Incontri di discernimento e solidarietà
 
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10 aprile 2002

Charles de Foucauld e l’Islam

Piccola Sorella Annunziata


Il 14 settembre 1921 veniva pubblicata la prima biografia di Charles de Foucauld scritta da un famoso scrittore cattolico, accademico di Francia ormai settantenne, René Bazin. Questa biografia, intitolata Charles de Foucauld explorateur du Maroc, ermite au Sahara (B), che ebbe un successo clamoroso e fu occasione di numerose vocazioni, tra le quali quella di René Voillaume e di Magdeleine Hutin, futuri fondatori dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle, divenne anche la fonte di tutte le successive biografie di Foucauld.

A proposito della sua uccisione, avvenuta la sera del 1° dicembre 1916, nel cuore del Sahara, Bazin suppone che fratel Charles, già legato, prima di venire ucciso, sia stato obbligato a pronunciare la Shahada, ossia la professione di fede musulmana. La Shahada – il cui contenuto si può tradurre così: «Non c’è dio se nonDio. Maometto è il suo inviato», oppure: «Non c’è dio che solo il Dio. Muhammad èil messaggero di Dio» -, rappresenta la professione dì fede nel monoteismo assoluto e antiidolatrico dell’Islam ed è il primo pilastro o il pilastro centrale della fede islamica: l’atto di pronunciarla, alla presenza di testimoni, indica l’entrata di qualcuno nella comunità musulmana (è quella che i genitori sussurrano nelle orecchie del bimbo appena nato per fare di lui un islamico).

Il rifiuto di pronunciarla e quindi la sua uccisione avrebbero fatto di fratel Charles un martire della fede. Recentemente, grazie all’esame critico di tutti i documenti esistenti, un piccolo fratello studioso di fr. Charles, ci ha permesso di constatare che non c’è nessuna prova di "martirio" in questo senso e che l’intenzione degli assalitori era se mai quella di prendere fratel Charles come ostaggio. Fu una morte per così dire accidentale, provocata dal panico del ragazzo che teneva a bada il fratello col fucile, al momento dell’arrivo inatteso di due militari arabi.

Certo, quest’episodio rientrava nella vasta insurrezione sahariana del 1916-17 che approfittava del contesto della prima guerra mondiale, ma assumendo i connotati di guerra etnico-religiosa, di vera "guerra santa" o "jihad" contro gli infedeli, Italiani o Francesi che fossero. Era stata proclamata da una confraternita libica, la Senussia, il cui più alto responsabile era all’epoca il futuro re Idris di Libia. Non c’è però nessuna prova che l’attacco del I° dicembre 1916 al fortino di Tamanrasset fosse avvenuto per suo ordine, anche se qualche patriota francese in seguito ha voluto supporlo.

In fondo non importa se Charles de Foucauld non sia formalmente "martire" della fede o della patria. A noi interessa la sua vita e il suo messaggio, in particolare in relazione all’Islam, o meglio ai credenti musulmani con cui venne a contatto, a cominciare dal suo viaggio d’esplorazione in Marocco, quando era un giovane di 25 anni (era nato il 15 settembre 1858 a Strasburgo), ufficiale di cavalleria in congedo. Quest’esplorazione divenne determinante per la sua conversione, avvenuta dopo un travaglio di due anni, un mattino della fine di ottobre 1886, nella chiesa di Sant’Agostino, quando a Parigi stava finendo di redigere il rapporto sul viaggio per la Società Francese di Geografia.

Il Marocco

Adolescente ricco, pigro, viziato, obeso, Charles entra a diciotto anni all’accademia militare per ripiego più che per scelta, perché più facile, sembra, di altri studi. Ma si annoia e i risultati sono pessimi. A vent’anni viene promosso sottotenente 333° su 386. L’anno successivo viene promosso nella Scuola di Cavalleria 87° su 87. In realtà la sua carriera durerà in tutto diciassette mesi, interrotta per di più da frequenti arresti e da un invio in congedo temporaneo "per indisciplina e cattiva condotta morale". L’unico periodo positivo è la breve campagna antirepressiva nel Sahara sudoranese, dove, per la prima volta, dà dimostrazione di coraggio e forza morale. Ma, terminata la campagna, non se la sente di continuare la "stupida" vita di caserma. Vuole viaggiare, scoprire, imparare cose nuove, sfidare se stesso in avventure rischiose. Non gli concedono di partire in missione e si congeda definitivamente per prepararsi, per conto suo e a proprie spese, a un viaggio d’esplorazione in Marocco, paese allora chiuso e praticamente ignoto.

Lontano dalla fede fin dall’adolescenza, partendo Per il Marocco a tutto pensa meno che a Dio, ma Dio l’aspetta al varco, e grazie all’incontro con i musulmani.

Parte dunque a titolo privato e a suo rischio e pericolo, il 17 giugno 1883, non senza aver redatto il suo primo testamento (CFI, 45. Ne farà altri nel corso della sua vita). Dal 20 giugno 1883 al 23 maggio 1884, esplora clandestinamente il Marocco, compiendo una ricognizione di grande valore scientifico, che gli darà onori e riconoscimenti ufficiali. Essendo il paese chiuso ai cristiani, sarebbe stato impossibile penetrarvi senza nascondere la propria identità. Vi potevano risiedere i consoli e gli ambasciatori, ma solo nelle città costiere e sempre sottomessi allo spionaggio. Bisognava per forza travestirsi o da musulmano o da ebreo, secondo i costumi allora ben riconoscibili. Visto l’accento, scelse di presentarsi come rabbino ebreo dell’Est scampato a uno dei tanti pogrom dell’epoca, ma si fece accompagnare e proteggere da un vero rabbino marocchino, Mardochée Abi Serur, guida di lunga esperienza a servizio di geografi e consoli francesi.

I viandanti, chiunque fossero, erano sempre ospitati, prima di tutto dagli ebrei se ebrei e, nelle zone dove non esistevano comunità ebraiche, dalle cosiddette "zaouia" Zaouia potrebbe corrispondere a confraternita o fraternità, e indica sia le abitazioni che gli abitanti, di solito famiglie di marabut, ossia di persone particolarmente devote, religiose. Nelle zaouia, di solito ricche di biblioteche, si praticava lo studio coranico, l’ospitalità degli studenti, dei pellegrini, dei viaggiatori, esattamente come avveniva nel nostro Medio Evo nei luoghi ospitali (cf. ospedale!) lungo le vie di pellegrinaggio verso Roma o Santiago di Compostella, dando cioè anche diritto d’asilo.

Charles ricorda anzitutto la zaouia di Bou-el-Djad, nell’Atlante, dove, senza saperlo subito fin dal primo giorno venne riconosciuto come cristiano, ma grazie all’ospitalità sacra - perché per il musulmano l’ospitalità è un atto religioso e l’ospite, fosse pure un nemico è sempre benedetto - e grazie alla fedeltà alla parola data - un altro degli aspetti dell’etica islamica - gli venne risparmiata la vita e fu trattato con gentilezza e generosità. Il nipote del capofamiglia Sidi Edris Cherkaoui, un giovane della sua età, divenne per lui un vero amico, gli facilitò il viaggio, lo accompagnò per una settimana nei dintorni, dandogli anche lettere di raccomandazione e una quantità d’informazioni utili (cf. LHC, 14.01.1905, 162-164).

In seguito, quando si trova nell’immensità del Sahara, Charles incontra delle zaouia particolarmente accoglienti nell’oasi di Tisint, una delle più grandi del Sahara marocchino, là dove «su un suolo propizio sono fioriti conventi e religiosi» (RAM, 122).E’ in quest’oasi, dove i sedentari parlano una lingua berbera simile a quella della Kabilia, rimane profondamente ammirato, non solo del paesaggio lussureggiante, ma di questa gente, del loro stile di vita, della loro mitezza, dell’accoglienza, del loro atteggiamento di preghiera e d’adorazione. A Tisint, resta circa tre mesi e vi diventa amico di Hadj Bou Rehim, che, ancora una volta, gli salverà la vita.

