( Testo introduttivo e interventi registrati durante l’incontro del 13 marzo 2002)
Questo è il terzo incontro che facciamo su S. .Francesco e l’Islam, dopo il primo, con Chiara Frugoni, sui rapporti tra la Chiesa e l’Islam all’epoca di San Francesco e l’altro, col Padre Massimo Fusarelli, sulle radici evangeliche della scelta di S. Francesco verso l’Islam. L’incontro di oggi è finalizzato a cercare insieme di discernere la situazione attuale per vedere in che modo dobbiamo convertirci. Sottolineo questi due momenti: il discernimento spirituale di ciò che sta succedendo nei rapporti tra i cristiani, la Chiesa e l’Islam e, soprattutto, la ricerca di come siamo chiamati a convertirci. Forse molti spontaneamente si chiederebbero che cosa oggi dobbiamo fare. Io do per scontato che la prima cosa da fare è di convertirsi, adeguando la nostra vita alla volontà di Dio. A partire da una profonda conversione interiore poi vediamo che cosa dobbiamo fare sul piano dell’azione.
Ho pensato ad alcuni punti. Il primo punto: quello che cerchiamo insieme è la pace fra i cristiani e i musulmani mentre sta infuriando la guerra in tanti posti e sotto tanti aspetti che in qualche modo coinvolgono tutti. Cerchiamo la pace fra i cristiani e i musulmani e, evidentemente, fra tutti gli uomini. Cerchiamo la pace con motivazioni anche diverse, ma per molti di noi perché siamo convinti che è la volontà di Dio, il disegno di Dio. Ricordo in proposito degli scritti molto belli del P. Mario Castelli in cui tratta della politica di Dio, sottolineando attraverso una riflessione biblica che Dio opera sul piano politico la pace.
Cerchiamo quindi come favorire la pace seguendo le orme di San Francesco, come abbiamo sentito negli incontri precedenti. San Francesco è l’orma più marcata di Gesù Cristo. La prima lettera di Pietro esorta a seguire le orme di Gesù Cristo. Qui faccio una proposta per avviare questa ricerca in comune. Una proposta estremamente semplice, che è già attuata da alcuni in modo mirabile. Penso che per tante persone possa risuonare come una novità a cui non avevano pensato. Se a qualcosa non si è pensato, può darsi che si trovi una notevole corrispondenza. Una proposta che certamente per alcune persone è scandalo e follia, scandalo per i giudei e follia per i gentili, come diceva San Paolo. La proposta semplice è cercare veramente la conversione, il cambiamento nostro interiore, la crescita, la maturazione sulla linea dell’amore verso i nostri fratelli, in particolare verso i fratelli musulmani. Un amore per loro che si estende come amore universale. Un amore che riguarda il nostro interno, i nostri sentimenti più profondi, la nostra mente, il nostro cuore. Un amore che si traduca all’esterno in comportamenti diversi in tantissime cose, dai rapporti con i musulmani ai rapporti con tutti, con le ricchezze, con la cultura. Un cambiamento quindi interiore che si esplichi all’esterno e in ogni genere di opere, dal nostro lavoro agl’impegni sociali, politici, ecc.
La proposta è quindi di crescere nell’amore verso i fratelli, amore universale, la carità che propone Gesù Cristo. Al tempo stesso, aprirci all’amore che gli altri hanno per noi, in questo caso i musulmani. Leggevo oggi delle pagine bellissime di Massignon, uno dei più grandi islamologi, per cultura e per spiritualità e per l’esperienza di rapporti con il mondo musulmano, in cui sottolineava molto la capacità di accoglienza trovata nei musulmani. Aprirci all’amore degli altri, alle volte può essere quasi più difficile che amarli, richiede umiltà. Questa proposta così semplice, quasi scontata, di impegnarci per la pace nel mondo crescendo nell’amore verso i fratelli, la arricchirei dicendo che quest’amore dovrebbe nascere dalla fede nostra e loro, anche se non è una fede professata come tale. Per fede intendo ora un ancoraggio profondo del nostro aprirci agli altri e dell’accogliere la loro apertura, non qualcosa di superficiale, di sentimento epidermico o di opportunità del momento; in profondità si incontra Dio, alcuni come Dio, altri come Allah.
