita consacrata
E’ un’espressione che non amo.
C’è forse una vita che non lo sia o che non sia chiamato ad esserlo?
Io credo, anzi, che ogni vita – anche di chi non si dica cristiano – sia consacrata.
E’ Dio che chiama a nascere, ad essere e su ogni vita Egli pone il suo sacro sigillo.
Il cristiano ed ogni credente ne ha solo un’umbratile consapevolezza.
“Sacrum facere”
Il credente è chiamato a sacrum facere: a vivere cioè ogni momento della propria vita nella memoria di Dio, alla sua presenza, perchè tutto viene da Lui e da Lui è chiamato a tornare. Come scrive sorella Maria di Campello3 : “L’anima che vive alla presenza di Dio nella comunione delle cose sante può ricevere da tutto un messaggio”.
In questo orientamento ogni atto della vita del cristiano si illumina di una luce trasfigurata, porta una memoria e una scintilla di divino.
Gesù chiama Lazzaro: “Vieni fuori!”. Egli libera l’uomo dalla sua prigionia, dall’essere consegnato alle cose e a quel duro guscio dell’io in cui l’uomo disperatamente chiude la sua vita, patendone.
I due sacramenti
La nostra regola
Gesù ci ha consegnato i due sacramenti. Il battesimo e l’eucarestia questi sono la ‘nostra regola’. Sono le due dimensioni di una vita risorta o meglio di una vita che, pur arrancando, è in cammino verso la resurrezione.
Il battesimo.
Il battesimo è l’apertura alla vita, alla vita unica, quella di cui abbiamo sete, alla vita dello Spirito. Come la vita e il cammino di Gesù essa passa necessariamente per la morte. Il battesimo, infatti, è la purificazione, la liberazione da tutte le cose morte della nostra vita.
Ne risorgiamo confessando nella speranza: “Non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me”.
E’ – come dice il rito che nei secoli ha lasciato trasparire qualcosa della luce che ne è all’origine – Dio che apre tutti i nostri sensi, le nostre facoltà – l’effeta – a tutto ciò che c’è di sacro, di bello, di buono nella vita.
E’ la luce che si apre di fronte agli occhi dello Spirito e che ci fa vedere la realtà illuminata di bellezza e di bontà. E’ la luce che vede l’”occhio buono”, capace di guardare con amore e con misericordia ogni uomo ed ogni creatura.
L’uomo “rinato dall’alto” colloquia con Dio come Adamo nell’Eden sul far della sera. Di questo facciamo esperienza felice solo per brevi sprazzi, ma da questi emergiamo vivi e benedicenti come non mai.
L’eucarestia.
L’eucarestia ci svela tutto. Tutto ciò che è necessario per vivere e per dare vita.
I due racconti della Cena Ultima – quello dei sinottici e quello di Giovanni – convergono e si illuminano a vicenda.
Gesù prende in mano – nelle sue mani sante e venerabili – il pane, alza gli occhi al cielo, lo benedice, lo spezza e lo distribuisce ai suoi amici e ci chiama “a fare questo in memoria” di Lui.
PRENDERE IN MANO la propria vita non per rinchiudervisi, per appropriarsene.
Questo pane – questa vita – si apre agli spazi sconfinati di Dio, viene innalzata, accoglie in se la luce di Dio.
Negli Atti Stefano nella consegna della sua vita “pieno di Spirito Santo con lo sguardo fisso al cielo”, “vede i cieli aperti” (Atti, 8, 55-56).
Non una vita schiacciata a terra, ma una vita in cui cielo e terra comunicano.
Una vita “oltre”, già qui ed ora.
LA BENEDIZIONE è l’invocazione perchè questa comunione trasformi la nostra vita.
LO SPEZZO’. La vita che si apre a Dio non può che essere spezzata e donata. La comunione con Dio mi dis-appropria, mi rende povera, mi dà consapevolezza che tutto è da Lui e quindi nulla è più mio.
Una povertà che è lacerazione, ma anche liberazione, perchè dà un respiro profondo alla vita, che la rende vita.
“ FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME”.
E cosa altro potremmo fare se non questo in memoria di Te?
E’ questo che Tu ci consegni perchè anche noi siamo pane spezzato e donato, che dà e riceve vita.
Ma “come può essere questo”? Perchè io “conosco uomo”, so come tarda, pigra e vile la mia carne.
“Fate questo in memoria di me”. E’ da Te e solo da Te che può venire la forza che mi libera dalle cose morte della mia vita e che mi può rendere capace di essere pane spezzato e donato.
Giovanni – che sa tutto, che ha riposto il suo capo sul cuore di Gesù, e proprio nella Cena Ultima – parla della LAVANDA DEI PIEDI.
E’ questo lo spezzare il pane: l’inginocchiarsi davanti al Povero, che è l’uomo perchè solo stando in basso si può vedere e servire l’uomo.
Se ne lavano i piedi perchè lungo la strada non c’è piede che non si ricopra di polvere, che non si ferisca, che non sia dolente e stanco.
Il cristiano – ed ogni uomo – è chiamato a questo ufficio essenziale, a farsi carico della povertà, dell’oscurità, dell’ombra, dell’altro. E’ un atto di umiltà e di amore che risuscita l’altro, che gli dà forza e coraggio per riprendere la strada.
Il chinarsi di fronte all’oscurità dell’altro ci fa poveri, sappiamo, infatti, come anche di fronte a noi Gesù si inginocchia e si fa carico delle nostre povertà.
E’ solo accettando che Dio si inginocchi ai nostri piedi e che ci purifichi e compiendo a nostra volta questo atto ai nostri fratelli che possiamo “avere parte” alla vita di Dio.
Vita del cristiano.
Gesù non ha avvertito l’esigenza di creare dei “monaci”, degli uomini e delle donne che vivessero secondo una “regola”, eppure Qumram e in altri gruppi che probabilmente aveva conosciuto da vicino aveva avuto conoscenza di questo tipo di esperienza.
Gesù chiama ad una vita che, aperta agli spazi sterminati di Dio, crei comunione, amicizia con gli uomini e con il creato, che li faccia ascendere ad una vita più piena, più alta, ad una vita in cui Dio sia tutto in tutti.
Ritengo – e non da sola 4 - che sia falsa la distinzione tra chi è chiamato a vivere il cristianesimo nella radicalità – i religiosi – e gli altri. Questa distinzione costituisce un duplice inganno: per i religiosi che possono ritenere di “avere scelto la parte migliore che non sarà loro tolta”, cioè di essere chiamati a vivere una vita “perfetta”, migliore; per gli altri – per i cosiddetti laici – quello di sentirsi rassicurati nella loro vita di compromesso, in cui il cristianesimo non rappresenta il cardine e l’orientamento assoluto di tutta la loro esistenza.
Dubito che la rinuncia al matrimonio – se così ci si può esprimere perchè io non credo alla rinuncia, come atto sacrificale, ma a spinte più forti che ti conducono altrove – faccia parte della radicalità richiesta al cristiano. Ho conosciuto per esempio un pastore anglicano Murray Rogers 5 che è una figura meravigliosa di mistico cristiano, sposato con figli, il quale vive ed ha sempre vissuto, insieme a Mary, sua moglie, una vita di profonda preghiera, di radicale povertà, di cura del prossimo e di attenzione alle sofferenze della storia il cui esempio e la cui memoria mi dà forza e gioia.
Credo piuttosto che la povertà costituisca il cuore della chiamata cristiana. Povertà che nasce dall’amore, di cui Paolo ci parla nella Prima Lettera ai Corinzi, amore in cui tutto ciò che è sterile o scuro, chiuso, viene bruciato.
Essere poveri: non possedere, non essere posseduti per “essere tutti di Dio” 6.
Nulla ti chiude; neanche il “recinto” della Chiesa è lo spazio del cristiano.
Il chiostro – lo spazio sacro – è il mondo intero, di cui sono signore e servo, per il cristiano infatti le due dimensioni coincidono.
Il povero – le immagini che qui mi sovvengono sono di fonte francescana – è l’allodola che trova il granello che lo nutre e che dà forza e gioia ovunque, là dove nessuno pensa si possa trovare qualcosa che valga.
Il povero è libero perchè sfugge ai potenti della terra che vorrebbero catturarlo e imprigionarlo, i quali non trovano appiglio per trattenerlo.
E’ il giovane che fugge nudo lasciando il nudo lenzuolo a chi lo vorrebbe fermare.
E’ Francesco, che invitato dal Cardinale Ugolino a ricca mensa insieme a maggiorenti di Roma, pone pezzi di pane mendicato di fronte al piatto suo e dei suoi frati. Alle ricche vivande dei potenti egli sostituisce il pane della libertà e della compassione.
Una regola?
La vita religiosa tradizionale è segnata dall’entrata in un “ordine” e dalla vita secondo una regola.
Ma non è forse sufficiente il battesimo? Per alcuni no, tanto che hanno parlato dell’ordine come di un secondo battesimo. Ma è evidente l’equivoco. Non si dà un secondo battesimo. Bisogna semplicemente viverlo e non archiviarlo.
Tutta la vita “religiosa” è segnata da regole, tanto che i vari ordini si distinguono appunto per le diverse “regole”.
Francesco non ne sentì la necessità. Per lui l’unica regola era vivere secondo il Santo Vangelo. E quando fu spinto a scrivere una regola i tratti più suoi sono rappresentanti da citazioni evangeliche e dalla preghiera che queste pagine gli suggerivano. Medesimo l’itinerario seguito da Chiara che riteneva che la loro vita fosse suggerita da una “forma vitae” scritta da Francesco per lei e le sue compagne in cui le si invitava a vivere in povertà e in spirito di comunione con i frati.