Il Marocco d’allora era un paese «dove il brigantaggio, l’attacco a mano armata sono considerati come azioni onorevoli». Ma la gente gli mostra anche la sua «più bella qualità», quella appunto della «devozione ai loro amici». E «la spingono - scrive - all’estremo limite. Questo nobile sentimento fa fare ogni giorno le più belle azioni. In blad el siba (il Sud in preda all’anarchia) non un uomo che non abbia tante volte rischiato la vita per dei compagni, degli ospiti di qualche ora» (RAM, 136).

Lungo la strada di ritorno verso l’Algeria, Charles e Mardoccheo furono attaccati da due delle tre persone della scorta. Il terzo, Bel Qassem fu però "irremovibile e dichiarò che non avrebbero avuto la mia vita senza la sua" (RAM, 245). "Strana situazione - osserva - di sentire per un giorno e mezzo trattare sulla propria vita o la propria morte da parte di così pochi uomini e non poter far niente in propria difesa".

Per questo proverà per i suoi ospiti e salvatori una grande riconoscenza. Il termine francese "reconnaissance", riconoscenza, include anche il significato di "ricognizione", quindi il libro sull’esplorazione si intitolerà "Reconnaissance au Maroc". Nell’introduzione, che scrive nel 1887, un anno dopo aver ritrovato la fede, a un certo punto, riguardo ad alcune delle persone che gli hanno salvato la vita, scrive: «Hadj Bou Rehim, Bel Qasem et Hamouzi, che mi avete, a rischio dei vostri giorni, protetto nel pericolo, voi a cui devo la vita, voi il cui ricordo lontano mi riempie d’emozione e di tristezza, dove siete a quest’ora’? Vivete ancora? Vi vedrò mai? Come esprimervi la mia riconoscenza e il mio dispiacere di non potervela provare?» (RAM, V). A questa lista di nomi pubblicati nel libro, bisogna aggiungere quelli citati prima, di Sidi Edris e del nipote, che non ha voluto nominare pubblicamente, per non comprometterli di fronte al sultano.

Questa riconoscenza durerà tutta la vita e l’esperienza dei Marocco gli resterà impressa per sempre, come modello di povertà, d’abbassamento, di nascondimento, di preghiera e d’ospitalità. E per tutta la vita, direttamente o indirettamente, si terrà in contatto col Marocco.

La conversione al Dio ‘grande"...

Charles ha incontrato l’Islam in Marocco. Ha fatto conoscenza di persone e comunità per le quali «Dio è più grande», conta più di tutto, per le quali Egli è l’Unico degno di adorazione e obbedienza assoluta. Ne rimane profondamente sedotto e sconvolto. Sono proprio questi termini, séduction e bouleversement, che usa per esprimere ciò che hanno prodotto in lui i credenti dell’Islam, quando confessa il suo passato, quindici anni più tardi, a uno dei suoi amici, Henry de Castries, e a lui solo. Gli scrive dalla Trappa di Notre-Dame-des Neiges, subito dopo l’ordinazione presbiterale del 9 giugno 1901, intendendo chiedere consiglio sui luogo del Sahara dove stabilire la sua fraternità, purché fosse alla frontiera del Marocco del Sud e di lì potesse entrare in relazione con i Marocchini, in attesa di penetrarvi. Nella fraternità, precisa all’amico, avrebbe offerto ospitalità ai viaggiatori, alle carovane, e anche ai soldati (cf. LHC, 23.06.1901, 85), proprio come avevano fatto per lui in Marocco.

De Castries, che era stato l’ufficiale responsabile dell’Ufficio Arabo in Algeria, proprio alla frontiera del Marocco, era stato sconvolto prima di Charles dalla fede islamica ed era arrivato quasi al punto di farsi musulmano. Manda subito a Charles un libro che aveva scritto, «L’Islam. Impressions et études». E Charles l’apprezza, perché documentato e oggettivo, libero dalle «favole» che si raccontavano sull’Islam (LHC, 93.). «Come stupirsi - precisa - che i Musulmani si facciano idee false della nostra religione, quando quasi tutti fra noi ne hanno di fantastiche sulle loro credenze? ...» (ivi). Così con quest’amico più anziano, e solo con lui, fratel Charles parla liberamente: si possono comprendere, senza scandalizzarsi. S’intreccia una corrispondenza interessantissima (di cui possediamo solo le risposte di fr. Charles: di solito, per discrezione, bruciava le lettere ricevute, salvo poche eccezioni), pubblicate in Francia nel 1938 e poi sempre citate per brani.

Fin dalla seconda lettera, dell’8 luglio 1901, Charles scrive esplicitamente: «Sì, ha ragione, l’Islam ha prodotto in me un profondo sconvolgimento... la vista di questa fede, di queste anime che vivono nella continua presenza di Dio, m’ha fatto intravedere qualcosa di più grande e di più vero delle occupazioni mondane: "ad majora nati sumus"... Mi sono messo a studiare l’Islam poi la Bibbia, e mentre la grazia di Dio agiva, la fede della mia infanzia si è trovata confermata e rinnovata ... » (LHC, 86). Ed è nella quarta lettera, del 14 agosto 1901, la più lunga e citata, che, per incoraggiare l’amico tuttora in crisi, «per dargli la sola cosa che ha», ossia la sua «anima» (LHC, 101), gli racconta come debba proprio all’Islam il risveglio della fede «morta» durante dodici anni, e di come rosse attirato dalla «semplicità del dogma» del monoteismo musulmano e perciò anche dalla «semplicità» della sua gerarchia e della sua morale (LHC, 94).

Gli confessa la solitudine e l’inquietudine del periodo successivo all’esplorazione, mentre ne stava redigendo a Parigi il resoconto. Si fermava nelle chiese «senza credere», passandovi «lunghe ore a ripetere questa strana preghiera: Mio Dio, se esisti, fa’ che ti conosca!" ... » (LHC, 95-96). E come si era cercato un maestro, un thaleb, per imparare meglio l’arabo letterario del Corano, gli era venuta l’idea di cercare anche un prete istruito che lo informasse sulla «religione cattolica». Si era rivolto, un mattino della fine d’ottobre 1886 (aveva 28 anni) a un prete molto colto e sapiente, l’abbé Huvelin, amico di famiglia, della parrocchia di Sant’Agostino a Parigi, quasi con l’intenzione di cogliere, da una prospettiva "neutrale", dove «si trovasse quella verità di cui disperava» (ivi, 96).

Ma questo prete, come sappiamo da un’altra fonte (ritiro di Nazareth del 1897), al corrente della sua ricerca, non gli dà spiegazioni: lo invita, seduta stante, ad inginocchiarsi, confessarsi e comunicarsi! E Charles si inginocchia! E’ l’ora della fede e dell’obbedienza di fede.

Nella lunga lettera-confessione del 14 agosto 1901 a de Castries ricorda: «Appena ho creduto che un Dio esiste, ho capito che non potevo far altro che vivere per Lui solo: la mia vocazione religiosa risale alla stessa ora della mia fede: Dio è così grande! C’è una tale differenza tra Dio e tutto quello che non è Lui!..» (LHC, 96-97).

Scriveva all’inizio della stessa lettera: «Allah akbar’ Dio è più grande, più grande di tutte le cose che possiamo enumerare, solo Lui, dopo tutto, merita i nostri pensieri e le nostre parole; e se parliamo, se lei fa la fatica di leggermi, e se rompo per scriverle il silenzio del chiostro, è per aiutarci reciprocamente a conoscerlo meglio e a servirlo meglio: tutto quello che non ci conduce a questo, conoscere meglio e servire meglio Dio, è tempo perduto ... » (LHC, 94).