Fondarsi su ciò che determina il modo di affrontare la vita, come vivo, perché vivo e come affronto le cose belle e brutte della vita, e il modo di affrontare la morte. Così nasce una comunicazione a livello della fede. Per alcuni una fede esplicita, professata, nella Chiesa o nella "umma", per altri in modo più implicito. Suggerirei quindi di partire cercando di prendere coscienza personalmente e comunitariamente, di contemplare tutto il popolo di Dio che crede in Gesù Cristo e quello che crede in Allah. I media non ci aiutano in genere in questa contemplazione; ma conservando una qualche indipendenza nei loro confronti, ritrovare questa attenzione e contemplazione così semplice della realtà: quante persone affrontano la vita e la morte rivolgendosi a Dio Padre, a Gesù Cristo, alla Madonna e quanti ancorandosi alla certezza di essere sottomessi a Dio, ad Allah: Islam significa sottomissione, musulmano, sottomesso. Affidati pienamente a Dio. Questa contemplazione non viene spesso proposta perché non fa notizia e noi viviamo in larga misura di ciò che fa notizia. Eppure quanti sono piccoli, poveri, sofferenti, emarginati, ma anche persone serene che godono della vita ringraziando il donatore.
Questa contemplazione porta al desiderio di vedere queste realtà, questi due popoli comunicare tra di loro. Pensiamo alla differenza che c’è tra vivere fidandosi, sperando in Dio, in Allah, e andare avanti cercando in qualche modo di sopravvivere. E’ una cosa talmente grande che ci siano due popoli così numerosi che si affidano a Dio Padre o ad Allah, e poi tanti altri popoli. Il desiderio della comunicazione a livello della fede, il dialogo di fedi. Un libro molto valido in questo senso è "Orientamenti per un dialogo fra cristiani e musulmani" di Maurizio Borrmans. Lui dice molto chiaramente che il dialogo può avvenire a tanti livelli: politico, culturale, etc., ma quello incisivo è la comunicazione della fede del popolo che crede in Dio. Borrmans arriva a dire che c’è qualcosa di ancora più grande del dialogo della fede, il dialogo del silenzio davanti a Dio. Dovremmo per questo conoscere l’esperienza dei Sufi, i mistici musulmani e l’esperienza dei mistici cristiani.
Per realizzare questa conversione a un amore più grande - siamo al punto meno facile, meno semplice, meno scontato - personalmente e comunitariamente bisogna liberare il cuore da degli ingombri. Ognuno di noi sa quante difficoltà deve superare per uscire dal proprio egoismo, dalle proprie passioni sregolate. Ci sono degli ingombri particolari nei rapporti con i diversi, ora pensiamo soprattutto ai musulmani. L’ingombro più grande è l’odio, o almeno l’avversione o l’estraneità. Tanti pensano: si facciano gli affari loro, noi ci facciamo i nostri. Borrmans sottolinea la necessità di superare l’atteggiamento di chi pensa: non sono affari miei. Può apparire una posizione abbastanza conveniente ma in realtà non aiuta la pace ed è anzi un presupposto dello scontro, della mancanza di pace.
Un discorso più chiaro è che bisognerebbe liberarsi dalla convinzione che il problema del rapporto fra cristiani e musulmani sia un problema di guerra, di conflitto. Un amico delle Acli, Abte, presidente degli eritrei che vivono a Roma, mi diceva che in Eritrea il rapporto fra cristiani e musulmani è ottimo, c’è solo una difficoltà e sono quelli, cristiani e musulmani, che vengono da fuori dell’Eritrea con l’idea che si debbano assumere atteggiamenti conflittuali. A parte questo, a me sembra che oggi la convinzione che la soluzione di tutto sia la guerra, come tanti pensano, tanti americani che ancora consentono con il loro presidente, sia ancora molto presente. Ma più diffusa è la convinzione che tutto si risolva con la politica intesa come gioco di potere bellico, economico, culturale. E’ qui che si cade per la seduzione del potere. E’ la tentazione così chiara nel V. e N. Testamento: il potere è quello che risolve e chiaramente il potere buono è quello nostro, quindi cercare di conquistare il potere per creare degli equilibri e una situazione di pace. Non dico che questo non debba esistere, ma che quasi sempre prende il primo posto nei confronti del dialogo dell’amore. Non dico che non si debbano cercare gli equilibri di potere e tutto quello che è possibile per evitare la guerra; che non ci debbano essere anche interventi di forza, militari, umanitari. Quello che voglio sottolineare è la tentazione molto forte di pensare che quella sia la soluzione, che il disegno di Dio che si svolge nella storia dell’umanità sia essenzialmente quello di raggiungere la pace attraverso il conflitto, la guerra e i giochi di potere. La tentazione oggi è molto forte anche tra chi non è guerrafondaio né assatanato dal desiderio di potere. Quando questo occupa il primo piano, il discorso sulla pace e sull’amore diventa follia, come il vangelo per i gentili e scandalo per un certo tipo di clericali.
Penso che ci sia anche un ostacolo da superare, un ingombro da rimuovere che può venire non dalla cultura ma da una pseudo cultura, o anche da una cultura che abbia la sua validità, ma sia priva di amore, lo può essere ma non so se ci sia; anche chi sembra tutto preso dai suoi interessi culturali, tanto da ignorare gli altri, può essere che interiormente sia animato da grande carità. Se dovessimo precisare tutti i significati di cultura, non arriveremmo mai a un inizio di comunicazione in proposito.
Un ultimo punto è che tutto questo richiede uno sforzo di organizzazione. Che è poi come organizzare la diffusione del Vangelo. Organizzazione sempre "in sospeso" perché sappiamo che il vero organizzatore è sempre lo Spirito di Dio. Da parte nostra siamo chiamati a fare le cose con una certa razionalità, serietà, impegno, continuità, assiduità, ecc. Importantissimo è che organizzare la diffusione di questa proposta ha un punto di partenza: organizzare la nostra conversione personale domandandoci: il mio cuore nei confronti di tutti i musulmani e di quelli di altre religioni, a che punto sta? Ci sono avversioni? E allora, se ti accorgi che c’è qualcosa contro, prima riconciliati e poi pensa al sacrificio...della giornata, delle opere. Cominciamo sempre dalla conversione personale, sulle orme di Francesco che è l’orma più forte di Gesù Cristo.
Le cose straordinarie che ci hanno detto Chiara Frugoni e Massimo Fusarelli circa l’amore di Francesco per i saraceni che era tale da desiderare di essere martire per amore, sono cose meravigliose che riguardano ognuno di noi, non perché possiamo essere come San Francesco ma perché quella è la strada su cui potrò fare un passettino piccolo piccolo, nella direzione giusta. Se questo è un modo valido di proporre oggi il Vangelo, possiamo domandarci da dove cominciare nelle parrocchie, nelle associazioni, andandoci ad interporre da qualche parte dove il conflitto è più grave. San Francesco è andato a Damietta per annunciare il Vangelo a chi assediava e a chi era assediato. Ai suoi frati diceva: andate dai saraceni e testimoniate con la vita l’amore. Quando poi vi sembrerà opportuno, annunziate il Vangelo, che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo e che Gesù è il Figlio incarnato, morto e risorto per la salvezza universale.
Io penso che bisognerebbe soprattutto andare in piazza. Una
richiesta del Mlac mi ha fatto venire in mente che un posto dove si
incontrano sempre di più cristiani e musulmani è il
lavoro.
Interventi
Romolo Pietrobelli
La proposta che tu dici essere
semplice non è semplice. Comunque la somma dei problemi che
sono venuti fuori questa sera e continuando il discorso della
Frugoni e del Padre francescano, si pongono sotto diversi profili e
livelli: uno politico militare, un altro più sul piano
personale ed ecclesiale. Due livelli che vanno tenuti un momentino
distinti.
A livello politico militare c’è la tentazione di
credere che la violenza possa ristabilire la pace; con riferimento
al terrorismo, la parte più potente
dell’umanità ritiene che la violenza possa dominare
ancora e vincere. Lo vediamo in diversi settori,
dall’Afghanistan a Israele. E vediamo la fatica che fanno le
grandi potenze a capire. L’immaturità, per esempio,
degli Usa che credono che con la guerra si risolvono i problemi.
Immaturità colossale. In America c’è una crisi
di civiltà che fa paura. Adesso stanno emergendo delle forze
interne in Usa che dicono: attenzione, che questo terrorismo dopo
sei mesi è tutt’altro che sconfitto; dicono al potere
armato che non è questa la strada. Queste voci non sono
prevalenti ma stanno crescendo. E’ importante che si diffonda
la coscienza che attraverso questo sistema di violenza non si
ristabilisce la pace e il dominio del terrorismo. Semmai la difesa
armata deve essere precaria, provvisoria e di breve periodo. Questa
violenza ha le armi spuntate per ristabilire la pace.
Non sarei da questo punto di vista del tutto pessimista. Il secondo uomo che rappresenta la massima potenza va e cerca di persuadere tutto un mondo islamico che conviene attaccare l’Iraq. Questo pensiero fa paura. Pregherei quindi che la missione del Vice Presidente Usa non abbia successo.
Il discorso sarebbe infinito però bisogna che lo schieramento di chi crede che la violenza per vincere il terrorismo è una follia, anche dal punto di vista politico e la globalizzazione delle esigenze, delle ragioni, degli incontri interculturali, ecc. persuada che questo tema all’ordine del giorno e che non c’era ieri, va risolto con altri strumenti che non siano la guerra.
A me sembra che la tua proposta, da questo punto di vista, implichi che ognuno di noi divenga canale di questa convinzione, lo scriva, lo dica, lo partecipi largamente, tranquillamente, e divenga anche questo un motivo della presenza della Chiesa in Italia, che si faccia carico, in maniera continuativa e non episodica, di questa risposta.
C’è poi il discorso del rapporto personale e del rapporto con la comunità ecclesiale per noi. C’è il rapporto tra la fede e la legge e l’istituzione. San Francesco ha dimostrato che è riuscito a mettere insieme le due cose, con la libertà di spirito che gli derivava dalla sua conversione interiore. Anche San Paolo nei confronti di San Pietro arrivava a consultarlo per verificare se quello che diceva e scriveva nelle sue lettere corrispondeva alla comunità dei credenti. Era una forza spirituale che derivava dalla sua conversione, la risposta a Damasco. Quindi la fede superiore alla legge, all’istituzione, alla norma. Questo discorso estremamente d’avanguardia, pericoloso, dovrebbe entrare nelle vene dei cristiani e dei non cristiani, islamici, credenti cattolici, cristiani. Qualcuno ci è arrivato, molti ci stanno arrivando.
Il rapporto fra l’istituzione e la fede è difficile, la comunità dei credenti in Italia non si è pronunciata attraverso i pastori. Fa strada faticosamente perché l’istituzione in Italia conta molto. Vediamo che il cardinale che rappresenta ufficialmente i cattolici italiani prende posizione sui temi strettamente politici verso l’immigrazione. Mi sembra che siano da condividere, però occupa uno spazio che sarebbe bene fosse occupato dai laici. Comunque è un rapporto difficile che S. Francesco ha risolto tra la fede e la norma e l’istituzione. L’altra sera un personaggio autorevole ha detto con certezza che il rapporto secondo S. Paolo con cui si pone oggi il rapporto credenti con l’istituzione ecclesiale è certamente diverso. Non si porrebbe ai tempi di S. Paolo come si pone oggi. Allora era più svincolato perché ancora non era nata l’istituzione. Lui scrive le lettere prima dei Vangeli, questo straordinario uomo che inventa un’espressione del cristianesimo perché ha avuto la fede, l’incontro misterioso e molta teologia e chiesa di oggi e anche il Concilio Vaticano II si riferiscono a San Paolo, duemila anni dopo.
Quindi fondamentale il richiamo che hai fatto questa sera, tutt’altro che semplice. C’è di mezzo una conversione che il Signore ha fatto su una certa strada del mondo. Non è facile dire quello che dici tu. Questi sono i due temi che sento io. Non ho risposte ulteriori.
Nino Patané
L’ottica nella quale mi pongo è un poco differente da quella di Romolo. Le cose che mi avevano impressionato leggendo la Frugoni e sentendo il francescano e quello che dici tu, sono tre.
La prima, che chiaramente Francesco è uno sconfitto come sono state sconfitte tutte le persone che hanno voluto parlare del Vangelo e Gesù Cristo che ha detto per primo il Vangelo. Ma è una sconfitta momentanea. Se è una sconfitta aver fondato qualcosa 800 anni fa e vederla ancora vivente, più o meno fedele ma vivente, e che il suo messaggio è ancora oggetto, come stiamo facendo qui, di riflessione e di insegnamento, non è banale. Una sconfitta, comunque, guardando ai risultati che lui si prefiggeva di risolvere.
La seconda cosa è che c’è una costante nella vita e nell’insegnamento degli uomini che hanno incontrato il Signore: hanno un comportamento tipico e particolare nei confronti degli altri, che permette loro di avere un contatto e trasmettere un messaggio al di la e al di fuori di tecniche di comunicazione o desideri di proselitismo, diciamo, di un apostolato. E’ impressionante. Ricordo quando ero giovane e studiavo una frase di Jacques Maritain: la perfezione cristiana non è il frutto di un atletismo spirituale ma un dono di Dio difficilmente misurabile, per il quale non c’è un termometro, ma che si rivela in un comportamento tipico, particolare, nei rapporti con gli altri. Mi domando se nei nostri rapporti con i fratelli musulmani, nonostante tutte le obiezioni politiche che oggi si possono fare, non sia un campo per un certo tipo di rapporti che possa essere alla lunga vincente, o perlomeno una cosa da farsi comunque perché in linea con il Vangelo. Vedrei in questo senso la conversione che tu proponi.
Mi fa l’impressione che ci sia qualcosa di profondamente laico nella maniera di vivere il Vangelo come lo ha compreso Francesco. E’ uno strano fondatore di Ordine che piglia e se ne va in Egitto, lasciando tutto in malora, lasciando fare quello che vogliono, fregandosene altamente di quello che potevano pensare. Laico nel senso che per lo meno non è connesso, nel rispetto dell’ortodossia e dell’ubbidienza, non è connesso a istituzioni, a autorizzazioni, a mandati o altre cose. Lo fa come cittadino semplice. Non è banale soprattutto nei tempi che noi corriamo, è una forma di fare il girotondo.
Paola Francesca
Una primissima cosa che ha scritto non mi ricordo chi: la purificazione dei luoghi comuni. Io ho molta paura che si identifichi troppo delle cose che in realtà non coincidono. Cioè se noi riprendiamo tutto quello che è successo dopo l’11 settembre e quello che, penso, sia la radice dell’11 settembre, non mi sento a mio agio di parlare di problema Islam e Cristianesimo. E’ molto facile dare questa tinta ed è stato fatto abbondantemente. Credo che i veri problemi che stanno dietro al terrorismo e dietro la risposta armata, dietro una situazione di guerra, siano problemi di interessi enormi, non religiosi. Non sono una politica e lascio a voi l’analisi. Che poi gli altri interessi manipolino la parte religiosa e si camuffino con questa, non c’è niente di più facile. Si fa scattare molto rapidamente questa corda che vibra, e poi, dopo, tutto è talmente mescolato che è difficile separare le parti. Per me quindi non c’è un conflitto islam-cristianesimo. Per questo, quando si parla di Eritrea, direi grazie al cielo! Almeno finora forse non ha fatto comodo a nessuno stuzzicare e separare – cristiani e musulmani vivono insieme. Ci sono regioni e territori dove c’è già tutto un passato estremamente doloroso e allora questo dialogo si vive con dolore anche oggi.
Un’altra cosa che mi ha colpito era ricordare Francesco con il suo desiderio di martirio per mano di un musulmano. Vorrei ricordare la figura di Frère Christian dei sette monaci di Tiberin e del testamento spirituale in cui è coscientissimo che rischia di morire ma non si augura che sia per mano di un musulmano perché tale è l’amore, questo dialogo. Pensavo poi a un testo che ho letto di un giornalista musulmano in Egitto che commentava la morte di Charles de Foucauld, mettendo in chiaro che non è si può parlare di martirio perché significherebbe falsare tutta la sua vita. Non so più fin dove può andare quest’amore, fino alla vita donata. Può esserci un’amicizia talmente forte che può portare a questo, e l’amicizia così esiste nei due sensi. Questo giornalista musulmano che rifiuta di vedere la morte di Charles de Foucauld come un martirio manifesta un desiderio di dialogo e di amicizia che va molto lontano.
Elisabetta Simeoni
Sono d’accordo con Paola Francesca sull’analisi. Bisogna chiedersi che cosa è la guerra e che cosa è la pace, che cosa intendiamo. La prima cosa che mi era venuta in mente dopo l’11 settembre era il desiderio di pace. In realtà però si sa che la pace è la situazione di non guerra. Mi chiedo che cosa è la pace e non riesco a darmi una risposta. La guerra, d’altra parte, è sempre legata a problemi di potere, a tutti i livelli, piccole guerre, grandi guerre, sicuramente quello che ci coinvolge oggi è soltanto un grandissimo problema di potere, che si annida anche nelle religioni, così come si presentano storicamente.
Un altro elemento a un certo momento mi è balzato agli occhi come fondamentale: la giustizia. Credo sia il grande problema di fondo: non c’è giustizia. Su questo credo che tutti possono essere d’accordo. Il richiamarsi alla pace può essere non giusto. Quale pace intendiamo? Se come rifiuto della guerra, d’accordo, perché la guerra è una questione di potere. Se la pace è un desiderio di stare tranquilli, non sono più d’accordo, nel senso che il vero problema è la giustizia e quindi non possiamo stare in pace. Il richiamo continuo alla pace che si sente fare, ormai sono luoghi comuni. Non bisogna più parlare di questi concetti in maniera così generale senza definire bene di che cosa stiamo parlando. Anche il richiamo da parte del Papa non mi convince. Perché fa richiamo continuamente alla pace? Quale pace? Anche la Chiesa cattolica si dovrebbe porre dei problemi rispetto alla guerra e alla pace intesi in senso storico. E’ coinvolta in questa vicenda e nel problema della giustizia che è fondamentale e che è la realtà che ci fa riflettere sulla pace in maniera diversa. Ridefiniamo il termine pace.
Liborio Oddo
Io non penso che il problema sia il rapporto fra l’islam e il cristianesimo. Sono d’accordo con quello che diceva la sorella. Neanche Islam e Occidente. Il problema è con la modernità. I paesi islamici – e il termine Islam non significa affatto religione ma va usato come se usassimo il termine "civiltà" - hanno anche loro questa posizione, non si identificano, cioè, con la religione, anche se questa è una componente della civiltà. Il termine islam identifica una civiltà in cui la religione ha una parte centrale. Tutti i nostri discorsi sull’accoglienza, l’aprirsi, sgomberare l’animo dai pregiudizi sono validi ma secondo me c’è ancora tanto lavoro da fare in questo campo, superando anche l’ignoranza.
Io propongo, da due o tre anni anche a casa, ma non ho tempo e ci vogliono strutture, che qualcuno, e più di uno, incominci a imparare l’arabo. Sappiamo poco di come i musulmani in terra islamica, nei paesi arabi, pensano, di che autocoscienza hanno, di come hanno elaborato la loro storia, come la raccontano, quali sono state le loro crisi che hanno avuto, per esempio, a partire dal 1683 dopo Vienna; a partire cioè dalla data in cui il mondo islamico entra in una profonda crisi e incomincia a riflettere sul perché da quella batosta in poi, una disfatta enorme, hanno sempre perduto. Cominciarono a dire che la colpa era della inferiorità militare, cominciano a formare eserciti di tipo occidentale, incaricano un fratello di Haydn di comporre delle marce turche, allestiscono eserciti con le divise e gli armamenti. Ma le cose vanno male fino alla caduta dell’impero ottomano. Elaborano anche spiegazioni sul fallimento della loro economia che però non reggono, poi cercano di scrivere, come gli occidentali, carte costituzionali, nascono, ma per poco tempo, le democrazie e nazionalismi.
Le crociate per gli storici arabi sono un episodio quasi irrilevante, non sono una ossessione. Il fatto di considerare le crociate un grave attacco all’islam, una guerra di religione che avrebbe provocato incomprensioni attraverso i secoli, non corrisponde alla loro ottica. L’occidente non ha conosciuto l’islam solo adesso, con la modernità. Le prime cattedre di lingua araba sono nate in occidente. Già nel tredicesimo secolo. Non è affatto vero che l’Occidente si è chiuso all’islam. C’erano in tante università europee cattedre di lingua araba e molte opere arabe venivano tradotte. A livello culturale c’è da fare una grande opera di conoscenza diretta. Vorrei chiedere alla professoressa Frugoni e anche a Franco Cardini il quale scrive sempre cose che non condivido tanto, ma lei conosce l’arabo? Se fai lo storico, come fai? Citi ricerche fatte da altri, francesi, tedeschi, ecc. Forse quelli che insegnano storia nelle nostre università non conoscono tutta la produzione scientifica e non scientifica che c’è stata attraverso i secoli, non soltanto religiosa, di cultura islamica: letteratura, poesia, storia. C’è una grande non conoscenza..
Io propongo di vedere se c’è qualcuno , qualche arabo che è qui a Roma e che è capace di insegnare la lingua, che venga a dare questo insegnamento nel nostro appartamento comune. Io sono disposto a seguire un corso di lingua araba; si può amare anche a 50, 70, 80 anni per intraprendere lo studio per conoscere queste persone. Io sono disposto, a 56 anni, a dedicarmi per due o tre anni allo studio della lingua araba per conoscere meglio queste persone, per poter leggere meglio, per esempio, il giornale che si stampa a Tunisi. Ieri ho scoperto, attraverso la conferenza di un noto studioso del Medio Oriente, che gli arabi non hanno una sola parola per indicare una nazione; noi indichiamo questa realtà o con nomi inventati da noi romani, oppure hanno nomi che usano però in senso geografico e non come noi diciamo Italia, Francia, Polonia, etc. Questo porta a riflettere su tante cose. Noi conosciamo pochissimo di questi paesi Lo stesso terrorismo ha a che fare con la religione islamica? Potremmo dire – non è farina del mio sacco – che è come il razzismo rispetto all’occidente, che è nato in ambiente cristiano: fenomeni che non vanno identificati con la religione ma nascono per altri motivi. Nascono dove c’è grande ricchezza di petrolio, intorno all’Arabia, non nascono principalmente, all’inizio, in Algeria, in Tunisia, neanche in Iran.
Per me sento l’esigenza di offrire un pò del mio tempo per conoscere meglio queste persone. Se avessimo tante persone che conoscono l’arabo, tante cretinate su La Repubblica, il Corriere della Sera sulla TV, non ci sarebbero, perché degli studiosi interverrebbero con acquisizioni di causa. Invece fior di professori parlano e straparlano su molte cose, solo per sentito dire.
Pio Parisi
Credo che di gente che vive la conversione cristiana. Ce n’è tanta, in solidarietà anche fra cristiani e musulmani, e in genere con chi è diverso sul piano culturale e religioso. Quindi penso che dovremmo aiutare a scoprire la buona novella che quello che stanno facendo è quello che Gesù Cristo è venuto a portare sulla terra.
I temi della conversione e quelli più semplici del Vangelo, l’amore, la carità, il discorso della montagna, penso che tante persone li vivono. Anche tra i giovani mi colpisce il non ostentare le proprie opere buone. E’ molto meglio di 50 anni fa, anche se bisogna riconoscere che c’è una radicale ignoranza di cui ci si può domandare da che e da chi dipende. Forse non sanno certe cose perché non gliele abbiamo dette e ne abbiamo dette delle altre che a un certo punto non hanno più interessato.
Paola Francesca
Quando c’è un atteggiamento di riconoscere la propria ignoranza e c’è il desiderio di voler ascoltare l’altro come altro, si sente; questa è la conversione, cambiare direzione e voler cercare di ascoltare l’altro come lui si definisce e come cerca di spiegare. Ascoltandovi, mi veniva voglia di dirvi: perché una volta non invitate un musulmano? Vi posso far conoscere delle persone. Ci sono musulmani che soffrono molto della situazione attuale, può essere un modo di ascoltare una sofferenza.
Luigi Colzani
Una riflessione che mi è venuta sul piano in cui mettere il rapporto fra noi e l’Islam. Mi ha colpito in particolare la cosa iniziale che ho trovato nello scritto di Pio: "Il dialogo dei piccoli dopo l’11 settembre". Il piano della comprensione nella fede è un ancoraggio profondo a come si vive, si muore, da parte dei piccoli che credono in Dio, chiamato con nomi diversi. Questa cosa mi ha colpito molto. Questa sera, al di là del testamento del Padre Trappista, che è un documento straordinario, ricordo che nella Lettera a una professoressa Don Milani dice che mandava i suoi ragazzi, oltre che a Londra, anche al Cairo presso contadini arabi il cui nome, se non sbaglio, è feddain e mi sembra che dicesse che non sono poi tanto diversi dai contadini toscani. A quel livello, è più facile questa comunanza nella fede, vissuta anche se non teologicamente detta. Trovo in questo - mi ha colpito e lo leggo anche con quell’atteggiamento straordinario di Francesco – il primo modo di stare quando vanno tra i saraceni: stare sottomessi a ogni creatura, senza liti e senza contese, nella maniera più ordinaria possibile A proposito di conversione, quello che più mi ha colpito è che anche assumere un punto di vista di questo genere è tutt’altro che scontato: guardare le cose dall’interno e da questa comunanza è tutt’altro che scontato. E’ già in sé costruire un altro punto di vista ed è il primo passo della conversione.
Anche io, come quello che ci ha scritto (Solinas) ho bisogno di non correre alla operatività, al che cosa fare, perché sono tante le cose che si fanno e sono tanti gli angoli da cui si guardano. Ascoltare qualche musulmano, imparare eventualmente l’arabo, incontrarsi nel lavoro e favorire la comprensione in diversi contatti, o le iniziative nei Balcani e vicinanze. Se si cerca un altro punto di vista, si possono leggere anche da questo che è stato indicato questa sera.
Pietro Bognetti
Devo dire sostanzialmente tre cose, un pò slegate fra di loro. Non credo che San Francesco fosse un perdente. E’ stato un santo di grandissimo successo anche in vita. La cosa può far piacere o meno, ma il rapporto che abbiamo con San Francesco ci deriva proprio da una particolarità che lo rende un uomo di grande successo, mondano addirittura. Il che non significa che lui fosse sempre contento di questo, che è un altro discorso. Il motivo per cui si è cercato poi di manipolare la sua figura era proprio il grandissimo successo che aveva avuto. Questo successo ha avuto nella storia alti e bassi, ma ha avuto un significato totale nella storia della Chiesa. Ci sono stati altri santi, altre forme di cristianesimo anche valide: il gesuitismo non è il francescanesimo.
Secondo punto, a proposito dell’amore. Quando affrontiamo questi problemi, l’amore si deve esprimere a contatto con una serie di problemi umani, politici,...e uno di questi problemi è la giustizia. In questo periodo abbiamo grandi ingiustizie; situazioni in cui l’ingiustizia è trionfante, ed ho l’impressione che ci sia un silenzio notevole da parte degli uomini, cristiani, musulmani, etc., i quali non dicono, non rendono giustizia con la parola, manca la condanna dell’azione turpe, una voce forte. La stessa voce del Papa, mi riferisco all’intervento di Elisabetta, è troppo generica. Parlare di pace non è sufficiente, occorre condannare le azioni che sono gravemente lesive dei princìpi fondamentali della dignità umana.
Terzo punto: iniziative a cui bisognerebbe cominciare a pensare. Penso soprattutto a Gandhi che aveva una capacità di suscitare determinate situazioni molto complesse che avevano il compito di far emergere l’intelligenza del cuore, nascosta in quei dati poveri e a cui lui era capace di dare forma politica, con l’affermazione forte e chiara di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. In parte si può accostare a Gandhi anche La Pira che andava dai potenti con il Vangelo.
Pio Parisi
Come continuare questa riflessione e tradurla in qualche modo in intervento? Mi sembra che le comunicazioni di questa sera siano così valide che non vanno disperse. Romolo suggerisce che il verbale di quello che abbiamo detto questa sera sia dato agli amici che non sono potuti venire (Fantozzi, Passuello, Tufari) in modo che ci lavorino sopra. La proposta è molto condivisa.
Non lascerei il programma fatto, che prevede tre incontri su Charles de Foucauld. Siamo partiti dal problema dei rapporti fra cristiani e musulmani, e anche se ci accorgiamo che non è questo il problema di fondo, non lasciamo il cammino intrapreso, mi pare con notevole frutto.
Come intervento possiamo ancora provare a comunicare qualcosa alla Cei, senza farsi illusioni, ma forse è meglio dire qualcosa sulle piazze. Franco Passuello mi diceva che la campagna elettorale era stata una esperienza molto bella di dialogo con la gente, con i piccoli, anche se poi non lo hanno eletto.
Senza lasciare l’appuntamento mensile, potremmo pensare a un proseguimento dell’incontro di oggi, qui o altrove.