La vita religiosa è spesso soffocata dalla regola, misurata sulla regola. E’ un aspetto questo, a mio parere, della sua inadeguatezza a vivere del continuo “sempre oltre, sempre oltre è la mia tenda, il tuo infinito cammino sia il nostro, o Signore”, come suggerisce una preghiera di P. Vannucci. La regola vuole rappresentare un’incarnazione del Vangelo e finisce non di rado per rappresentarne una codificazione, un restringimento, un imprigionamento del Vangelo, comunque, anche nel migliore dei casi, un elemento di interposizione tra l’uomo e il Vangelo, tra l’uomo e lo Spirito che soffia dove vuole.
Non regole ma ritmi
Non di una regola, credo, ma di ritmi ha necessità la vita religiosa, o per meglio dire la vita secondo il Vangelo.
E’ la sapienza che ha dettato all’autore sacro la pausa del sabato.
E’ quanto vediamo vivere da Gesù che sente la necessità di ritirarsi tutto solo o accompagnato da pochi suoi amici, a dialogare con il Padre. E’ il ritmo profondo della preghiera che rigenera le forze, che ritrova le radici del proprio agire, che si apre al respiro di Dio.
Basilio parla di una memoria Dei che deve accompagnare la giornata del cristiano ed è una tensione profonda che non sgorga naturale se non è sorretta da questi ritmi.
Ritengo che siano necessarie pause di silenzio e di ascolto previste con una certa periodicità tanto più necessarie quanto la propria vita sia immersa nella vita attiva. Gandhi parla di un giorno alla settimana per ascoltare “la piccola voce”. Anche il nostro amico Murray segue questo ritmo. Ritmi di cui non bisogna, tuttavia, rimanere prigionieri, ma che dobbiamo cercare di osservare – credo – per non vivere una vita frastornata.
Per quanto mi concerne avverto la necessità di ascoltare musica, di leggere poesia, che con il Boccaccio 7, ritengo sorella e amica della mistica, per una compagnia laica con l’umanità e con il creato, per l’ascolto di quanto lo Spirito suggerisce a chi lo voglia ascoltare.
Abbiamo bisogno di compagni
Abbiamo bisogno di compagni. Essi dividono il pane con noi come dice l’etimologia della parola, ma essi stessi sono nostro pane, nostro alimento.
Gesù ha cercato dei compagni non solo per formarli, perchè lo aiutassero nel compito di portare il lieto annunzio, ma anche per condividere con loro il cammino. Li cerca per accompagnarlo sul Tabor e sul monte degli Olivi.
Tanti sono i compagni inaspettati che incontriamo sulla via, l’Angelo della via che ci consegna quella parola, quel gesto che ci sostiene, che ci rinfranca, che ci dà gioia. Sulla vita talora si incontra l’Inatteso, l’Ospite divino, che fa emergere la Parola santa che avevamo dimenticato, che ci svela quanto era nascosto dentro di noi. E’ sulla via di Emmaus che i pellegrini incontrano Gesù e con Lui spezzano il pane.
Ma abbiamo bisogno anche di compagni con cui condividere quanto cerchiamo di vivere. Compagni che ci permettono di vedere dove noi non vediamo 8, che ci rinfrancano nei momenti di stanchezza, che ci danno la gioia della comunione e dell’amicizia. La comunione è già un preannuncio della vita piena perchè essa non ci chiude su di noi, ma ci rimanda alla radice della nostra vita, la sostiene nell’ascesa. Ci evita anche di innalzarci altari – qualora vi sia la tentazione! – e di farci illusioni su di noi.
Il cammino del cristiano credo sia quello di cercare di creare zolle di una vita nuova, risuscitata con il Vangelo in mano e nel cuore, con il sostegno di compagni che ci sostengono nel cammino, attenti alle voci che provengono dalla storia dei poveri e degli umiliati, nell’attesa della pienezza e della gioia che il Signore ci ha promesso e che ci sarà donata al di là di ogni speranza.
Voci
Il chiostro: l’universo
Nel Sacro Commercio di S. Francesco con Madonna Povertà si immagina il loro incontro.
“La povertà disse: Mostratemi prima il luogo della preghiera, il capitolo, il chiostro, il refettorio, la cucina, il dormitorio e la stalla, i bei sedili, le mense e la vostra grande casa. Di questo in verità non vedo assolutamente nulla, ma vedo che voi siete allegri, lieti, colmi di gioia, pieni di gioia, come se foste in attesa di avere ogni cosa ad un semplice cenno”.
I frati propongono di mangiare ed essa acconsente.
“Ed ella, dopo un sonno placidissimo e non appesantito da cibo e da bevande, si alzò alacremente, chiedendo che fosse mostrato il chiostro. La condussero su di un colle e le mostrarono tutt’intorno la terra fin dove giungeva lo sguardo, dicendo: Questo, signora, è il nostro chiostro”.
La poesia e la teologia
“Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il soggetto: anzi dico di più: che la teologia niuna altra cosa è che una poesia di Dio”.
(Da Boccaccio, Trattatello in laude di Dante).
I compagni, occhi che vedono per noi
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, ne più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perchè con quattro occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perchè sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue”.
E’ di Montale in Xenia per sua moglie, Drusilla Tanzi, molto miope e molto amata.
Compagni, nostri angeli
Donami un compagno, Signore
Un angelo che mi prenda per mano,
mi conduca al Padre e mi insegni a compiere le sue opere.
Donami un amico, Signore
che faccia sgorgare nel cuore
la sacra sorgente della preghiera
che Tu vi hai nascosta.
Donami una creatura di comunione, Signore,
con la quale possa condividere
i doni della vita illuminata dal tuo Spirito.
Donami, o Signore, un angelo
che mi riveli la tua bontà
e mi renda capace di pietà verso ogni creatura.
Donami, o Signore, un angelo buono
che custodisca la mia anima,
che vegli sulla mia vita
che guidi il mio cammino.
Mi sia Egli vicino con il suo volto luminoso
nel momento della morte
e mi accompagni sino a Te,
ai tuoi santi, ai tuoi amici,
a tutti coloro che ho amato e che amo.
Preghiera scritta su uno spunto tratto da Sinesio di Cirene.
Maggio 2003
Lettera di Pino Trotta a Clara Gennaro
Carissima Clara, ho ricevuto le tue note sulla vita consacrata. Non sono meno sconvolgenti di quelle di Pio. Ma prima di dire anche io qualcosa, è bene che espliciti il luogo da cui parlo e che per tanti versi mi mette ai margini rispetto alla vostra discussione. Mi sento un cristiano perfettamente anonimo e anonomo. Credo di condividere la situazione di tanti nelle città metropolitane: quella di essere un cane sciolto, di non appartenere ad una comunità, ad una parrocchia, ad un gruppo. Quando vado a messa la domenica e sento lo strazio della liturgia, delle omelie, dei canti mi sento a mio agio. Questo è il cristianesimo comune: non bello, non atletico, semplicemente miserevole. D’altra parte, sentirmi in un gruppo mi metterebbe a disagio. Come tanti altri miei simili animali metropolitani che non sanno se sono credenti, non credenti, vivo di amicizie. Tra le più care quella con Pio. Rapporti individuali per eccellenza. La mia fede è così tra le cose più povere e più scarne immaginabili. Non so cosa voglia dire “chiesa”, appartenenza ad una comunità. Se non nel senso anonimo (mistico?) di tanti che sbirciano dalle fessure una vita che sentono estranea e impossibile.
Io credo che Gesù è il Signore, ma so anche che è una signoria perfettamente inutile. Ingloriosa. Devo a Sergio Quinzio la percezione di questo stato della fede. Questo non mi porta a cercare qualche altra signoria. Da chi potremo andare? Questo però non mi consente alcuna risposta consolante. Riesco a distinguere con chiarezza la dimensione del Mistero come tragica domanda da quella del mistero come retorica religiosa. Se dovessi definire la mia fede la direi perfettamente “ridicola”. Mi accorgo che con questa posizione è assurdo che io parli con voi di vita consacrata. Eppure sento di poter portare un mio piccolo contributo di individuo perfettamente sconsacrato. Le riflessioni di Pio e le tue hanno il merito di prendere sul serio la dimensione della laicità come interiorità stessa della fede cristiana. Nel volume da lui curato, I Dialoghi, ci sono tutte le premesse per questo esito. Ma dalle premesse non si passa necessariamente alle conclusioni. Ci vuole creatività e coraggio spirituale per arrivare a quelle conclusioni che ribaltano come un guanto la percezione canonica della vita consacrata. D’altra parte questa espressione “vita consacrata” a te non piace. E hai ragione. A me piace. Essa indica il perfetto paradosso della situazione agonica (agonizzante) del cristianesimo.
Cosa vuol dire consacrato? Separato. Segnato. Messo da parte. Gesù, il Signore, rompe questa economia del sacro (cfr. riflessioni di Rossi De Gasperis nel libro citato9). In ciò la differenza abissale tra il sacerdozio cristiano e quello levitico. Quando il sacro si universalizza evapora. Ma allora dove sta il problema? Il sacro ritorna dopo Cristo. Non ha senso dire che siamo dinanzi a un mistero. Siamo dinnanzi ad un dramma immane. Inspiegabile. La parola “mistero” ha, l’ho già detto, anche un lato cialtronesco: sembra spiegare ciò che non si spiega affatto. Spiana lo scandalo. Non basta dire mistero. Che rinasca il sacro dopo Cristo è una cosa assurda. Eppure rinasce. La storia del cristianesimo è la storia di queste assurdità. Voglio dire che l’incessante, ossessiva rinascita del sacro è in rapporto interiore con l’assurdità della durata del mondo dopo la resurrezione del Signore. Se il mondo dura, se la storia dura, nonostante quella resurrezione, il cristianesimo diventa religio. Esso serve alla durata del mondo e insieme serve a indicarne la fine. Nel cuore del cristianesimo ridotto a religio il sacro esercita quella funzione escatologica che consente all’intero meccanismo di funzionare. Quali sono le forme del sacro: la povertà, il celibato, l’obbedienza, la regola. Tutto ciò “separa” dalla misericordia dell’esperienza. Durata del mondo e fine della storia. Siamo schiacciati in questo paradosso. Il monachesimo mi è sempre apparso come il travestimento di un’istanza apocalittica. Nel mondo che assurdamente dura, c’è chi già vive la fine, l’eone futuro. Per questo il sacro nel cristianesimo è inquieto. Nasce da questa aporia e non la risolve che mettendola eternamente in campo. La laicità, come la rivela Pio, svela le matrici del paradosso, ma non vi dà alcuna soluzione.
Il caso di Francesco, per quel che riesco a capire, è chiaro: Francesco scopre la perfetta inutilità della regola per l’adesione al Vangelo. Il suo è un cristianesimo sine glossa. La sua incredibile regola sono frasi del Vangelo. Eppure il francescanesimo nasce dalla rimozione riuscita della laicità del fondatore. Poi si può discutere con Miccoli se le stimmate siano la consapevolezza piena e la “resa” di Francesco dinanzi a questo fallimento, che lo fa davvero un alter Christus, o con la Frugoni se quelle stimmate siano state inventate per rendere il suo esempio così stellare ai mortali seguaci da chiudere una querelle che si faceva troppo lunga e pericolosa. Resta il fatto: senza frate Elia oggi forse non parleremmo più di Francesco. Senza quel tradimento non ci sarebbe giunto il messaggio. E dinanzi a questo paradosso non provo alcuna consolazione. Mi chiedo se non sia stato così anche per Lutero che ad un certo punto nel nome del Vangelo butta via la tonaca e sposa Caterina: la libertà del cristiano, quella che ci viene dalla giustificazione e che manda al diavolo tutti i conventi, i monasteri, le decime, le pratiche.. Anche Lutero sarà fondatore di Chiese e di roghi.
Insomma mi sembra che sciogliere i vincoli del sacro (castità, povertà, obbedienza, regola) sia l’accettazione mistica del mondo, della sua sconsolante durata. E’ il Vangelo di Giovanni. Ma allora non è Hegel l’erede certo e più profondo di quel Vangelo? Non si è il cristianesimo perfettamente realizzato? Ciò che sospende questa domanda è ancora l’orrore del mondo. Di questo orrore il sacro cristiano resta un segno. Un segno strano: esso evoca il sacro mentre l’uccide. L’ebraismo non ha di questi problemi. Dacché il Messia non è ancora venuto, si deve durare. Il celibato è un venir meno ad un compito. Nel cristianesimo è il durare che diventa evanescente. Il Messia è già venuto, l’Amen definitivo è già stato detto. E nulla è cambiato. Il sacro, la regula, letteralmente “circoncide” questo paradosso. Pio mette in luce il cristianesimo come depositum charitatis: questo rimane oggi. Una identità che si dissolve nella carità. In questo essa ritrova la dimensione profonda della povertà. Ma anche della castità come del niente per se.
Mi accorgo di essere altrove rispetto alle vostre riflessioni. Non avevo niente da dire nel merito, nessuna “esperienza” da comunicare. La mia vita è davvero anonima e banale, contraddittoria e inconclusa. E tale credo sarà la mia morte. Non sono una persona povera, obbediente, casta. Leggo in fretta i 21 punti di Pio e quella sua ansia di offrire uno sguardo panoramico del cammino fatto, di non lasciare nulla di incompiuto, di dare il profilo definitivo di una vita e di una ricerca. E in quei 21 punti uno si smarrisce, in una sorta di mappa della verità del cristianesimo. Mentre li leggo cresce l’ammirazione per lui. Davvero il suo mi sembra un cammino compiuto. C’è un filo che unisce il prima e il poi. Io so di essere al di qua di tale compiutezza.
25 giugno 2003
Ricordo di Michele Do – Clara Gennaro
Monachesimo
Monaco: colui che ha raggiunto l’unità ed è libero dai molteplici condizionamenti che lo rendono “greve”, “la pesanteur et la grace”.
Celibato: colui che ha interiorizzato la donna come presenza di luce, come presenza creativa, come pane: la samaritana al pozzo per Cristo.
Monaco: che assume con radicalità l’esperienza religiosa evangelica: radicato in Dio, non per escludere i rapporti umani, ma per vincere la “pesanteur”: forza demoniaca di inerzia senza tensioni che induce l’uomo a rimanere chiuso in se stesso e nei suoi limiti. Al contrario Dio assunto in noi come la luce nel seme: come presenza sorgiva e creativa che tende l’uomo oltre se stesso, in tensione e in cammino ascensionale: verso qualcosa che dia senso compiuto all’incompiuto. Per accrescere la vita e farla ascendere.
Monachesimo: come esperienza pura della nobile alta anarchia evangelica. Non si risolve nella mediocrità di una ambiente senza anima e senza passione. E’ un’anima accesa: come ha detto Gesù: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra”.
Monachesimo: assumere con radicalità l’esperienza religiosa evangelica della vita.
Esperienza che ha due momenti essenziali e irrinunciabili.
La purezza dell’immagine di Dio e del rapporto tra Dio e la creatura
Il chinarsi sulla vita ferita, il samaritano che scende da cavallo.
Quale monachesimo?
Siamo minacciati da una diffusa aridità interiore che rischia di spegnere le coscienze.
Siamo in una stagione di deserto spirituale. Oggettivati nelle cose e nel lavoro.
Senza interrogativi, senza tensioni, senza dialogo.
Esigenze di rinnovamento e di trovare radici. Bisogno di anima, di spiritualità e necessità di ideali, di valori trascendenti coltivati, vissuti e trasmessi. E di rapporti non banalizzati.
Esigenza di far fiorire “zolle di regno di Dio” – “zolle evangeliche” di tale ricchezza umana e spirituale che possano far dire: “Abbiamo palpato il Logos divino della vita”. Una più alta e diversa qualità della vita.
Monachesimo come testimonianza concreta di una più alta e nobile dimensione dell’esistenza. Una più alta dimensione dell’esistenza nella “concretezza del quotidiano”.
Monachesimo come esperienza di Trasfigurazione nella concretezza della quotidianità in radicale contrasto con un’immagine di monachesimo come “fuga mundi” in un mondo chiuso e rassicurante, come riserve protette della fede, parafulmini che proteggono dalle tempeste del mondo, attraverso ascesi fittizie e riserve protette, chiuse e rassicuranti e protettive.
Eckart
“Se qualcuno immaginasse che nella interiorità-devozione-dolce rapimento e grazia particolare riceva più di Dio che non presso il focolare o in una stalla, non fa altro che prendere Dio, avvolgendogli un mantello attorno alla testa o cacciarlo sotto una panca”.
Monachesimo
Assumere con radicalità l’esperienza religiosa nella sua radicale tensione all’assoluto.
Quale immagine dell’Assoluto di Dio? E quale rapporto con l’uomo? Dio della legge o Dio dell’icona.
Monaco-Monos-Solo.
Solo oppure l’uomo che ha il punto di consistenza dentro di se. La grotta sacra.
In interiore homine abitat veritas. “Non operare sulla piazza, dice Gesù, ma rientra dentro di te, dove il Padre è, vive, opera e vede”.
Radicalità con cui assume l’esperienza religiosa, che tende alla comunione con la realtà assoluta di Dio.
Queste le note essenziali di ogni monachesimo: cristiano o non.
Carattere di “utopia” come contestazione della cultura dominante.
Monachesimo cristiano: assumere con radicalità l’esperienza evangelica della vita.
L’esperienza evangelica ha due momenti essenziali:
La purezza dell’immagine di Dio: il Dio delle icone.
Il chinarsi sulla vita ferita: il samaritano che scende da cavallo.
6 agosto 2003
Lettera di Pino Trotta a P. Pio Parisi
Caro Pio, approfitto della tua amicizia per inviarti qualche riflessione, sicuro che le leggerai non per quel che valgono, ma perché mi accompagneranno in questa “preparazione alla morte” in cui sono ormai inoltrato. Mi ricordo di certi romanzi dell’800, dove il prigioniero scriveva alla madre o alla fidanzata prima dell’esecuzione. Quando avverrà? Non si sa: tra un mese, tra due, tra sei. E’ il verdetto che è stato emesso. Dirai che è un verdetto che riguarda tutti. Ed è vero. Ma è diverso quando tale verdetto è stato emesso. C’è per tutti, ma non per tutti è stato emesso. Quando un verdetto è stato emesso si diventa uomini senza futuro. Si è nell’onnipresenza della propria malattia, dei dolori del proprio corpo. Quest’anno non andrò a scuola, non farò le cose che avevo pensato di fare. Vivrò alla giornata: in attesa prima dell’operazione, poi della chemioterapia, poi della prima visita, per vedere a che punto è la situazione, poi… La vita improvvisamente si restringe.
Pensavo in questi giorni di attesa che mi mancava questa “umiliazione”: la chemioterapia. L’operazione mi aveva portato via lo stomaco e, speravo, che insieme allo stomaco si fosse portata via il tumore. Non dovevo fare la chemioterapia. Ora, invece, sarò anche io tra le migliaia di poveracci e poveracce che fanno la fila per avere la dose giusta nella speranza che serva ad arginare un dolore, ad allungare di qualche mese la vita. Ricordi Viviana? Ho letto e riletto le sue lettere così piene di voglia di vivere e così sopraffatte dall’incalzare inesorabile del male. Vorrei avere il suo coraggio, la sua forza. Mi sento invece così confuso. Ricordo anche Edoardo, il racconto delle persone che incontrava durante le attese per le chemioterapie.
La tua lettera agli umiliati la sento, insomma, più mia: anche l’umiliazione della chemioterapia. So che esistono umiliazioni ancora più acerbe e crude. Io ho degli amici cui scrivere una lettera, degli affetti. Non c’è misura al peggio. Ma la misura che ho comunque raggiunto è notevole. Sono uno che “conta” sulla via dell’umiliazione.
La prima sensazione che si ha quando si è colti da una sventura come questa è quella di una sorta di “comunione con i morti”. Da quando ho scoperto di avere il tumore, tre anni fa, non sono mai riuscito a pregare per i morti. Non mi sentivo diverso da loro, non mi sentivo dall’altra parte rispetto a loro. Ero un finto vivo, ero già con loro. Che cosa mi autorizzava a pregare per Viviana, per Luisa, per Edoardo, Sergio, mio padre, mia madre e tanti altri? Che cosa mi distingueva da loro? Li ho sentiti come compagni di un unico viaggio. Un viaggio indicibile e assurdo. E avrei voluto sapere di questo viaggio da ognuno di loro. Luisa, credo sia morta per soffocamento, in una tristezza senza confini, senza misura. Solo quanto è accaduto nell’orto degli ulivi si può paragonare alla sua angoscia.
Se c’è una cosa che mi fa sentire vicino Gesù è proprio la sua morte così disperata, così sola, così sopraffatta dalla paura e dall’angoscia. Almeno nel racconto di Marco.
Caro Pio, spero di non averti annoiato troppo. Leggerai questa lettera al tuo ritorno dalla Calabria. Ti auguro una buona vacanza.
Agosto 2003
Lettera di Pino Trotta
Ma vorrei chiederti cosa nasce dalle sofferenze di Cristo? La sua morte è stata atroce. E poi che senso ha questo accumulo di sofferenze, questa montagna sconfinata di dolore che è la storia? Vorrei mi aiutassi a capire come anche la mia sofferenza abbia un senso. Non sono innocente e riconosco la mia cattiveria. Ma non capisco quale colpa possa essere asciugata da tanto dolore. Come vedi, Pio, davvero balbetto poche cose. Ma tu siimi vicino nonostante la mia grullaggine.
21 agosto 2003
Lettera di Pio Parisi a Pino Trotta
Caro Pino, “vox silet, mens deficit!” diceva S. Agostino di fronte al Mistero della Trinità. Io lo dico di fronte a tutti i riflessi di questo mistero in quello che mi scrivi e che hai scritto a Clara. Nella tua esperienza e nell’amicizia con cui ce la comunichi colgo innumerevoli segnali luminosissimi di quella vita per cui Dio ci ha creati. Mi viene spesso in mente l’inno di nona:
“Irradia di luce la sera,
fa sorgere oltre la morte,
nello splendore del cielo,
il giorno senza tramonto”.
Ogni riga della tua lettera a Clara andrebbe approfondita e comunicata. Tutto stimola alla purificazione della fede, nel superamento di innumerevoli forme religiose che tuttavia non vanno in alcun modo disprezzate: mi sembra luminosissima la tua frase su quando vai a Messa la domenica e senti lo strazio della liturgia… eppure ti senti a tuo agio! C’è in questo un’indicazione preziosa su come, anche sul piano pastorale, affrontare il problema della crescita della fede nella purificazione della religiosità e dalla religiosità.
Mi sento in grandissima sintonia con quanto scrivi: non avrei nulla da aggiungere e al tempo stesso scorgo grandi sviluppi che gioverebbero grandemente a credenti e non credenti. Abbiamo tante cose da cui liberarci per seguire l’autore della Lettera agli Ebrei: “deposti tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio.Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo… “ (Ebr. 12, 1-3)
Non essendo in grado di dimostrarti tutto l’apprezzamento per quanto ci comunichi, mi limito a ricambiare con la comunicazione di qualche mia esperienza. Si tratta di cose che ben conosci e che hai anche pubblicato nel libro “Lettere agli amici”. In particolare nella lettera a Franco (pp. 74-81).
Mi accompagna sempre un senso profondo dell’assurdo causato dalla tragica amabilità di tutti e di tutto. Il pianto di Giovanni nel cap. V dell’Apocalisse scorre dentro di me da tanti anni, senza altra consolazione che la vittoria dell’Agnello immolato e le sue parole: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi…” (Mt. 11, 26 ss.).
Allora l’amore verso tutti è possibile nonostante l’assurda miseria, anzi proprio per quell’abisso di povertà (“un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso” Salmo).
Così scopro ogni giorno nuovi segni dello Spirito e comincio ad avere una verifica che “lo Spirito di Dio riempie l’universo”.
Riguardo alla tua salute ti auguro evidentemente il decorso più favorevole della tua malattia e la guarigione. Te lo auguro con tutte le forze, non meno di chi forse non ha null’altro da augurarti. Ma io ho un augurio incomparabilmente più bello, che tu possa, come dice S. Paolo, dare compimento con le tue sofferenze a quello che manca alla passione di Cristo per il bene di tutta l’umanità.
Intanto sono certo che la nostra amicizia va sempre più approfondendosi in Cristo per il servizio dei piccoli e dei poveri amati dal Signore.
Chiudo queste righe con un abbraccio fraterno e il proposito di venirti a trovare al più presto:
Pio.
17 settembre 2003
Lettera di Pio Parisi a Pino Trotta
Caro Pino, le tue letterine, che in realtà sono macigni, mi inducono a risponderti subito, sia per manifestarti la mia partecipazione alle tue grandi sofferenze, sia per comunicarti le riflessioni per me importanti che esse suscitano in me.
La tua fede è “sgangheratissima”. Come al solito trovi delle parole piene di significato.
Mi chiedo cosa può essere una fede sgangherata, la tua fede, e a che cosa può servire.
Forse è una fede che si percepisce scarsa di compattezza, di solidità, di capacità di sostenere il corpo e lo spirito, come una sedia sgangherata, ma fede che non riesce a trovare una parola che serva a pacificare la tua enorme ansia del cuore, come tu dici.
Una fede che sembra non sostenere perché priva essa stessa di sostegni. I sostegni della fede sono certamente necessari. “La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rom. 10, 17).
I sostegni della fede sono le innumerevoli strutture ecclesiali, anche di religioni diverse dalla nostra, in cui includo tutto, dalla teologia alle grandi e piccoli organizzazioni, alle imprese manageriali finalizzate a opere di bene. E’ chiaro che fra questi sostegni della fede occorre fare molti discernimenti.
Ma i sostegni principali sono quelli interiori: tutti i pensieri e i sentimenti religiosi che hanno attraversato o anche che si sono insediati nella nostra mente, in primo luogo il nostro pregare come parlare di Dio e anche in qualche modo a Dio. E quando vengono meno questi sostegni, questa religiosità interiore ci si sente più sgangherati che mai.
Ma la fede per crescere deve in qualche modo liberarsi dai suoi sostegni, almeno da molti di questi e così diventare sotto molti aspetti sgangherata.
Ma è proprio allora che si comincia a “stare in silenzio davanti al Signore e a sperare in lui”. E’ il silenzio adorante che si limita – è la limitazione che ci dilata al massimo – ad accettare passivamente la volontà di Dio, cioè il disegno universale del Padre, la storia della salvezza che non è altro dalla storia universale.
E’ il Mistero Assoluto che si coglie nella notte più oscura.
E’ una fede purificata che cresce, anche se abbiamo l’impressione di averla quasi persa del tutto.
Non dobbiamo per questo chiudere le porte a tanti sostegni che oggi assenti possono domani tornare anche a nostro conforto, per esempio la devozione alla Passione del Signore e a quella di Maria. Soprattutto non dobbiamo sentirci superiori a quelli la cui fede è sostenuta da innumerevoli pensieri e sentimenti che non sono più presenti nella nostra aridità. Possiamo anche rallegrarci con loro, ma dobbiamo scoprire che la nostra fede sgangherata è un’azione potente dello Spirito in noi e … lodare il Signore … nonostante tutto.
Spero di non avere appesantito il tuo itinerario così doloroso. Ma comunicando la tua esperienza mi aiuti ancora, come hai fatto tante volte in passato, a far crescere la mia fede. E penso che questa comunicazione sia destinata ad essere di grande aiuto alla Chiesa e all’umanità.
La fede sgangherata, e quindi purificata, la vedo coincidere con la laicità; ma qui comincerebbe una riflessione infinita.
Scusami e ti abbraccio con grandissimo crescente affetto.
Pio
Lettere di Pino Trotta
19 settembre 2003
Caro Pio, non so come ringraziarti per l’attenzione e l’affetto che mi dimostri. Ho letto e riletto i passi su cui mi inviti a riflettere: il Salmo 55, Paolo, S. Ignazio. Vorrei avere la forza e la fede di affidarmi al Signore, ma poi scopro in me come uno sfondo di incredulità e, se non sempre questo, una mancanza di intimità che mi lascia smarrito. Ho a volte l’impressione dell’assenza di Dio in tutta questa mia vicenda e invece della presenza asfissiante di tante mie confusioni, contraddizioni, problemi non risolti che mi sono trascinato dietro senza affrontarli mai.
D’altra parte, Pio, quella confidenza che tu invece hai, te la sei conquistata in anni di preghiera, di silenzio, di umiliazioni. La mia è stata solo una inquietudine astratta, confusa, uno zampettare intorno alla fede, senza mai farne il caso serio della mia vita. Certo, sono rimasto sempre là, nei suoi paraggi, preso dalla tua presenza, da quella di Pino e di Patanè, di altri, ma mai afferrato da una “confidenza” che rimane per me un sogno incompiuto.
Come ti ho accennato sono caduto in uno stato depressivo, o meglio: la malattia ha fatto esplodere uno stato depressivo latente, che prima era in qualche modo arginato dalla scuola, dai vari impegni, ecc.
Caro Pio, cercherò di “gettare i miei pensieri al Signore”, ma tu continua a darmi una mano. Dicevo a Nino Patanè che davanti al Signore io non porto davvero nulla se non il privilegio della tua, della vostra amicizia.
24 settembre 2003
… Spero davvero di trovare un senso, Pio, a questa vita che è diventata improvvisamente assurda. Hai intravisto nella mia fede “sgangherata” un passaggio, una possibilità. Io vi vedevo solo una grande, immensa confusione. Essa è davvero sospesa, come dici, in un vuoto. Io, Pio, vivo ora solo lo sgomento e non la gioia dell’abbandono; vivo la repulsione della malattia e della morte. Ma so, con te, che sono passaggi obbligati. Non posso eliminare la malattia e non posso eliminare la morte. La mia speranza è quella che mi suggerisci, di riuscire a dire sempre un “gloria” anche nei momenti più oscuri, dove la lontananza da Dio si fa abissale, il suo silenzio assoluto. Dico la mia speranza, perché non ne ho alcuna certezza. La mia “notte oscura”, è una notte squallida.
… Provo, Pio, a pregare, per quel che posso, spesso la notte, quando non riesco a dormire. Attendo, non posso che essere in un tormento di attesa. Ho letto questa frase della Weil che mi ha richiamato fortemente le tue: “Il fatto di sapere che Dio è presente non consola, non toglie nulla alla spaventevole amarezza della sventura, non guarisce la mutilazione dell’anima. Ma sappiamo con certezza che l’amore di Dio per noi è la sostanza stessa di questa amarezza e di questa mutilazione”.
Settembre 2003
Caro Pio, quante cose vorrei dirti di questi giorni passati in una depressione spesso insopportabile col pensiero fisso e ossessivo della malattia e della morte. Ora anche quella improvvisa del Bepi.
Lo ricordo, nell’ultima sera, sorridente, contento delle vacanze passate a Moneglia e dei due chili persi con la dieta. Aveva tanti progetti e incontri da fare, tra cui quella festa enorme, in cui ci avrebbe lasciato. Ricordo, ricordo… Ricordo la sua bontà e delicatezza.
Come poteva morire Bepi? Non me lo immagino in una morte solitaria, ma in una morte tra amici, tra una chiacchierata, un amarcord, una risata… Non mi immagino neppure per Bepi una morte lunga, ma, come è stata, improvvisa.
Cerco invano di trovare un senso a tutto questo, a una vita così, con questi abissi improvvisi di dolore. Oggi qui è la festa della Madonna Addolorata e ieri era quella dell’esaltazione della Croce. Eppure, Pio, la mia sgangheratissima fede non riesce a trovare una parola che serva a pacificare quest’ansia enorme del cuore.
25 settembre 2003
Carissimi Pio e Giorgio, non so come ringraziarvi della vostra visita, l’aspettavo con una certa inquietudine, non sapendo se sarei riuscito a dire qualcosa data l’asfissiante situazione psicologica in cui mi ha posto la malattia. Ad un certo punto mi sono scoperto a “parlare” ed ad essere ributtato dalla vostra compassione in una discussione che sentivo in me ormai lontana, quella sulla “vita consacrata”. Giorgio mi ha chiesto di riassumere e lo faccio con piacere perché questo mi consente di non ributtarmi nella consueta tristezza di questi giorni.
La mia lettera a Clara credo abbia evidenziato in che confusione mi trovi e come sia l’ultimo a poter dire qualcosa di vero, di vissuto sulla vita consacrata. In questi mesi poi le cose si sono ancora più confuse per una certa mia incapacità di vederle in modo unitario, ma distinte. Questo a volte può aiutare a ragionare, ma non sempre aiuta a capire.
Parto dalla situazione che so: alcune persone che fanno parte di una associazione, su suggerimento di Pio, cercano di approfondire il senso di ciò che stanno facendo. Pio orienta questa ricerca in una direzione più precisa. Parla di una “forma di vita”. Quale può essere una forma di vita di una associazione come la S. Pancrazio, o almeno quella delle persone più coinvolte? E’ questo l’ambito in cui si è posta la domanda. Di più: in questa associazione qualcuno ha scelto di dedicare completamente la sua vita agli altri, scegliendo il celibato.
Pio credo abbia descritto con la consueta profondità quali sono i quattro grandi pilastri della vita cristiana di una Associazione (fatta di celibi e sposati): la povertà, la gratuità, la crescita della coscienza politica (contro l’interpretazione corrente di politica), l’incessante sforzo della conversione. Non spiego queste cose perché balbetterei solo frasi di Pio o Giorgio, e per altro di un Pio ancora in “corso d’opera”. La “forma di vita cristiana” di questa Associazione impegnata nel sociale è questa. Ed è una forma sconvolgente, controcorrente, perdente sul piano mondano, se intende essere fedele a questi propositi. Ma questo non è un problema, perché a nessuna persona dell’Associazione interessa questo piano. Essa nasce con una sua assoluta originalità, che è semplicemente provocatoria rispetto alle altre associazioni socialmente impegnate.
Nell’ottocento tante opere sociali, nate assolutamente gratuite e povere intorno alla carità di qualche anima, soprattutto femminile, venivano sistematicamente trasformate in congregazioni religiose di vita attiva. Prima o poi si vedevano imporre l’abito, ecc. Parlo di queste Congregazioni con venerazione e rispetto. La vera storia d’Italia sarebbe impensabile senza di loro, ma purtroppo non esiste una vera storia d’Italia. La S. Pancrazio, dopo il Concilio, agli inizi del terzo millennio, non sembra aver bisogno di questo. C’è come dire una “consacrazione laicale”, basata sui quattro pilastri indicati da Pio, cioè sul Vangelo. Nulla vieta che in questa associazione qualcuno sia scelto a una vocazione particolare. Ho trovato una bella riflessione di Simone Weil che a mio avviso è illuminante, anche se non si riferisce ad un impegno sociale, ma alla vita dei contadini. Si trova in un libro stupendo, L’amore di Dio, Borla, a pag. 34. “Come la vita religiosa è ripartita in ordini corrispondenti a specifiche vocazioni, così la vita sociale dovrebbe apparire come una organizzazione di vocazioni distinte, tutte convergenti in Cristo. E in ciascuna di esse dovrebbero esserci alcune anime totalmente dedicate a Cristo come può esserlo un monaco; in questo modo coloro che si sentono di dedicare la propria vita esclusivamente a Cristo si troverebbero nelle condizioni di non dover scegliere automaticamente gli ordini religiosi”.
Il problema che si è posto nella S. Pancrazio è solo questo? Oppure il discorso diventa più ampio: non investe la “forma di vita” di un’associazione che agisce nella società, ma quello più generale della “vita consacrata” come tale. Sono due discorsi diversi. Le riflessioni di Clara, per quanto sono riuscito a capire, si pongono su questo piano più generale, e questo proprio a partire dalle prime impressioni nell’incontro di Viboldone.
Clara vive una sua vita consacrata, una sua vita comunitaria con una persona straordinaria come don Luciano. La sua è una esperienza originalissima, per me singolarissima. La sua passione per Chiara le ha fatto intravedere come una comunità femminile che voleva seguire Francesco nella sua scelta di vita povera, laicale, itinerante sia stata costretta assai presto tra le mura di un convento. La sua esperienza di Bose è di una straordinaria importanza ed è un peccato che essa non la scriva per fare vedere gli esiti di una storia che era iniziata con altri intenti, ma soprattutto con una dimensione comunitaria diversa. La novità monastica del Bose “originario” era questa, anche per il carattere di comunità “mista”. Ed io come Clara, amiamo Bose, siamo felici che ci sia e che cresca.
Io non penso che Clara possa dire qualcosa di più di quello che ha detto all’Associazione, a Giorgio in particolare. La via tracciata da Pio, è la via maestra.
Ma è proprio vera questa distinzione che faccio: la laicità che dà forma di vita cristiana ad una associazione impegnata nel sociale o la laicità che interroga come tale la vita consacrata? Questa distinzione non finisce per svilire il problema? Ma se non accetto questa distinzione io devo avere il coraggio di porre il senso dell’esistenza dei gesuiti, delle benedettine, dei camaldolesi, ecc., della crisi interna a questi ordini e che, forse, ha proprio nel rapporto tra laicità e vita consacrata uno dei suoi snodi fondamentali. Il problema che pone l’Associazione S. Pancrazio, attraverso Pio, diventa, allora, immenso. Ognuno di questi ordini dovrebbe ripensare la sua “forma vitae”. Io ho l’impressione che in Pio c’è anche questo scenario. In questo senso la dimensione della laicità dissolve dall’interno il concetto di “vita consacrata”, facendo coincidere battesimo e consacrazione e vedendo nelle “regole” il destino clericale di tante vocazioni religiose.
Io vorrei sapere da voi se la mia distinzione è sbagliata. Avevo proposto a Giorgio di raccordarsi non tanto con esperienze di “depositum charitatis”, in tal senso il raccordo già c’è (con quante esperienze è venuta in contatto la S. Pancrazio!), ma con esperienze di nuovo monachesimo, di piccole comunità più o meno monastiche, sciolte nella vita comune di uomini e donne comuni. Ma non è questo esattamente un altro problema?
Avrete capito tutti che le mie idee sono più confuse di prima. Ma se si riesce a fare chiarezza in questa confusione che ho io, forse (e questo forse e davvero forse), la discussione può chiarirsi meglio.
Se non servono, comunque vi ringrazio di avermi portato per qualche ora fuori dai miei lugubri pensieri.
Pino
ottobre-novembre 2003
Lettere di Pino Trotta a Pio Parisi e Clara Gennaro
Ottobre 2003
Caro Pio, ti mando la letterina che ho scritto a Clara. Non c’è niente di nuovo rispetto a quello che già sai. Io continuo con sempre maggiori difficoltà la cura chemioterapica. Spero che finisca presto perché ho una stanchezza infinita.
A presto.
Ottobre 2003
Carissima Clara, anche io sono rimasto smarrito leggendo la tua lettera così complessa e così bella. Che senso ha risponderti? E’ meglio meditare su ciò che dici. Se ti scrivo non è per “discutere” con te, ma per parlare con te di me e dei pensieri che hanno suscitato le tue parole.
Io non sono in un itinerario di fede come il tuo. Ho spesso cercato di capire quale fosse la mia via, ma non ho mai trovato una risposta, si che la mia esperienza si è come segmentata in una serie di intuizioni, di incontri, di amicizie totalmente distanti tra loro. Incomprensibili a me stesso. E’ come il frantumarsi della memoria senza che un filo riesca a legare un prima e un poi. Mi piacerebbe avere un mio itinerario, ma avverto solo uno spasmo, delle invocazioni e tanta confusione. Forse questo mi porta a vedere la salvezza non come il lavorio dell’anima che cerca Dio, ma come un intervento della Grazia che irrompe nella sua irrimediabile frantumazione e gli dà un senso e una direzione.
Non ho nulla da aggiungere o da commentare a quanto tu dici, è come se ci avessimo detto tutto. Nel mio smarrimento non mi resta che ascoltare quanto hai scritto. Spero di conoscere don Michele e mi piacerebbe che leggessi anche tu almeno un libro di Quinzio, per esempio il Misterium Iniquitatis, edito dall’Adelphi.
La continuazione di questa riflessione richiede che intervengano gli altri interlocutori, Pio, Giorgio e chi fosse interessato.
Non mi resta che ringraziarti ed abbracciarti forte forte.
3 novembre 2003
Caro Pio, è tanto che non ti scrivo. Sono arrivato al quinto ciclo della chemioterapia e a fine mese, inizi dicembre, dovrei sapere i risultati, se ci sono stati, e cosa devo fare dopo. Ma non è di questo che vorrei parlarti.
Sto leggendo in questo periodo parecchio del Nuovo Testamento. Non è una “lettura orante”, ma non riesco a leggere altro in queste settimane che testi che ruotino intorno al Vangelo. Mi capita di scoprire dei brani stupendi, altri che non conoscevo, altri ancora che avevo dimenticato.
Leggo, ma ho una grande difficoltà ad andare in Chiesa, mi sento come un estraneo, non ho alcuna partecipazione affettiva, sto lì, come una statua di ghiaccio, nell’indifferenza più totale. Non riesco a capire il perché di questa freddezza e di questa estraneità. Mi sento un ipocrita nel Tempio. E lo sono.
In questo periodo così sconcertante è come se qualcosa mi impedisse di entrare in qualche modo in contatto con Dio e questo qualcosa è me stesso, come se l’impedimento fossi io. E’ una situazione paradossale e in qualche modo emblematica della mia mancanza di fede. L’ostacolo alla fede sono io stesso, con tutte le mie lacerazioni, contraddizioni, che sono però la mia vita e che in questo periodo vengono fuori con evidenza maggiore. Mi sento così perso in un dilemma che non ha soluzioni. Come si può offrire a Dio una pastura così composta e nello stesso tempo che altro ho da offrire se non questo?
Non so come uscirne. Tu cosa ne pensi? Io non riesco a capire cosa fare.
13-14 ottobre 2003
Lettera di Clara Gennaro a Pino Trotta
Carissimo Pino, eccomi finalmente a te in questo lunedì mattina in cui mi sono messa a rileggere la tua lettera a Pio e a Giorgio e quella, 4 maggio 2003, a me.
Sono lettere molto intense e molto ricche in cui un poco mi smarrisco, perché appunto quello con te è un dialogo, mentre quello con pio – e con Giorgio, sostanzialmente mediato da Pio – è un discorso che ho continuato, in modo più o meno esplicito, da decenni.
La mia lettera sarà perciò confusa e me ne scuserai.
Di fronte alla fede in Cristo, alla Chiesa mi sento molto vicina a te, malgrado da lunghi anni io cerchi di fare un cammino all’interno della prospettiva di Cristo e ancor più nella ricerca di Dio. Sostanzialmente con Pietro anch’io ripeto: “Signore e da chi andremo, tu solo hai parole di vita piena, senza fine”.
Con don Michele, che vorrei tanto tu conoscessi, dico: la comunione dei santi e delle cose sante che è la vera chiesa. In questa chiesa – al di là delle più immediate connotazioni storiche – mi viene da dire: “Che ho a che fare con te, donna?”, anche se così Cristo si rivolge a Maria, ma forse a una Maria che vuole mostrare che straordinario figlio è il suo.
E’ la tensione, la linea della ricerca quella che mi fa sentire compagni i vivi e i morti che hanno “tenuta accesa la lampada della fede in periodi di oscurità, le anime grandi che ebbero visioni di più vasta verità e osarono comunicarle, le tante anime silenziose e piene di grazia che con la loro presenza hanno purificato e santificato il mondo” – come dice una preghiera che ho pensato e tradotto non ricordo più da dove e che amo molto.
Questa è la mia chiesa. In essa si trova anche una donna di cui parla A. Kureishi, uno scrittore pakistano. E’ musulmana. Ti riporto il passo che mi ha colpito e che mi ha fatto sentire compagna questa donna. Scrive Kureishi:
“Entrai in una stanza a casa di mio zio (in Pakistan). Seminascosta da una tenda, su una veranda, c’era una domestica di mezza età che indossava vestiti vecchi dei miei cugini, e pregava.
Mi fermai ad osservarla . al mattino, mentre me ne stavo a letto, lei spazzava il pavimento della mia stanza con dei rametti legati assieme. Doveva avere almeno sessant’anni. Adesso sil logoro tappeto di preghiera, sembrava minuscola, e l’universo intorno a lei infinito, immenso. Ma Dio era sopra di lei. Capivo che stavo riconoscendo ciò che era più grande di lei, umiliandosi di fronte all’infinito, riconoscendo e avvertendo la propria piccolezza. Era un momento pieno di verità, non un vuoto rituale. Avrei voluto saperlo fare anch’io”.
Nel leggere il termine “vuoto rituale” ho messo un pochino a dare al vuoto il carattere di aggettivo, dapprima l’aggettivo mi era parso “rituale”.
E’ significativo: per me certe, molte forme di “religiosità” mi evocano il vuoto – il nulla, il totalmente insignificante rivestito dal mantello del rito, dell’evocazione falsa del santo, del sacro.
La fede, la luce in me è un piccolo lucignolo, fumigante, che cerco di tenere acceso nell’invocazione: “Aumenta tu la mia poca fede” e che cerco di sostenere nell’amicizia e nella preghiera.
Ricordo la mia santa invidia quando ho sentito parlare di Darù. L’hai conosciuto? Asserisce che mai ha dubitato della fede, in Dio. A Lui anelo come una cerva assetata, ma la mia fede non è così intatta, granitica. Credo che anche questo possa essere povertà. Ma il mio ago magnetico punta verso quel nord, non solo e non tanto per non smarrirmi ma perché lì credo – questo sì in modo assoluto – che vi sia tutto il senso dell’uomo, chò che l’uomo neanche confessa di desiderare, ma che gli brucia dentro.
Per quanto riguarda ciò che tu – insieme a Quinzio se ho ben capito perché praticamente non lo conosco – dici l’assurdo “della durata del mondo dopo la resurrezione del Signore”, sento in modo diverso.
Cerco di dire ciò che credo – o meglio che spero. Per me Cristo ha mostrato la strada, la via. Non credo – né voglio credere – alla giustificazione e alla salvezza che quasi magicamente verrebbe da Cristo. Cristo ha indicato la via, che Lui con grande sofferenza, con agonia ha battuto. “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” non è il salmo che religiosamente ha gridato sulla croce, ma il salmo che pronunciava lo diceva tutto. Egli di-sperò; il suo slancio, il salto che lo Spirito l’ha aiutato a fare, è stato: “Nelle tue mani affido il mio spirito”. Cristo – come scrive la Lettera agli Ebrei – anche – e forse principalmente – per questo è stato ed è mio Maestro e Signore. In questo è la radice e forse il cuore della Resurrezione.
La resurrezione è la luce che, almeno in alcuni donati momenti, trasfigura la nostra vita che si muove spesso su un cammino brumoso e talora anche oscuro.
Cristo vive la trasfigurazione nell’attesa, nella prossimità della passione e vuole che i discepoli più cari la vivano accanto a Lui perché sia loro di sostegno quando verrà l’ora delle tenebre.
La storia del mondo non finisce con Cristo e la sua resurrezione. Lì induce è prefigurato il cammino che ciascuno di noi è chiamato a compiere. Cristo – per me – non l’ha compiuto per noi, una volta per tutte, egli – lo ripeto – ce ne ha indicato la via.
Cristo ha sì consumato in sé tutto, ma a ciascuno di noi è chiesto di pronunciare con la propria vita, nella sua pochezza, questo “consumatum est” di ripercorrere il cammino verso la luce.
E il mondo, le storie, le mille sofferenze deve partorire questo mondo nuovo di cui parla Paolo.
Cristo non indica mai se stesso come la fine del cammino. Dice: “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera”; “Farete cose più grandi di queste”.
Tutta la storia e la mia vita stessa mi parrebbe negata – nella straordinaria bellezza e nello splendore come nella tribolazione agonica che comporta – se la salvezza venisse, in un certo senso, dall’esterno.
Egli è il lievito, il fermento, la luce, la vita promessa nella sua pienezza e già, per un certo verso, data, ma che ciascuno e la storia tutta deve rendere vera in se stesso e nel male.
Sulla Chiesa, sul sacro avrei qualcosa da dire ma finirei per scrivere una “summa” clariana.
Per quanto concerne la seconda lettera mi sembra molto stimolante.
Sono arrivata alla conclusione – solo per toccare un punto dei tanti da te sollevati – che gli ordini religiosi tutti in sé non abbiano un senso, che sia quasi fatale la loro clericalizzazione per giustificare se stessi.
Le voci più vive al loro interno sono quelle come ad esempio nel caso di Pio e di due mie amiche domenicane, che vivono in un appartamento di Torino, lavorando in un dormitorio per extracomunitari, sostenendo le lotte in Etiopia e altre voci di questo tipo.
Poi naturalmente si può cercare di vivere da cristiani in qualsiasi struttura.
Per quanto riguarda me – dato che ne parli – la mia non credo sia un’esperienza originalissima, anche se forse significativa.
Le mie radici culturali e di esperienza umana sono molto laiche. Ho vissuto in una famiglia che aveva una grande fede nei grandi valori umani: mio zio Manlio Rossi Doria, dopo una crisi religiosa giovanile (fu vicino al gruppo di Buonaiuti) guardava con molto sospetto al discorso religioso. Fu comunista, in carcere negli anni del fascismo, poi socialista anti-comunista, si è battuto per una vita dignitosa del mondo contadino. Amico di Carlo Zevi, di Rocco Scotellaro. Sono cresciuta in quel mondo di valori, che tuttora condivido e sento fortemente (dignità umana, libertà, giustizia, mondo solidale).
Approdata alla speranza cristiana, non ho mai ripudiato quell’anima, l’ho solo battezzata e ho lanciato più in là i suoi “confini”.
Anche prima dell’esperienza bosina ho sempre constatato – da quando mi sono detta cristiana e ho studiato la storia religiosa – come gli ordini religiosi, anche i più vivi, finiscano, dagli spazi ampi e liberi della loro vita e del loro respiro religioso delle origini, a costruire steccati, recinti in cui rinchiudersi, nel timore dell’estinzione.
Già sapevo – quando vi sono approdata – che anche Bose sarebbe stata aggredita da quella tentazione, mi chiedevo solo come – in quali tempi? – vi avrebbe ceduto.
I tempi sono stati molto rapidi, più di quanto avessi temuto, ma soprattutto la qualità umana dei rapporti abbassata ad un livello che a me è parso insopportabile.
Uscita da Bose avevo delle forze interne che mi hanno sostenuta: delle motivazioni non polemiche, amici che mi hanno sorretto, la convinzione di una ricerca religiosa che non poteva più condividere l’esperienza di Bose.
Enzo mi disse allora, cercando di convincermi al ritorno: “Ma tu che fai fuori di Bose, chi sei?” “Che identità hai?”. Appunto: nessuna. Chi sono? Una monaca smonacata o non smonacata? Mi chiedono alcuni che vengono in parrocchia: “Lei chi è? La sorella del prete? La perpetua? Quello che volete. Sono Clara. Nessuno. Una cristiana coma sa e come può.
Con Luciano ci sentiamo una piccola comunità, un “frammento di comunità”; viviamo nello stesso orientamento cercando di sostenere la comunità di poveri (non tanto e non solo economicamente) che vivono nella comunità parrocchiale.
Invece di “depositum charitatis” a me piace pensare a una “communio charitatis” che cerchiamo di vivere con gli uomini, nella povertà che è della condizione umana.
Muovendoci a tentoni, nella storia quotidiana e che è fatta di mancanze di coraggio e d’amore e però anche di speranza e di apertura e di cura degli altri, sorretti dalla preghiera, dall’invocazione, dall’amicizia e dalla comunione con altri come noi, o forse un po’ più ricchi d’amore e di speranza.
Carissimo Pino, la lettera è venuta fuori più confusa di quanto pensassi.
Spero che le tue giornate, in un tempo tanto tribolato, non siano oscure e che ogni giorno ti porti un granello di letizia.
Ti porto con me con tanta simpatia e nella communio charitatis. Mi sei caro.
Un abbraccio forte.
Clara
16 ottobre 2003
Lettera di Clara Gennaro a Pio Parisi
Carissimo Pio, ti mando il testo che ti ho promesso insieme alla e-mail che ho mandato ad un giovane medievista, che mi pare molto bravo. Ha condotto uno studio storiografico su Frugoni e per questo sono in rapporto con lui. E’ interessato al fatto religioso pur non dicendosi cristiano. Si è letto e ha fatto lavoro di sintesi su Pannikar e ha copiato (fatto lavoro di copiato) al computer i miei appunti su Gesù.
E’ una persona pensosa e che mi piace. Mi ha chiesto tra l’altro di Zelina e così gli ho risposto in modo confidente perché ho fiducia e simpatia per lui.
Siamo molto contenti Luciano ed io di averti qui e di ascoltarti a febbraio.
Ti mando la lettera che ho scritto a Pino. Mi pare un po’ confusa forse perché volevo comunicargli un po’ troppe cose.
Un saluto affettuoso. Saluta con affetto anche Giorgio quando lo senti e dagli – se lo credi – anche la lettera a Pino e tutto ciò che credi possa interessargli.
Un abbraccio forte.
Clara
P.S. avrei dovuto nella lettera a Pino molto più dirgli di te, di quanto sei stato e sei essenziale per la mia vita. Ma la lettera era così torrenziale…. Del testo della Tonelli se vuoi possiamo mandarti via e-mail, tramite l’Associazione Polverari se ti occorre.
gennaio 2004
Lettera di Pio Parisi a Pino Trotta
Carissimo, non è la prima volta che il giorno di Natale mi capita di comprendere meglio qualcosa che riguarda il mistero della nostra esistenza. Quest’anno mi è venuto in mente di scrivere a te in proposito.
Il Vangelo, la buona notizia per tutti, avanza nella storia nonostante tutti i guai personali e sociali che ne formano la trama più appariscente.
Il Vangelo è la rivelazione accolta dagli uomini che Dio c’è ed è Padre.
Considero questa rivelazione in Gesù Cristo e nella Chiesa, in coloro cioè che l’hanno riconosciuto e in qualche modo seguito. Da questo punto di partenza lo sguardo si allarga su tutta la storia e sull’universo. In questo mondo mi sembra di cogliere un cammino di tutta l’umanità verso l’adorazione in spirito e verità che Gesù propone alla samaritana al pozzo di Giacobbe.
Partendo ancora dalla Chiesa, quella del Concilio “popolo di Dio”, e non come per lo più s’intende la sola gerarchia e quelli che contano, mi sembra di riconoscere il cammino del Vangelo, in una grande spoliazione, in una progressiva denudazione.
In primo luogo considero la spoliazione delle vesti religiose per una fede che si ritrovi nella sua nudità. Poi la considerazione si allarga alla gran varietà di esperienze religiose e di tensioni morali. Infine vedo illuminarsi quella universale spoliazione che è l’esistenza umana, vita donata e tolta passando attraverso gioie e dolori di ogni genere.
La fede in Gesù Cristo e nel mistero trinitario ci è data all’interno di una religione: i sacramenti, catechesi, vita comunitaria, letture spirituali, e fra queste la Bibbia, formazione etica ed ascetica, in dosi abbondanti e talvolta eccessive, quasi violente. Il tutto sostenuto da una sana dottrina che attinge a grandiose costruzioni culturali frutto di tanto spirito e di tanta riflessione. E con la fede ci siamo ritrovati nella più grande organizzazione che sia mai esistita nella storia, formidabile struttura per l’aiuto e il servizio ma anche luogo di esercizio di poteri sconfinati.
Così ci siamo ritrovati uomini di fede permeati di religiosità fin nelle midolla.
Per alcuni la religiosità è cresciuta a dismisura fino a soffocare la fede. Ho sentito un brav’uomo affermare esultando: “… Chi ci ha creato? Ci ha creato la Chiesa!”. Quanti ai nostri giorni si definiscono uomini di chiesa ed hanno comportamenti che manifestano un radicale ateismo.
Per altri la religiosità è progressivamente entrata in crisi: in alcuni a partire dal piano morale, in particolare del sesso e dei quattrini, in altri sul piano delle idee. Così alcuni si ritrovano pieni di dubbi, di incertezze, di confusione e pensano che la loro fede sia scomparsa o corra gravissimi rischi. Ognuno sa e lui solo può parlare, se crede, di quello che succede circa la fede nel proprio animo. Penso tuttavia che si possa avanzare l’ipotesi che la fede di molti, la cui religiosità è scossa e sembra prossima a crollare del tutto, stia attraversando una crisi di crescenza: la fede spogliata dalla religione diventa più autentica nella nudità. E’ un processo di purificazione che può avere sviluppi impensati e imprevedibili, nell’esteriorità in cui può investire anche le pratiche religiose più serie che più ci avevano aiutato, e nell’interiorità in cui possono disseccarsi i più bei sentimenti religiosi e incepparsi il dialogo stesso con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, con Maria e con i santi. Una mia zia morta a 104 anni, ne aveva passati molti cieca e sorda, non riusciva più a pregare non potendo più ascoltare nessuna buona parola, guardava solo mentalmente il crocifisso. Grande era la sua fede!
La spoliazione della fede delle vesti religiose non è evidentemente un fatto solo personale, ma è eminentemente ecclesiale. E’ nella Chiesa che la nostra fede si va denudando e viene spogliata. Tutta la Chiesa è chiamata a divenire evento comunitario di fede nuda, popolo di adoratori in spirito e verità.
L’appartenenza alla Chiesa ci aiuta a spogliarci in quanto lei che è madre e maestra ci sostiene nel rigore e nella vergogna della nudità, ma anche ci toglie, e talvolta ci strappa di dosso, delle vesti a cui eravamo idolatricamente attaccati. Questo avviene sia per il suo zelo provvidenziale sia per il peccato di potere e di dominio che alberga nell’immensa istituzione ecclesiale. La Chiesa ha smesso di accendere roghi per gli eretici ma conosce e pratica altre vie violente, anche pensando di far tutto alla maggior gloria di Dio.
Veniamo quindi al punto fondamentalissimo: il destino e la speranza che la fede della Chiesa si purifichi e si liberi da tutta quella religiosità che le è di ostacolo.
L’opera di destrutturazione è immensa e delicatissima, ma necessaria, sul piano dottrinale e su quello organizzativo. La povertà, distacco affettivo ed effettivo, richiede rinunce umanamente impensabili, eppure necessarie per seguire il Signore povero. Ma tutto è possibile a Dio. E Dio si serve di tutte le creature per realizzare il suo regno, anche di quelle che si prefiggono di spogliare la sua Chiesa pensando di farla scomparire, mentre la rendono splendente nella sua ritrovata nudità.
Una chiesa dalla fede nuda diventa capace di incontrare tutte le altre fedi presenti nel mondo, rivestite o meno di altre religioni, di filosofie, di etiche vissute e teorizzate. La vera fede incontrando altre fedi si purifica ulteriormente e aiuta le esperienze sorelle a purificarsi. Pensiamo a quali meravigliose prospettive ci sarebbero in un incontro fra la fede dei cristiani e quella dei musulmani se fossero purificate e spogliate di tutta la religiosità che è loro di ostacolo.
Ma la speranza più grande è quella di vedere l’esistenza umana illuminata e trasfigurata dal Vangelo. Quella esistenza che è una grande, globale e radicale spoliazione, dono continuamente rinnovato, moltiplicato ed esteso, e continuamente ritirato tramite la violenza degli uomini o semplicemente per il tempo che passa, quell’esistenza illuminata dal Vangelo, dalla Buona Notizia universale che tutto procede da Dio che è amore. Ferito dall’estensione e dalla profondità del male il nostro cuore è inquieto finchè non incontra il Vangelo del Signore
Notte, tenebre e nebbia
fuggite: entra la luce,
viene Cristo Signore.
Il sole di giustizia
trasfigura ed accende
l’universo in attesa.
Carissimo, questi pensieri natalizi mi vengono da tutto quello che ho ricevuto nella mia vita caratterizzata dalla ricerca che tu conosci. Quel che spero è che questa luce possa essere di qualche utilità al cammino tanto faticoso dell’umanità e al compito che in esso è affidato alla Chiesa che accetti la povertà e la nudità della fede.
Un fraterno abbraccio
Pio
gennaio 2004
Lettera di Pio Parisi a Clara Gennaro, Pino Trotta e Giorgio Marcello
Clara, Pino e Giorgio carissimi, la comunicazione fra di noi sul tema della vita consacrata sta arricchendo la nostra amicizia spirituale, anche in una direzione forse non del tutto prevista, con un’accelerazione influenzata dalla dura prova che sta sopportando Pino.
Siamo andati rapidamente, quasi bruscamente al fondo della consacrazione universale operata da Dio nel mistero di Gesù Cristo e della chiamata alla fede.
Penso anche io a comunicare con semplicità qualcosa della mia fede.
Come ho scritto da qualche parte nelle Lettere agli amici, credo e spero in Gesù Cristo, non ho dubbi, nel senso di vedere per me e per l’umanità alternative possibili, e al tempo stesso sono pieno di inquietudine in tutte le ore delle mie giornate.
Quando Pino comunica l’esperienza di frammentazione della propria vita e tante altre carenze che non cerco di ripetere, mi sembra di capire bene e condividere, anche se i miei guai sono incomparabilmente minori dei suoi. Così mi sembra di comprendere le difficoltà di Clara e quelle di Giorgio che quando gli chiedo come sta si limita a dire “insomma!”.
Anche se mi ritengo l’ultimo del quartetto in fuga non credo di essere irrimediabilmente distaccato. Il contatto quotidiano con Paolo Tufari mi desta sempre un certo stupore per la sua serenità e disponibilità, senza mai un riferimento alla sua fede e alla sua speranza ma con una chiara testimonianza di carità.
Tutte queste esperienze umane che mi appaiono così singolari e preziose ma anche in quando modo contraddittorie e assurde indicano – ne sono sempre più persuaso – un grande processo di purificazione della fede, cioè della nostra possibilità di entrare in comunione con Dio. Un esodo continuo che via via si perfeziona.
Una purificazione della nostra fede e una maturazione della Chiesa che avvengono in una continua spogliazione, esperienza di povertà.
Ultimamente ho trovato luce e conforto nella lettera del cap. IX di “£La Tenda”, EDB, 2003.
Siamo trascinati dallo Spirito verso la nudità della fede, davanti al Signore nudo sulla croce, per scoprire in lui la nudità di tutte le creature. Così ci disponiamo ad accogliere la gloria di Dio.
Innumerevoli sono tuttavia le vesti con cui crediamo di nascondere la nudità. A cominciare da quella del Signore quando nel nostro ricordo cerchiamo di far svanire la sua umanità sofferente in una elaborazione teologica sulla sua divinità.
Ci sono poi tutte le vesti con cui cerchiamo di coprire la nostra nudità, infinite sicurezze che troviamo in noi stessi e in tutte le creature. Ci sono soprattutto i paramenti sacri, la nostra religiosità con i sentimenti, le speculazioni, le strutture di ogni genere che impediscono il rapporto fra la nostra radicale insufficienza e la “kenosis” per la quale l’Infinito viene a salvarci.
Così quando veniamo spogliati sappiamo per quello che ci viene tolto e perché siamo in comunione con tutta l’umanità che viene spogliata per diventare chiesa, nel senso di Regno di Dio. Soffriamo poi per il contrasto con tutta la chiesa rivestita di splendidi paramenti ben più pesanti e consistenti di quelli liturgici.
La nudità di fronte al Signore crocifisso ci porta al silenzio davanti a Dio e alla speranza riposta in lui. “Sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui”.
Così ci ritroviamo anche in silenzio di fronte a tutto il mondo: alle singole persone, alle culture, ai popoli, all’immensa corrente di donazione paziente, e alle violenze inaudite che s’intrecciano nel corso della storia.
Saltano tutti i recinti e i confini, siamo quasi saldati con tutta l’umanità e la sua storia, con l’universo. E’ la piena laicità, profezia del popolo di Dio sul mondo, unico superamento del clericalismo che ancora ci assedia.
“Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo, e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo, la nostra fede” (1 Giov. 5,4).
“Prendi, Signore e ricevi
tutta la mia libertà,
la mia memoria,
la mia intelligenza
e tutta la mia volontà.
Tutto ciò che ho e possiedo
tu me lo hai dato,
a te, Signore, lo ridono:
tutto è tuo
di tutto disponi secondo la tua volontà;
dammi il tuo amore e la Grazia;
questo mi basta”.
“Tomad, Senõr, y recibid toda mi libertad, mi memoria, mi entendimiento y toda mi voluntai, todo mi haber y mi poscez; vos tue lo distes, a vos, Senõr, lo torno; todo es vuestro, dispone a toda vestra volontari; dai me vuestro amor y gracia, que érta me basta”. (Ignazio di Lodola).
Con grande affetto,
Pio
fanalino di coda
1 Questo paragrafo potrebbe essere utile per la 4° di copertina
2 Vedi La coscienza politica, 1975, parte II, pp. 25-65
3 Sorella Maria era una donna dal grande respiro religioso, di origine francescana, fu in un profondo rapporto con Ernesto Bonaiuiti e con Tyrrell, con quei ricercatori più assetati di una vera ricerca religiosa, che si espressero nel variegato movimento del modernismo. Con un piccolissimo gruppo di donne cercò di vivere una vita cristiana nella semplicità e nel nascondimento. Vera interprete di Francesco, coglieva nel creato e in ogni creatura la presenza del Signore. Attenta nei confronti di tutte le sofferenze della storia e della persona, aperta ad ogni voce dello Spirito. Don Michele fu un grande amico di sorella Maria. Di lei scrisse padre Vannucci in un bel saggio pubblicato in una raccolta di suoi scritti, La libertà dello Spirito, edita da Servitium di Bergamo.
4 Vedi tra l’altro “Th. Matura, E lasciato tutto lo seguirono, Ed. Qipaion (Bose) 1999.
5 Murray è un grande amico di don Michele. E’ inglese, ha vissuto per un periodo nell’ashram insieme a Gandhi; in un periodo della sua vita è stato a Gerusalemme, dove ha vissuto il dramma della lotta tra Israele e palestinesi. Un episodio che lo rappresenta: lui è altissimo, vestito con un lungo abito bianco, biondo – ora bianco perchè è molto anziano – si trovava su una corriera, dalla quale dei militari israeliani fanno scendere i viaggiatori palestinesi per perquisirli. Scende anche lui, ma gli altri gli fanno cenno di no, che lui resti tranquillamente sulla corriera. Ma lui sorridendo e con tratti amichevoli dice: “No, anche io sono come loro”. Il suo sorriso non è canzonatorio, nè provocatorio, disarma. Poi è stato in Honk-Kong sempre ricercando amicizia e comunione con gli uomini nella comune adorazione di Dio. La sua amicizia è per me un grande dono.
6 E’ un’espressione presente nel Sacro Commercio di Santo Francesco con Madonna Povertà. In questo testo la Povertà traccia una storia della sua vicenda iniziando dalla vita dell’uomo ancora nell’Eden. All’inizio i rapporti della Povertà erano gioiosi “Ero colma di gioia e mi dilettavo davanti a lui in ogni istante perchè, non possedendo nulla, egli (l’uomo) era tutto di Dio”.
7 Vedi l’appendice Voci
8 Vedi Voci, la poesia di Montale
9 F. Rossi De Gasperis, Sacerdozio di Gesù e laicità nel Nuovo Testamento