Il linguaggio è islamico. Allah akbar è il richiamo alla preghiera del muezzin, cinque volte al giorno: «Dio è più grande! Non c’è altro dio che Dio solo!». E’ l’atto di fede del monoteismo e Charles, giustamente, anche da cristiano, non lo sconfessa. Del resto il suo atto di inginocchiarsi davanti all’abbé Huvelin, assomiglia all’atto e all’atteggiamento di obbedienza assoluta, di «sottomissione» tipica dell’Islam. E Islam, si ricordi, vuol dire sottomissione!

In un’altra lettera, del 15 luglio 1901, sempre per confermare l’amico in crisi, Charles sottolinea il valore dell’adorazione, «la più completa espressione del perfetto amore» e «l’atto per eccellenza dell’uomo», anzi «non solo il suo atto per eccellenza, ma il suo atto abituale, e anche il suo atto continuo». Questo sentimento di «ammirazione, contemplazione, adorazione, rispetto, amore senza fine», spiega (ivi, 89), appartiene anche all’Islam, il quale, in mezzo ad un insieme d’errori, contiene delle verità e può «produrre dei grandi e veri beni» (Ivi, 90). Ma aggiunge: «Noi abbiamo per divino modello Nostro Signore GESU’ (sempre maiuscolo), povero, casto, che non resiste al male e soffre tutto in pace, perdonando e benedicendo. L’Islam prende per esempio Maometto, che si arricchisce, non disprezza i piaceri dei sensi, fa la guerra». Poi, senza castità e povertà «l’amore e !’adorazione restano sempre molto imperfetti; perché quando si ama appassionatamente - spiega - ci si separa da tutto quello che può distrarre fosse anche per un minuto dall’essere amato, e ci si getta e ci si perde totalmente in lui ... » (ivi, 15 luglio 1901, 90-91).

Ammette però di non essere arrivato d’un tratto a questa consapevolezza, tanto meno ad accogliere tutto ciò che implica l’adesione alla fede cristiana. Continua infatti la confessione:

«Agli inizi la fede ebbe molti ostacoli da vincere; io che avevo tanto dubitato, non credetti tutto in un giorno; ora i miracoli del Vangelo mi parevano incredibili; ora volevo mescolare passaggi del Corano nelle mie preghiere. Ma la grazia divina e i consigli del mio confessore dissiparono queste nubi... Desideravo essere religioso, non vivere che per Dio, e fare quello che è più perfetto, qualunque cosa fosse... Il mio confessore mi fece aspettare tre anni ... » (LHC, 14 agosto 1901, 97).

... e al Dio "piccolo"

Si potrebbe dire che, mentre Charles nel profondo dello spirito ha acconsentito una volta per tutte alla grazia e si è lasciato sconvolgere da Dio (e dirà sempre «Dio mi ha convertito», non «mi sono convertito»), non si è lasciato altrettanto immediatamente sconvolgere da Gesù di Nazaret, Signore e Salvatore, Cristo e Figlio di Dio. Deve passare per un’altra esperienza folgorante.

Don Huvelin gli consiglia infatti un pellegrinaggio in Palestina e Charles, pur riluttante, parte. Ed è proprio questo pellegrinaggio, dal novembre 1888 alla fine di gennaio 1889 (ha trent’anni), che gli rivela in modo luminoso, e una volta per tutte, il Dio di Gesù di Nazaret. Gli ritorna in mente una frase di don Huvelin: «Gesù, a Nazaret, ha preso talmente l’ultimo posto, che nessuno ha potuto toglierglielo». Ha subito il fascino dell’Islam, il fascino di una fede che è sottomissione-abbandono al «Dio più grande», AllahAkbar, adorato in ogni momento e aspetto della vita, invocato come l’Altissimo, il Supremo, !’Unico, il Clemente, il Misericordioso, il Signore dei Mondi, il Sussistente, l’immenso... e via via con la litania dei 99 nomi di Dio. Si è lasciato afferrare dal Dio assolutamente Altro, ineffabile, inafferrabile, inimmaginabile, l’Unico degno di adorazione e obbedienza. Ma d’un tratto, a Betlemme, a Gerusalemme, a Nazaret, con stupore e riconoscenza, avverte il mistero inaudito, vertiginoso, dì questo Dio che si rivela «più grande» nel farsi «più piccolo», il Dio che cede la sua gloria, che si spoglia di ogni grandezza e potenza per metterla a servizio delle creature umane e prendersene cura con amore appassionato, assumendo in tutto la realtà del mondo che ama. Come Saulo-Paolo di Tarso, l’ebreo intransigente, il fariseo irreprensibile (cf. Fil 3, 4-6) viene «afferrato da Gesù Cristo» (Fil 3, 12). Anche Agostino di Tagaste, prima scettico e poi Manicheo, aveva rifiutato l’incarnazione ed era diventato cristiano solo quando aveva accettato di comprendere «umile, il Signore Gesù umile», quando aveva accolto il Dio che condivide la debolezza della carne e si abbassa per amore, per elevarci a Lui (Confessioni, libro VII, cap. XVIII). Ora è Foucauld che scopre il Dio che sceglie la debolezza e la stoltezza, «scandalo per i giudei» e «follia per le genti», il Dio «umile», il Dio che nasce a Betlemme, il «Dio operaio a Nazaret», il Dio che muore sulla croce.

Quello che a noi appare scontato, per lui, tentato dall’Islam, è spada a doppio taglio che gli penetra fino alle giunture e alle midolla e gli cambia, una volta per tutte, il cuore. S’innamora definitivamente, «perde il cuore» per Gesù: «Ho perduto il cuore per questo GESU’ di Nazaret crocifisso 1900 anni fa e passo la vita a cercare d’imitarlo quanto può la mia debolezza», scriverà a Gabriel Tourdes, l’amico d’infanzia e d’adolescenza, il compagno di Liceo a Nancy (LAL, Beni Abbès 1902, 94).

Più volte Charles medita su questo mistero della kenosi, dell’abbassamento, o di quello che lui chiama la discesa di Dio (e£ Fil 2, 7; Rom 6, 4-11 - Col 2, 12; ecc.) e leggendo Luca 2, 50-51 «Scese con loro e venne a Nazaret... » si sofferma insistentemente su questo scese. Vi trova la sintesi stessa della vita di Gesù - e di conseguenza della sua -, come scriverà gli ultimi mesi di vita a Tamanrasset: «... tutta la vita, non ha fatto che scendere : scendere incarnandosi, scendere facendosi bimbo piccolo, scendere obbedendo, scendere facendosi povero, abbandonato, esiliato, perseguitato, suppliziato, mettendosi sempre all’ultimo posto ... » (VN, 208). «Chi potrà scendere altrettanto...», scrive ancora (CE, su Lc 1, 38, p. 16). «La mia vocazione è scendere», scrive al padre trappista Jéróme nel febbraio 1897, per spiegargli la partenza definitiva dalla Trappa.

Nella lettera già citata a de Castries, subito dopo il racconto della conversione, Charles scriveva: «Il Vangelo mi mostrò che "il primo comandamento è di amare Dio con tutto il cuore" e che bisognava racchiudere tutto nell’amore ... » (LUC, 97). Sì, perché «Dio è amore» e Gesù è Amore, è l’Amore più grande. E quest’amore, afferma Charles, esige imitazione ed esige di «tutto racchiudere nell’amore».

Diversi anni dopo, sentendo l’amico di nuovo turbato, gli scriverà: «Mi permetto di ricordarle le tre domande le cui risposte sono fatte in modo tale da mettere l’animo in possesso pacificato della verità: Gesù è esistito? Gesù si è detto inviato divino? Gesù era impostore o folle?» (LHC, 29.05.1909, 184).

Il punto cruciale è proprio Gesù, «quel Gesù di Nazareth», per il quale ha «perduto il cuore». t qui che si gioca la sua e la nostra fede di cristiani. Il Corano riconosce Gesù come operatore di miracoli, lo esalta come il Messia atteso e come uno dei più grandi profeti. Lo chiama ‘Abdu’llah (Servo di Dio), dice che è vicino a Dio e che ritornerà alla fine dei tempi per donare alla terra la giustizia. Ma dice anche che non morì in croce, perché fu assunto direttamente in cielo prima della crocifissione. In ogni caso non è Figlio di Dio, perché l’assolutamente Trascendente non può generare! In ogni caso credere in Gesù non è solo dirlo, proclamare il credo cristiano: è testimoniarlo, è «gridare il Vangelo con la vita». dirà fr. Charles.

«Prete Libero per l’Islam

Il cammino che conduceva nel 1901 fr. Charles tra la gente del deserto, era passato non solo dall’esperienza militare in Algeria e dall’esplorazione in Marocco, ma dai sette anni vissuti in una povera Trappa in fondazione nelle montagne armene e kurde della Siria, allora impero ottomano, dove, tra l’altro, era stato testimone di uno dei primi massacri degli Armeni cristiani (140.000 in pochi mesi, scrive in alcune lettere di fuoco nel 1896). E bisogna includervi anche i tre anni in Palestina, anch’essa parte dell’impero ottomano e abitata da una maggioranza di musulmani, arabi e turchi. Queste esperienze l’avevano insomma preparato, l’avevano «reso resistente per questa missione», come scriveva l’abbé Huvelin presentandolo a mons. Livinhac, superiore generale dei Padri Bianchi il 1° settembre 1901 (cf B, 167).

Una volta ordinato nella diocesi di Viviers il 9 giugno 1901, grazie alle raccomandazioni dei Trappisti di Notre-Dame-des Neiges, fr. Charles è pronto dunque a partire come «prete libero» per il Sahara. Il 17 luglio 1901, scrive all’amico p. Jérome, trappista in Algeria, lo spirito che lo anima in questo nuovo incontro con l’Islam (CCDP, 239-240), che è essenzialmente uno spirito di «visitazione», la «visitazione di Gesù» nascosto nel seno di Maria:

«... Non mi è possibile praticare il precetto della carità fraterna senza consacrare la mia vita a .fare tutto il bene possibile a questi fratelli di Gesù ai quali manca tutto perché manca loro Gesù. Si fossi al posto di questi infelici musulmani, che non conoscono GESU, né il suo SACRO CUORE, nè MARIA nostra madre, né l’Eucarestia, nè il seno della Chiesa, nè i Vangeli, nè niente di quello che fa la nostra felicità quaggiù e tutta la nostra speranza lassù, e se conoscessi il mio triste stato, oh, come vorrei che si facesse il possibile per tirarmi fuori! Quello che vorrei per me, lo devo fare agli altri: "Fa’ quello che vorresti facessero a te" e lo devo fare ai più trascurati ai più abbandonati, andare dalle pecore più smarrite, offrire il mio festino, il mio banchetto divino, non ai miei fratelli, nè ai miei vicini ricchi (ricchi di’ conoscenza di tutto quello che questi infelici noti conoscono), ma a questi ciechi, a questi mendicanti, a questi storpi, mille tolse da compiangere di più che quelli che soffrono nel corpo. E non credo di poter far loro un bene maggiore che portar loro, come Maria nella casa di Giovanni, alla visitazione, GESU’, bene dei beni, il SANTIFICATORE supremo, GESU’ che sarà sempre presente tra loro nel tabernacolo, e spero nell’ostensorio, GESU’ che si o e offre ogni giorno sull’altare per la loro conversione; GESU’ che li benedice ogni giorno: ecco il bene dei beni, il nostro tutto, GESU’. Nello stesso tempo, pur tacendo, si farebbe conoscere ai nostri fratelli non con la parola, ma con l’esempio e soprattutto con l’universale carità, quella che è la nostra fede, quello che è lo spirito cristiano, quello che è il CUORE di GESU’ ... ».

Si stabilisce sul bordo dell’oasi di Beni Abbès, così simile a quelle visitate in Marocco, in un punto da cui si aprono gli orizzonti immensi delle dune rosate «che si perdono in questo bel cielo del Sahara che fa pensare all’infinito di Dio - che è il più grande = Allah Akbar», come scrive nell’ottava lettera a de Castries, il 29 novembre 1901 (LHC, 112).

Il 1° dicembre 1901 celebra la prima messa nella cappella di quella che chiama per la prima volta fraternità, la «fraternità del Sacro Cuore». Sì, perché la vuole aperta a chiunque bussi, «buono o cattivo, amico o nemico, musulmano o cristiano», in «una carità fraterna e universale che condivide fin l’ultimo boccone di pane con qualsiasi povero, qualsiasi ospite, qualsiasi sconosciuto che si presenti, e riceve ogni essere umano come un fratello amatissimo», come scriveva nella prima lettera a de Castries, il 23 giugno 1901 (LHC, 84), insomma una vera "zaouia di preghiera e di ospitalità», a somiglianza di quelle che lo avevano accolto in Marocco (cf. seconda lettera dell’8 luglio 1901, LHC, 87).

Il sogno di Beni Abbès è proprio quello di una fratellanza universale: «Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani e ebrei e idolatri a guardarmi come loro fratello - il fratello universale... Cominciano a chiamare la casa "la fraternità" (la khaoua in arabo), e questo mi è caro ... », come scrive il 7 gennaio 1902 alla cugina Marie de Bondy.

Effettivamente ospiti e i visitatori bussano in folla alla fraternità e si tratta specialmente dei più miserabili, gli schiavi neri.

Colpito dal fenomeno "vergognoso" della schiavitù, tollerata, se non favorita, dalle autorità militari, scrive lettere indignate al superiori ecclesiastici, ad amici e parenti influenti, religiosi e laici, per ottenere che una simile ingiustizia venga estirpata definitivamente. Il 9 gennaio 1902 riscatta il primo schiavo nero, e ne riscatterà altri in seguito (tutti gli scritti sulla schiavitù sono raccolti in un capitolo di OS). Un piccolo di tre anni lo battezzerà, per affidarlo in seguito ai Padri Bianchi. Tiene con sé un ragazzo che considera catecumeno e quindi atto ad assistere alla celebrazione, ma alla fine non potrà contare su di lui.

Il suo pensiero corre però al Marocco, e il Marocco gli resta impenetrabile. Si volge allora verso il Sahara algerino più profondo, quello berbero, che si estende per migliaia di chilometri a Sud dove esiste una popolazione disseminata ma numerosa. Sono passati meno di tre anni, ma appena sente che c’è una possibilità di partire, scrive a mons. Guérin, il vicario apostolico: «Non ho compagni’. Il Marocco non si apre. Non posso far meglio per questa salvezza delle anime che è la nostra vita quaggiù, come fu la vita di GESU’ "Salvatore", che andare a portare altrove, a quanti è possibile, la semenza della divina dottrina - senza predicare ma conversando - e soprattutto andare a preparare, cominciare l’evangelizzazione dei Tuareg, stabilendomi tra loro, apprendendo la loro lingua, traducendo il santo Vangelo, mettendomi in relazioni il più possibile amichevoli con loro ... » (CS, 30.06.1903, 198).

E’ a questo punto che, il 28 agosto 1903, padre Guèrin invia al Prefetto della Congregazione Romana di Propaganda Fide la domanda perché fratel Charles possa celebrare la messa senza assistente cristiano, facendosi garante del confratello.

Charles riesce a partire qualche mese dopo, il 14 marzo 1904, con una colonna militare che intende stabilire contatti pacifici con i Tuareg, allora fieri "principi" del deserto, guide e razziatori, guerrieri, cavalieri e poeti. Ne è attratto anche perché li vede come uno dei popoli antecedenti all’Islam, che parlano ancora la lingua di Agostino, il berbero, e pensa che portando loro il Vangelo riannoderebbe il filo spezzato dalla conquista arabo-islamica.

Durante questo primo viaggio, mentre è in marcia il 17 maggio 1904 annota nel diario: « Se posso restare in paese tuareg, come mi devo comportare ?» (CBA, 101-105). Tra l’altro si risponde che nondeve costruire un monastero, immaginare una clausura, fare grandi elemosine, neanche dare ospitalità come a Beni Abbès, ma conformarsi in tutto e sempre alla vita di Nazaret, vivere cioè in mezzo a loro, come loro. Ora coglie il senso più profondo del vivere Nazaret in mezzo agli altri: «Silenziosamente, segretamente, come GESU’ a Nazaret, oscuramente, come Lui ‘passare sconosciuto sulla terra, come un viaggiatore nella notte’... poveramente, laboriosamente, con mitezza, facendo del bene come Lui transiens benefaciendo (At 10, 38), disarmato e muto davanti all’ingiustizia come Lui, lasciandomi come l’Agnello divino tosare e immolare senza resistere, né parlare, imitando in tutto GESU’ sulla croce e in caso di dubbio sulla maniera di comportarmi e di seguire il regolamento dei piccoli fratelli del Sacro CUORE di GESU’, conformarmi sempre alla condotta di GESU’ a Nazaret e di GESU’ sulla croce» (102-104).

Bisogna dire che i Tuareg erano il popolo più ostile ai Francesi e, fino al 1902 avevano massacrato chiunque avesse tentato di raggiungerli anche pacificamente. Solo in seguito alla repressione avvenuta con la battaglia di Tit del 1902, si erano visti costretti alla tregua. Ma l’ostilità restava, così come il disprezzo per quei «pagani» e «selvaggi» dei Francesi, di cui si diceva persino che fossero cannibali... (cf. lettera a Raymond de Blic della Pentecoste del 1908, OS, 464). Ancora una volta, partendo, Charles redige il testamento (cf. VN, 156-160), come alla partenza per il Marocco. Non è ingenuo. E’ per questo che, agli eventuali compagni (che non verranno), chiede fin dall’inizio che siano pronti ad aver la testa tagliata, oltre che a morire di fame, come non era raro che avvenisse nel deserto in caso di carestia. E non era immaginabile un regime di vita europeo, con spostamenti di cammelli di non meno di tre mesi per andare e tre mesi per tornare!

A de Castries, il 17 giugno 1904, scrive che ormai la metà circa dei Tuareg sono sottomessi, ma occorre fare «opera di fraternizzazione ossia «far cadere la loro diffidenza, sparire i loro pregiudizi contro di noi;... farci conoscere, stimare, amare da loro, provare loro che li amiamo, stabilire la fraternità tra loro e noi ... » (LHC, 153). In questo primo periodo, la sua vita consiste «nel conversare, nel dare dei medicinali, elemosine, l’ospitalità nell’accampamento, nel mostrarsi fratelli, ripetere che siamo tutti fratelli in Dio e che speriamo di essere tutti un giorno nello stesso cielo, pregare per i Tuareg con tutto il cuore ... » (ivi, 153-154).

In ogni modo fr. Charles continua a pensare i Tuareg, proprio perché hanno conservato una cultura pre-islamica, più aperti degli Arabi ad un’eventuale futura evangelizzazione, anche perché non parlano la lingua del Corano ed hanno usi e costumi molto diversi dagli arabi. Le donne, per esempio, non solo non sono velate, ma sono molto libere. Tra l’altro, se la poesia è di tutti, uomini e donne, sono le donne che fanno musica, con un tradizionale strumento a corde, in particolare quando i corteggiatori si radunano nel loro "salotto" di sabbia.

Di una cosa è convinto: il suo è solo «un lavoro preparatorio... Non sono neppure al punto di seminare - scrive - : preparo la terra, altri semineranno, altri raccoglieranno la messe ... » (LHC, 15.07.1904, 156). E’ quello che ripeterà in numerose occasioni (cf. LHC, 28.10.1905, 176). Dissodare, senza arrivare a seminare, senza neppure desiderare di vedere il frutto della propria fatica: è questo il suo atteggiamento di fondo.

Se fin da questo primo viaggio del 1904, comincia ad imparare la lingua, non è però solo per conversare, è anche per tradurre i Vangeli. Già nel settembre 1904 può scrivere alla cugina: «Ho finito da poco la traduzione dei santi Vangeli in lingua tuareg: i Tuareg hanno una lingua ed una scrittura proprie, ma non hanno libri; la loro scrittura, per comodità, serve solo per brevi iscrizioni, o tutt’al più per brevi lettere; non esiste nessun libro in questa lingua: è per me una grande consolazione che il loro primo libro siano i santi Vangeli» (LMB, 113).

Da solo con i Tuareg

Nell’agosto 1905, dopo un secondo viaggio, si stabilisce definitivamente tra i Tuareg, nel misero e allora ignoto villaggio di Tamanrasset, nel cuore dell’Hoggar, con una ‘parrocchia’ di musulmani, di 2000 km. da nord a sud e 1000 dall’est all’ovest (cf. B, 294), a tre mesi di deserto dalla residenza del vicario apostolico e amico, p. Guérin, senza risorse, senza altra protezione che la parola data dal giovane capo della federazione delle tribù Tuareg dell’Hoggar, Musa ag Amastan. Padre Guérin gli scrive: «La considero ‘consegnato alla grazia di Dio’ e pongo tutta la mia fiducia nel divino compagno di strada al quale si è consegnato» (CS, 411).

Stando sul posto, solo europeo e solo cristiano, si accorge ben presto che per una vera evangelizzazione, per quanto lontana sia, non basta aver tradotto i Vangeli, oltretutto con una conoscenza della lingua superficiale e povera. Occorre prima comprendere le persone e il popolo, immergersi nella loro realtà quotidiana, guardare, ascoltare, imparare, umilmente e senza pregiudizi. Si prefigge allora di riprendere in mano la traduzione dei Vangeli quando avrà perfezionato la lingua. In realtà non ne avrà mai più il tempo.

Passati più di diciotto mesi di solitudine, nel novembre 1906 riaffronta il lungo viaggio per il Nord. E’ un momento decisivo. Charles vuole incontrare mons. Guérin, parlargli, confessarsi. Cerca anche un compagno. Trova un novizio dei Padri Bianchi disposto a seguirlo, ma il giovane resiste pochi mesi e non arriverà mai a Tamanrasset. E’ a questo punto che Charles prende la decisione di tornare da solo, nonostante l’impossibilità di celebrare. Risponde così alle perplessità di p. Guérin, il 2 luglio 1907, festa della Visitazione: «Come farò a Tamanrasset? Tocca al Divino Maestro sistemare la cosa... La domanda che pone - è meglio soggiornare nell’Hoggar senza poter celebrare la messa, oppure celebrare e non andarvi - me la sono posta spesso... Essendo il solo prete che possa andare nell’Hoggar - mentre molti possono celebrare il santissimo Sacrificio - credo che sia meglio andare nonostante tutto nell’Hoggar, lasciando al buon Dio di darmi il mezzo di celebrare, se lo vuole (ciò che ha fatto sempre fino ad oggi con i mezzi più vari). Un tempo ero portato a vedere da una parte l’infinito, il santo Sacrificio, dall’altra il finito, tutto quello che non lo è, e a sacrificare tutto alla celebrazione della santa messa... Questo ragionamento però deve peccare in qualcosa, poiché dagli apostoli in poi i più grandi santi in certe occasioni hanno sacrificato la possibilità di celebrare ad opere di carità spirituale, viaggi o altro .... ». Del resto, aggiunge risiedere da solo, ha in fondo dei vantaggi: «Vi è possibilità di agire, anche senza fare granché, perché si diventa "del paese"» e perciò «accessibili e piccolissimi» (cf. CS, 526-533).

Ecco come, per un discernimento dello Spirito, che supera i suoi strumenti teologici, rinuncia all’eucarestia, senza rinunciare però, come nell’esortazione di Rom 12, 1-2, ad offrire la sua vita in «sacrificio vivente», in vero culto esistenziale, santo e gradito a Dio prima e più di ogni altro culto. Ed è significativo che faccia questo discernimento il giorno della Visitazione: ha capito ormai cosa vuol dire incarnarsi per visitare e salvare un popolo, a costo di sacrificare, di svuotarsi delle sue prerogative sacramentali.

Si è detto che già il 28 agosto 1903 p. Guérin aveva chiesto a Roma l’indulto perché potesse celebrare da solo. Aveva ripetuto la domanda nel 1906, senza risultato. Il modo con cui faceva l’elogio di fr. Charles, prete, ex trappista, ex militare, ex esploratore, insospettiva i prelati di Propaganda Fide: qual era la situazione canonica di questo strano personaggio perduto nel deserto?... Fanno una breve inchiesta prima di rispondere categoricamente, il 14 gennaio 1904: « Non expedire » (cf. CCDP, 317-327; LAL, 197-203).

 

Ora, è proprio a partire de questo viaggio di ritorno definitivo del 1907, che Charles si immerge consapevolmente nella vita dei Tuareg e nella loro cultura più specifica, quella della poesia. Nomadizzando d’accampamento in accampamento, in maggio ha già raccolto più di 6000 versi di 576 poesie dalla voce stessa dei loro autori o di chi li ha imparati a memoria, essendo tramandati oralmente. Ha già raccolto testi in prosa, proverbi e altro. Un lavoro immane che ritiene necessario, ma per il quale si sente inadeguato. Cercherà fino alla fine qualcuno che continui il suo lavoro, riponendo le sue speranze su Louis Massignon, che però non lo seguirà nel deserto, poco interessato a una lingua ‘povera’ e a una cultura orale.

Non è il momento di fermarci troppo sugli studi linguistici. Basti accennare al dizionario Tuareg-Francese, una vera e propria enciclopedia dell’universo Tuareg, che sarà terminata il 24 giugno 1915: conta 2.028 pagine manoscritte pronte per la stampa. Quanto alle poesie, finirà di mettere in bella copia - dopo aver fatto per ogni poesia introduzione, note, traduzione parola per parola e in linguaggio corrente, con un lavoro accanito di 9 anni - tre giorni prima della morte, il 28 novembre 1916.

La maggior parte dei poemi erano, fino a Charles de Foucauld, poemi d’amore, di nostalgia, di solitudine, e canti di guerra. Diversi poemi da lui raccolti cantavano l’ultimo combattimento, quello di Tit, «il giorno degli infedeli». E’ commovente di vedere qualcuno come lui, indicato come ‘pagano’, ‘infedele’ e ‘nemico’, ascoltare questi versi e sottrarli alla fragilità della memoria, lasciandoceli come sole vestigia dell’epoca in cui i Tuareg non erano ancora sotto il dominio della Francia.

Anche questo dimostra il rispetto per un popolo, di cui voleva mettere in valore la cultura e la civiltà. Sia quando adorava silenziosamente l’Eucarestia, sia quando, per anni (dal 31 gennaio 1908 al giugno 1914) l’ostensorio rimane vuoto anche dopo eventuali messe, a causa delle leggi canoniche, contemplando sempre il Dio dell’Incarnazione, l’Uomo di Nazaret, non poteva non guardare ogni essere umano ed ogni popolo come degno di essere riconosciuto e amato nella sua identità, cultura, storia. Uno studioso, Maurice Serpette, ha parlato recentemente, per fr. Charles, di «santità della conoscenza» e di «apostolato della conoscenza» (FD), spiegando che la conoscenza, era per lui, in primo luogo, «conoscenza degli uomini: quella della loro lingua non ne è che un intermediario» nel senso che ciò che sceglie, anche nel contatto etnico-religioso, è sempre la relazione personale e il dialogo.

 

Contraddizioni

Mentre i tempi dell’evangelizzazione si allontanano, già dal 1905 fr. Charles constata che la pacificazione e la sicurezza delle piste porta, oltre ai Francesi, anche i commercianti Arabi, di solito « marabutti », che contribuiscono ad un rinnovamento del fervore musulmano. Nel 1907, poi, a due anni dal suo arrivo a Tamanrasset, anche il capo Musa ag Amastan vi pianta le sue tende e, per le sue soste, si fa costruire una casa in mattoni crudi, sull’esempio di fr. Charles e con i suoi stampi, visto che i sedentari, una specie di servi della gleba dei nobili nomadi, vivevano in capanne di rami di palma. Musa, un uomo che Charles descrive come «intelligente, ambizioso, musulmano fervente e praticante», perché convertito da poco, ha l’intenzione di mettere in atto una riforma politico-religiosa, e cerca di fare di Tamanrasset, la «capitale » del suo « regno musulmano », tra l’altro progettando una moschea, la prima moschea dei Tuareg, che finora pregavano a cielo aperto sulla sabbia o sulle pietre del deserto (cf. CS, 22.07.1907, 535-543). Progetta anche una zaouia.. Rispetto alle case, a poco a poco altri imitano Musa e nel 1910 non ci sono quasi più capanne. Nel 1915 Charles scrive alla cugina Marie che se quando era arrivato c’erano due minuscole baracche e 50 capanne, ora c’erano 80 case, dì cui una molto buona (cf. FD, 261-62 – Si ricordi che oggi Tamanrasset, la città più a Sud dell’Algeria, conta 80.000 abitanti!). Il tentativo di riforma di Musa non ha altro scopo che quello di difendere il suo popolo dall’influenza cristiana del fratello, riconosciuto del resto come autorità morale da Musa stesso, che lo consultava. Musa e gli altri nobili avevano però altri consiglieri, visto che, non parlando né scrivendo Arabo, avevano bisogno di segretari Arabi, di solito marabutti ferventi e autorevoli, ed erano questi che avevano su di loro un’esplicita influenza religiosa.

Anche se in seguito la siccità e altre vicende costringeranno Musa ad accamparsi più lontano e per il momento i progetti di «capitale islamica» s’interromperanno, il fatto è che Charles vive in pieno la contraddizione di ritrovarsi in un mondo che non solo non è disposto ad aprirsi al Vangelo, come presumeva all’inizio, ma che vi si chiude sempre di più. Paradossalmente, ma evangelicamente, più che mai coniuga la pazienza con l’urgenza. Mette spesso l’accento sulla «fretta» di Maria che va a visitare Elisabetta. Un giorno scrive a un’amica «Nostro Signore ha fretta.. I giorni concessici per amarLo, per imitarLo, per salvare insieme a Lui le anime, passano: e non Lo si ama, non Lo si imita, non si salva» (lettera a Suzanne Perret del 15.12.1904, OS, 409: pressè vi è però tradotto angustiato!). Ma vede anche che i tempi non sono maturi perché i Tuareg e altri musulmani incontrino il Crocifisso-Risorto, ma sa che è tanto più urgente impegnarsi per loro. E’ sempre più convinto dell’impossibilità dì una predicazione diretta: « ... Predicare GESU’ ai Tuareg, non credo che GESU’ lo voglia né da me né da nessuno. Sarebbe il mezzo di tardare, non d’affrettare, la loro conversione. Li renderebbe diffidenti, li allontanerebbe, invece di avvicinarli ... ». Quel che c’è da fare, ripete, è di «andare molto lentamente, farli nostri amici, e poi dopo, a poco a poco, si potrà andare più lontano con alcune anime privilegiate che saranno venute e avranno visto più delle altre, e che, loro, attireranno le altre... Ci vorrebbe soprattutto l’istruzione ... » (cf. CS, 603-606). Li vuole far crescere «materialmente, intellettualmente, moralmente». Li vuole far diventare «per l’educazione e l’istruzione uguali o superiori» ai Francesi (LHC, 29.05.1909, 182). Li vuole, insomma, nel sistema coloniale francese, cittadini a pieno titolo e non sudditi o vassalli. Vuole che al più presto spariscano le differenze tra colonizzatori e colonizzati e tra i colonizzati tra loro. Nel 1905 e poi nel 1912 raccoglie per iscritto una serie di consigli da dare a Musa. In quelli del 1905, tra l’altro si legge: «Fare imparare vigorosamente il Francese al suo mondo, per essere, non i nostri sudditi, ma i nostri uguali, essere dappertutto al nostro stesso livello (... ). Grazie a questo, probabilmente in un lasso di tempo molto corto, tutti i militari e impiegati dell’Hoggar saranno del paese» (B, 323 e ss.). Va detto che non erano in molti, all’epoca, a prospettare quest’uguaglianza, evangelica prima che repubblicana.

Certo, non smetterà di sognare un’evangelizzazione, sia pur lontanissima e non alla sua portata. Il 10 dicembre 1911, da un eremo sulle montagne selvagge dell’Asekrem, scrive all’amico de Castries: «Sarà dato alle generazioni che ci seguiranno di vedere la massa di queste anime del Nord dell’Africa dire insieme "Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra" rivolgendosi a Dio come al Padre comune di tutti gli umani fratelli in Lui, chiedendo insieme per loro e per tutti gli umani senza eccezione - amando il prossimo come loro stessi - , non chiedendo altro che beni spirituali, sapendo che sono l’unico necessario e che il resto è’ dato in sovrappiù? - Non lo so, è il segreto di Dio: ma è dovere di impegnarvici con tutte le forze: è la pratica del 2’ comandamento, l’amore del prossimo come se stesso, così simile al I°, l’amore di Dio al di sopra di tutto» (LHC, 193).

Proprio in vista di un’evangelizzazione e di una promozione umana più adeguata, fr. Charles ha pensato quasi subito a dei laici, laici che, al modo di Priscilla e Aquila, gli amici e ospiti di Paolo, possano stabilirsi nel paese in maniera disinteressata. «Come sarebbe desiderabile - scrive già il 13 dicembre 1905 - che dei buoni cristiani, o almeno delle brave persone non-musulmane», venissero come commercianti. «Onesti piccoli commercianti francesi (parlerà poi di qualsiasi mestiere) sarebbero accolti con piacere dalle autorità, che arrossiscono dei loro compatrioti stabiliti nel Sud : nessun Francese viene a stabilirsi nelle Oasi se non come mercante d’alcool... è una vergogna! Ci vorrebbero dei cristiani come Priscilla e Aquila, che facessero il bene in silenzio, conducendo la vita di poveri mercanti , in relazione con tutti, si farebbero stimare e amare da tutti, e farebbero del bene a tutti ... » (CS, 416-417).

Com’è possibile, si domanda in altre occasioni, che noi cristiani che professiamo «una religione d’amore», invece di fare del bene a queste popolazioni, ne facciamo uno strumento di lucro? E così, allora, che «nei nostri francesi miscredenti che predicano sui tetti la fraternità, gli indigeni non vedono che negligenza, ambizione, cupidigia - e in quasi tutti, ahimè, indifferenza, avversione e durezza ... », come scriverà il I° gennaio 1908 a don Huvelin (LAH, 226).

Ma la realtà è dura e difficile la semplice sopravvivenza. Non arrivano fratelli e non arriveranno neanche i laici. Già quando rientra definitivamente a Tamanrasset nell’estate 1907, trova un’accoglienza inattesa, però il paese è immerso nella fame: non piove da quasi due anni. In una terra dove i poveri vivono quasi esclusivamente di latte, non c’è più neppure quello: «Le capre sono asciutte come la terra e le persone come le capre», scrive alla cugina (LMB, 137). In questa desolazione, rimane senza riserve di viveri, perché le distribuisce a chi glieli chiede; non vede un francese da mesi, per più di sei mesi non riceve posta... Dopo 21 anni dalla conversione, passa il Natale 1907 senza messa. Nei primi giorni del 1908, l’anno dei suoi cinquant’anni, stremato dalle fatiche e dalla denutrizione, si ammala quasi fino a morire. E tuttavia il 15 gennaio, l’anniversario della sua partenza per la Trappa, risponde in tono vigoroso all’invito di p. Guérin di pubblicare le ricerche linguistiche sotto il suo nome.

« ... Padre amatissimo, mai, mai, mai, permetterò che sia pubblicata qualcosa sotto il mio nome da vivo, e proibirò che lo si faccia dopo la mia morte... Non sono questi mezzi che ci ha dato GESU’ per continuare l’opera della salvezza del mondo... I mezzi di cui si è servito al presepio, a Nazareth e sulla croce sono: povertà, abiezione, umiliazione, abbandono, persecuzione, sofferenza, croce. Ecco le nostre armi, quelle del nostro Sposo divino che ci chiede di lasciarlo continuare in noi la sua vita, lui l’unico Amante, l’unico sposo, l’unico Salvatore, e anche l’unica Sapienza e l’unica Verità... Non troveremo meglio di lui, e lui non è invecchiato... Seguiamo questo modello unico e siamo sicuri di fare molto bene perché, da allora in poi, non siamo più noi che viviamo, ma Lui che vive in noi; i nostri atti non seno più i nostri propri atti, umani e miserabili, ma i suoi, divinamente efficaci ... » (cf. CS, 576-79).

Quando il 20 gennaio 1908 gli amici Tuareg si accorgono che sta per morire, Musa Ag Amastan invia un corriere agli ufficiali francesi, mentre altri vanno a cercare «tutte le capre che abbiano un po’ di latte in questa terribile siccità, in un raggio di quattro chilometri» (CS, 598). Per la prima volta Charles è davvero nelle mani dei Tuareg, che gli danno la vita! Per di più il 31 gennaio 1908, ecco la grazia delle grazie: il permesso di celebrare da solo, pur senza conservare l’eucarestia.

Col tempo, dunque, il disprezzo o la diffidenza da parte dei Túareg ha fatto posto alla conoscenza e perfino all’amicizia: «I Tuareg sono per me una consolante compagnia; non posso dire quanto siano bravi per me, quante anime rette trovi fra di loro; uno o due tra loro sono veri amici, cosa rara e così preziosa dappertutto (…) Qui sono il confidente e spesso il consigliere dei miei vicini; so cose dolorose ... » (LHC, 8.01.1913, 196-97).

Alcuni testimoni confermano quanto fosse grande il suo rispetto per i Tuareg, nonostante non si aspettasse da loro frutti di conversione. Un ufficiale medico, protestante, che si trovava a Tamanrasset nel 1908, un giorno chiede al fratello: «Crede che i Tuareg si convertiranno e otterrà risultati che la ripaghino dei suoi sacrifici?». Fr. Charles risponde: «Mio caro dottore, io sono qui non per convertire in un solo colpo i Tuareg, ma per cercare di capirli e di migliorarli. Imparo la loro lingua, li studio perché dopo di me altri preti continuino il mio lavoro. Appartengo alla Chiesa, e la Chiesa ha tempo, dura, io invece passo e non conto niente. E poi desidero che i Tuareg abbiano il loro posto in paradiso. Sono certo che il buon Dio accoglierà nel cielo coloro che sono stati buoni e onesti, senza bisogno che siano cattolici romani. Lei è protestante, Tessère non credente, i Tuareg sono musulmani: io sono persuaso che Dio ci riceverà tutti, se lo meritiamo, e cerco di migliorare i Tuareg perché meritino il paradiso» (FD, 305, 306).

Oggi conosciamo anche delle lettere scritte da Musa in lingua Tuareg. Una del 5 gennaio 1914, molto affettuosa, in cui chiama Foucauld akli-n-Ghissa, equivalente dell’arabo ‘Abd ‘Issa «servo di Gesù», si chiude con queste parole: «Non mi abbandonare. Voglio da te una cosa: prega molto per me». Un’altra, del 6 marzo 1914, contiene questa frase: «Fin quando vivrò seguirò il tuo consiglio, perché è il consiglio d’un amico affezionato» (BTACF, suppl. au n° 31 -juillet 1998, 20)

Anche se Musa non ha l’intenzione di farsi «servo di Gesù», come egli chiama fr. Charles, ha comunque amato e riconosciuto l’uomo di Dio e, appunto, il seno di Gesù, e anche se ha islamizzato l’Hoggar mentre fr. Charles avrebbe desiderati evangelizzarlo, l’ha amato e, al momento della morte lo piangerà.

"Ostaggio" dei musulmani

Allo scoppiare della guerra, si riaccendono in Africa del Nord movimenti che predicano la shaaria, la guerra santa contro gli «infedeli», e, in questa prospettiva, si alleano ai Turchi e quindi ai Tedeschi. Tra questi movimenti religioso-politici integralisti, uno dei più importanti, come accennato all’inizio, è quello dei i Senussiti Libici. Nel giugno 1915 delle truppe senussite occupano Ghat, nel Sud-Ovest del Sahara libico, alla frontiera col Sahara algerino, a Nord-Est di Tamanrasset, e cacciano via gli Italiani, che vi abbandonano armi e munizioni. Sarà proprio una di queste armi italiane che ucciderà Charles de Foucauld (cf. LMCF, 70 e ss.).

Il I° gennaio 1916, Charles inizia un nuovo taccuino in cui annota ogni giorno una breve meditazione. Probabilmente li scrive per un possibile uso dei laici che tenta di riunire in associazione e che aspetta, invano, nel deserto. L’11 giugno, Pentecoste, comincia ad annotare qualche versetto del Vangelo di Luca, Tra l’altro medita di nuovo, in Lc 1, 29 e ss., la Visitazione, di cui aveva fatto «la Festa patronale» delle future fraternità di piccoli fratelli e piccole sorelle (cf CBA, 2 luglio 1904, p. 143).

«Andò nella montagna in fretta... quando si è pieni di Gesù, si è pieni di carità; si va da quelli che si vogliono salvare, come Gesù è andato a loro incarnandosi; si fa il bene in fretta, perché la carità urge e non ammette ritardi. Lavorare alla salvezza degli altri, andare a loro, farlo in gran fretta: la fretta può salvare alcuni, impedire qualche peccato, produrre qualche merito in più: la lentezza a fare il bene all’essere amato è incompatibile con 1’amore» (VN, 228).

Ecco riconfermato il suo il suo metodo e il suo stile: quello di visitare, di fare incontri personali, non tanto per convertire, quanto per salvare, e salvare con Gesù Salvatore.

Charles era convinto che il Sud del Sahara non sarebbe stato toccato dalla guerra, ma il 6 marzo 1916 trecento uomini armati di fucili e cannoni italiani assaltano il forte di Gianetta, alla frontiera con la Libia, a Nord-Est di Tamanrasset, e lo conquistano dopo diciotto giorni d’assedio. Il 21 giugno Charles interrompe le brevi annotazioni sul Vangelo di Luca, il 23 lascia la sua casetta e si trasferisce a un chilometro di distanza, più vicino al villaggio, in una casbah che ha costruito sul modello di quelle scoperte e disegnate tanti anni prima in Marocco: residenze fortificate con un pozzo all’interno, che funzionano da abitazione, rifugio, magazzino. Gliene era venuta l’idea pensando ai residenti del villaggio, i più poveri, quelli che, non avendo cammelli, non potevano andare lontano e che, fin dal 1914, erano esposti ai razziatori marocchini ad ovest e ai ribelli senussiti ad est.

Il 9 agosto arriva a Tamanrasset la notizia della disfatta dei Francesi alla frontiera libica e che i Senussiti marciano verso l’Hoggar. Si susseguono gli allarmi.

Il 28 novembre 1916 Charles termina, come si è visto, la copia delle poesie tuareg: gli restano da copiare per la pubblicazione i testi in prosa e la grammatica. Ben presto, quando avrà finito i lavori di lingua, spera, avrà più tempo di uscire per vedere la gente... Lo stesso giorno scrive alcune lettere che partiranno con il corriere del 2 dicembre. Verranno ritrovate dal capitano de la Roche, insieme a quelle scritte il I’ dicembre, affrancate e pronte per la posta, il 21 dicembre durante la prima perquisizione dei fortino saccheggiato, venti giorni dopo la morte di Foucauld, avvenuta la sera del I’ dicembre 1916 (cf. LMCF, 81, 101 e 188).

Si sa, come dicevo all’inizio, che l’intenzione dei ribelli non era di uccidere fr. Charles, ma di prenderlo in ostaggio. L’uccisione fu, per così dire, accidentale, un gesto di panico. Ma conoscendo il suo desiderio antico di morire martire, maturato fin da quando era trappista, al tempo dei primi massacri degli Armeni, possiamo certamente rileggere questa morte come degno sigillo di una vita di testimone di Gesù e del suo Vangelo.

Quel I° dicembre era un venerdì, giorno sacro a1l’Islam, ma anche I° venerdì. Fratel Charles era devoto al Sacro Cuore e ai primi venerdì. Non so se gli fosse nota l’intenzione di quel mese, ma si è sa che quel mese si pregava espressamente per la conversione dell’Islam... Ha senso perciò una tale morte, a sigillo di una vita data in ostaggio all’Islam, o meglio a dei credenti islamici concreti, incontrati personalmente, faccia a faccia, conosciuti e amati di un amore umile, fratello, disinteressato, disarmato e disarmante.

Nel taccuino di pensieri quotidiani, iniziato il 1 ‘ gennaio 1916, il 1 8 gennaio scriveva:

« ... Dio costruisce sul nulla. E’ con la sua morte che Gesù ha salvato il mondo; è con il niente degli apostoli che ha fondato la Chiesa; è con la santità e nel nulla dei mezzi umani che. si conquista il cielo e che la fede viene propagata» (VN, 215).

Bibliografia

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BACF Bulletin Amitiés Charles de Foucauld.

CBA C. de F., Carnet tre Beni A bbès, Nouvelle Cité, Paris 1993.

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CFI G. Gorrée, Charles de Foucauld intime, La Colombe, Paris 1952.

CS C. de F., Correspondances Sahariennes, Cerf, Paris 1998.

FD Maurice Serpette, Foucauld nel deserto, Queriniana, Brescia 1998.

LAH Charles de Foucauld - Don Huvelin. Corrispondenza inedita, Borla, Torino 1965.

LAL C, de F., Lettere a un amico di Liceo, Città Nuova, Roma 1985.

LHC C. de F., Lettres a Henry de Castries, Grasset, Paris 1938.

LMB C. de F., Lettere a M.me de Bondy, AVE, Roma 1966.

LMCF Antoine Chatelard, La mort de Charles de Foucaulc, , Karthala, Paris 2000

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VN C. de F., f"iaggiatíw nella notte, Città Nuova, Roma 1979.

 

 

Qualche testo di fr. Charles de Foucauld

Ad un signore, il marchese de la Rochethulon, che lo inette in guardia sui pericoli del Sahara ricordandogli la sorte dell’amico comune Antoine de Morès, collega di Charles a Saint-Cyr e soprattutto alla Scuola di Cavalleria di Saumur (1879-79), massacrato l’8 giugno 1896 nel deserto dalle guide Tuareg, