Incontri di discernimento e solidarietà

Per l’avvio di una riflessione sul volontariato


Intendiamo promuovere una riflessione sul volontariato inteso, innanzitutto, come esperienza di partecipazione politica.

Dal punto di vista del metodo, proponiamo di partire dalle esperienze, ponendo mente ai nodi problematici di esse.

Il tema, pertanto, si potrebbe così declinare: Il volontariato (politico) come esperienza di radicamento sociale.


  1. Il volontariato oggi in Italia. Questioni aperte e punti di crisi


  • Si tratta di una forma di impegno sul territorio che si presenta sempre meno rilevante dal punto di vista quantitativo (verificare questa affermazione anche alla luce dei dati più recenti della Fivol sull’associazionismo volontario).


Il passaggio dal volontariato all’impresa sociale (o a modalità organizzative più strutturate) sembra inevitabile.


  • Manca una lettura condivisa di questo cambiamento. Esso riguarda le motivazioni, ovvero la disponibilità all’agire volontario, o invece le organizzazioni? (v. articolo di I. Diamanti su “la Repubblica” sulla diffusione del volontariato “individuale”).


Aspetti di questo cambiamento:


  • La crisi del welfare e il ruolo giocato dalle leggi, a partire dalla 266 del 1991, ha offerto riconoscimento istituzionale al volontariato. Poi tutte le altre norme (fino alla 328 del 2000) che lo hanno qualificato come interlocutore importante ai fini della progettazione, della organizzazione e della gestione delle politiche e dei servizi alla persona.


  • La nascita e lo sviluppo del terzo settore. Il volontariato viene rappresentato come organizzazione “leggera” e meno evoluta, rispetto a quelle più articolate del terzo settore.


  • Crisi della dimensione politica. Per molti anni, il volontariato organizzato ha interpretato e vissuto questa dimensione come: superamento della beneficenza e delle pratiche assistenziali; esigenza di inquadrare e rimuovere le cause dei problemi sociali; rifiuto di deleghe in bianco, cioè di compiti di pura e semplice gestione di servizi; azione per favorire la crescita di una consapevolezza diffusa riguardante i bisogni della gente, e per stimolare il coinvolgimento e la solidarietà più ampi possibili. E, inoltre, come radicamento sociale. Come scelta, cioè, di stare nel territorio, cercando di favorire la tessitura e il supporto di legami comunitari.


Fattori che hanno contribuito a determinare la crisi della dimensione politica: il riconoscimento istituzionale del volontariato; la necessità di dare continuità e stabilità ai servizi avviati (e di sostenere quanti erano impegnati nello svolgimento di questi servizi); l’avvio di un processo di professionalizzazione degli operatori; la conseguente crescita e trasformazione delle organizzazioni. Tutti questi elementi riflettono la divaricazione tra identità e servizio, cioè tra motivazioni e dimensioni organizzative, tra spirito e strutture.


  1. Possibili obiettivi di una riflessione sul volontariato


  • Ragionare sui caratteri che più hanno contraddistinto il volontariato (la gratuità e il radicamento sociale) contribuendo a delineare la fisionomia “politica” di questa esperienza.


  • Mettere a fuoco le trasformazioni – almeno a grandi linee – che questa forma di lavoro sociale ha subìto nel corso degli ultimi anni, fino alla situazione attuale.


  • Capire in che senso oggi c’è bisogno di un lavoro sociale che assuma come orientamenti la gratuità e il radicamento, tenendo presenti anche i caratteri delle nuove disuguaglianze.


  1. Che cosa si intende per “radicamento”.


Radicamento è:

ascolto

accogliere ed essere accolti

presa di coscienza dei problemi

esperienza di legami che si intrecciano, per cui non c’è più distinzione tra chi accoglie e chi viene accolto, c’è la vita insieme.

Ed è, inoltre, tessitura quotidiana, paziente, silenziosa di legami. Tutto ciò in prima battuta. Il radicamento, così inteso, costituisce una premessa indispensabile di qualsiasi attività di organizzazione di servizi alla persona.


L’azione di radicamento presuppone l’esistenza di un contesto ben preciso, circoscritto. Una regione, una città, un quartiere, un condominio. Presuppone, inoltre, la volontà di “stare”, di mettere radici in quel particolare ambiente.

A monte di una esperienza di radicamento ci sono anche le motivazioni (personali e/o collettive) che spingono una persona oppure un gruppo a stare in quel contesto anziché in un altro.

Il radicamento che più ci interessa, di cui vogliamo occuparci, è quello che nasce dal bisogno di entrare in relazione viva con contesti, ambienti, gruppi, persone, che sono colpiti dalla povertà, dalla disuguaglianza, dall’esclusione sociale.

Di che cosa c’è più bisogno per avviare questo tipo di radicamento?

Innanzitutto di ascolto. Che non è l’atteggiamento di chi si muove con discrezione, preoccupato di non disturbare o di non urtare la suscettibilità di alcuno. È innanzitutto attenzione profonda, cordiale, alla realtà così com’è, a tutti gli elementi che la compongono (le persone, le strutture, i sistemi di relazione, l’economia, etc.). In questo senso, l’ascolto richiede una osservazione scrupolosa, “dal di dentro”. È raccolta ed analisi di tutti i dati oggettivi, che possono essere utili per capire. Non si tratta, dunque, di una osservazione superficiale, ingenua. L’ascolto così inteso costituisce già un ingresso nella relazione con gli altri (ai quali ci si vuole rivolgere). E allora, se l’atto dell’osservare è sostenuto da profili di competenza, va bene. Deve essere chiaro però che l’osservazione attraverso cui si esprime l’ascolto non è innanzitutto una tecnica di intervento (che richiede necessariamente l’esercizio di determinate competenze), ma è l’atto attraverso il quale si comincia ad entrare in relazione con un ambiente, e, soprattutto, con le persone che in esso abitano. Esige pertanto curiosità e profondo rispetto.

L’ascolto è superamento del pregiudizio, spesso paralizzante, sia sul piano dell’analisi che su quello immediatamente operativo.

La traiettoria del radicamento è dunque quella che va dall’osservazione della realtà, alla vita di relazione (accoglienza, compagnia, relazioni di prossimità), alla presa di coscienza sempre più matura (e sempre più dal di dentro) dei bisogni.

Dal punto di vista della qualità dell’esperienza, la consapevolezza di ciò che è accaduto (e che ancora accade) costituisce una dimensione essenziale del radicamento. Si tratta della conoscenza dei problemi e delle cause che li determinano; conoscenza che si affina man mano che si entra più in profondità nella vita di relazione con quanti patiscono sulla propria pelle la conseguenza di quei problemi.

In una esperienza di radicamento, la consapevolezza dei problemi sociali e delle loro cause alimenta la vita di relazione, la dilata per cerchi concentrici; sollecita la comunicazione ad altri di quanto si è compreso; invoca il coinvolgimento più ampio possibile. Quando il soggetto che prende consapevolezza è sempre più un soggetto plurale e quando l’andare in profondità rispetto ad una determinata questione apre la mente e il cuore a tutti i piccoli e i poveri. È l’inizio della coscienza politica.

È la forza centrifuga del radicamento.

C’è poi anche un movimento centripeto. Si ha quando l’esperienza del radicamento sfocia nell’organizzazione di servizi (alle persone). È una via necessaria, spesso inevitabile, da percorrere con la consapevolezza che, proprio su questa via, il lavoro sociale di radicamento ha spesso perduto la sua identità, la sua dimensione politica, risolvendosi in un mero processo organizzativo.


A questo punto, si tratta di ragionare sui possibili esiti di una esperienza di radicamento sociale: illustrare il percorso più noto, quello che conosce come approdo l’organizzazione di un servizio; e anche il percorso meno battuto, quello che, senza negare il precedente, privilegia l’importanza di tessere legami comunitari.

L’individuazione/presa di coscienza di un bisogno sociale e l’intervento su di esso svelano l'esigenza di dare sempre maggiore organizzazione e stabilità al servizio prestato. Nella misura in cui il servizio alla persona si struttura, aumentano i bisogni dell’organizzazione e delle persone che in essa sono impegnate.

Man mano che ci si radica in un ambiente, che si stabiliscono relazioni di fiducia con le persone che si incontrano, si stringono legami sempre più forti di amicizia. Le persone coinvolte in questo cammino non si percepiscono più come chi accoglie e chi è accolto, ma come compagni di viaggio. Questa dimensione non trascura la prospettiva del cambiamento, che diventa un orizzonte verso il quale ci si muove insieme.


Due sono le dimensioni fondamentali dell’azione di radicamento sociale: la gratuità e la politica.


  1. La gratuità

Crediamo sia importante precisare che la gratuità è un orientamento, più che un contenuto dell’agire volontario.

Non si vuole negare il significato sociale di un lavoro portato avanti senza chiedere nulla, senza percepire alcuna ricompensa, soprattutto nei contesti disgregati, frammentati, in cui le relazioni umane tendono ad essere manipolate e mercificate.

Né si può ignorare che in tanti ambienti, soprattutto al sud, alcune esperienze di collaborazione, con l’interlocutore pubblico, costruttive, libere, creative e anche critiche in questi anni sono state possibili perché tanti gruppi e associazioni coinvolti hanno offerto la loro disponibilità a lavorare assieme senza chiedere alcuna retribuzione. Non c’è altra scelta quando, al degrado sociale in cui ci si vuole radicare, si somma il degrado istituzionale.

Detto questo, è importante provare a spiegare in che senso la gratuità non rappresenta un espediente puramente strategico, ma un orientamento – o una spinta - dell’agire. La gratuità così intesa si caratterizza come tentativo di esercitare un “potere di rinunzia”.

Questa espressione, usata alcuni anni fa da un amico sociologo in un suo libro (A. Costabile, Il potere di rinunzia, Cens), è tratta da alcune pagine di Corrado Alvaro. Sono quelle in cui lo scrittore calabrese ricorda il gesto di una povera donna che, in una stazione sperduta della nostra regione, gli si fece incontro per aiutarlo a portare i bagagli. “Quando misi mano al portafoglio – racconta Alvaro – mi disse: Grazie non ne ho bisogno, l’ho fatto per rispetto di Voi, e la sua veste era tutta una toppa…”.

Per Alvaro il “potere di rinunzia” è quel valore che una tradizione antica ha segnato nel cuore dei calabresi e di tutti i meridionali, e che per secoli ha espresso la sintesi tra senso religioso e vita sociale nel sud.

L’esercizio della gratuità come potere di rinunzia è, dunque, un modo di stare al mondo e di concepire e vivere le relazioni interpersonali, che affonda le sue radici in una tradizione antica e che la compagnia dei piccoli ci aiuta a recuperare, disponendoci a coglierne il valore.

È un modo di stare al mondo che consiste nel ricercare l’essenziale, ovvero “ciò che conta, che resta, che lega oltre le dimensioni del contingente, nell’azione personale come pure nelle relazioni sociali e nei conflitti per la vita” (A. Costabile, op. cit.).

Questo particolare tipo di potere si esprime nel desiderio di custodire l’essenziale nell’interiorità, anche a costo di perdere esteriormente di visibilità e di spessore (in una società in cui l’immagine è fondamentale), o di rinunciare a ricoprire ruoli qualificati (in una società in cui l’appartenenza ad un ruolo è principio indiscutibile di riconoscimento: il ruolo fonda l’identità personale). E si manifesta, inoltre, nel bisogno di donare, senza chiedere nulla in cambio.

La gratuità come potere di rinunzia è anche un modo di concepire e di vivere le relazioni tra persone che consiste, fondamentalmente, “nell’anteporre l’accoglienza dell’altro ai propri bisogni” (cfr. P. Fantozzi, Introduzione a Il potere di rinunzia, cit.), rinunciando a qualsiasi condizione di forza.

Per accogliere veramente bisogna essere poveri, come la donna di cui parla Alvaro. Sembra che la capacità di accogliere cresca nella misura in cui la disponibilità all’accoglienza matura in povertà interiore.

L’esercizio della gratuità come potere di rinunzia (inteso come dimensione essenziale del lavoro di radicamento sociale) rappresenta una via evidentemente alternativa alle “logiche mercificate ed utilitaristiche dello scambio, della differenza, della dipendenza, dell’assistenza, che poggiano inevitabilmente su relazioni di potere” (P. Fantozzi, cit.).

Chi lavora nelle realtà emarginate sa bene che in quei contesti è possibile operare e realizzare anche buoni interventi con un metodo tutto centrato sui principi dell’efficienza, della razionalità organizzativa: cioè sull’utilizzazione della propria posizione di forza. È evidente, però, che “chi lavora così con l’intenzione di aiutare gli altri rischia di stabilire relazioni verticali, dall’alto verso il basso, da chi ha di più a chi ha di meno; relazioni che riproducono lo schema abituale del comando” (P. Fantozzi, cit.).

Inoltre, chi incontra situazioni di debolezza e di degrado sa che quanto più si radica in esse, tanto più gli è chiesto – come si è già detto – di rinunciare ad ogni condizione di potere e a “privilegiare l’ascolto, l’accoglienza, la condivisione, la relazione personale diretta”. Tutto ciò senza minimamente trascurare di portare fino in fondo il peso delle responsabilità assunte nei confronti di altri.

Non vogliamo dire che il lavoro gratuito sia la migliore tra le modalità possibili di intervento sociale, o la più apprezzabile da un punto di vista etico, ma solo precisare che, in una fase segnata da grandi trasformazioni del lavoro sociale (vedi tutto il dibattito sul c.d. terzo settore, sull’economia sociale, sulla “professionalizzazione” del volontariato), ci pare importante sottolineare – con le parole e con le opere – l’importanza della gratuità (come potere di rinunzia) quale contenuto essenziale di ogni forma di lavoro sociale, come di qualsiasi tipo di impegno nel mondo.


  1. La politica

L’azione di radicamento sociale ha un profondo significato politico, nella misura in cui essa si esprime come partecipazione umile e risoluta alla vita della città. Bisogna comunque riconoscere che questa valenza politica del radicamento si fa fatica a dirla, da parte di chi opera, e raramente viene riconosciuta da altri.

C’è tutta una linea di ricerca che individua la causa principale delle varie forme di disagio sociale nella crisi delle relazioni di comunità, cioè delle appartenenze primarie. Se così è, evidentemente il lavoro più urgente è quello di costruire reti comunitarie là ove il disagio si manifesta, operando soprattutto in chiave di prevenzione.

Pensiamo che i tentativi di costruire comunità dal basso, la tessitura silenziosa, paziente, feriale, di relazioni comunitarie e fraterne rappresenti – soprattutto nelle realtà periferiche – l’impegno politico di cui oggi c’è più bisogno.

Questo modo di intendere la politica confligge con la concezione di politica oggi più ricorrente, quella per cui essa consiste nella tecnica di conquista e gestione del potere per il governo della polis.

L’impegno politico, portato avanti come impegno di radicamento, non nega la dimensione della politica come potere, e non vuole essere una alternativa di potere, ma una “alternativa al potere”.


Procedendo per questa via, si tratta di raccogliere l’Appello ai piccoli e ai poveri.

Si tratta “di sostenersi reciprocamente nell’esperienza di essere piccoli e poveri, perché essa è preziosa e faticosa. Preziosa. È, in qualche modo, la più grande risorsa umana: dei singoli, della società, della storia. Faticosa. Chi vive tale esperienza è continuamente esposto alla tentazione di uscirne fuori, abbandonando così la risorsa che costituisce la maggiore speranza dell’umanità. La storia e la ragione suggeriscono che i piccoli e i poveri si uniscano perché l’unione fa la forza, e che cerchino in tal modo di diventare grandi e ricchi. Non si vuole negare questa via e la necessità, in qualche modo, di percorrerla, ma il nostro appello punta a qualcosa di più grande, di più incisivo e di più decisivo: rimanere piccoli e poveri, scoprendo il valore (sociale e politico) di tale condizione” (cfr. P. Pio Parisi, La ricerca di Dio e la politica, Rubbettino).



4. Il radicamento sociale e le nuove disuguaglianze.

Diventa sempre più difficile parlare dei bisogni sociali “in generale”. I bisogni, cioè, si vanno sempre più scomponendo, ed esigono pertanto “nuovi relazionamenti” (cfr. P. Donati, Sociologia del terzo settore). La condizione dei piccoli e dei poveri è marcata non solo e non tanto da esigenze di natura economica, ma soprattutto da bisogni relazionali. Se questa lettura è fondata, è evidente la necessità che il lavoro sociale assuma come prospettiva quella di contribuire alla tessitura di relazioni significative, dense di senso, là dove il tessuto sociale si presenta più sfilacciato.

La presa di coscienza di quelli che sono i caratteri delle nuove disuguaglianze, ci aiuta a riscoprire la validità e l’urgenza del volontariato inteso come azione di radicamento sociale.

Abbiamo sentito autorevolmente valutare il volontariato gratuito come forma adolescenziale in confronto all’attuale impegno nell’impresa sociale. Ci sembra che il cambiamento in atto sia piuttosto un regresso della coscienza politica e della ricerca di fedeltà al Vangelo.


Firme:

P. Pio Parisi sj.

Gianfranco Solinas

Piero Fantozzi

Giorgio Marcello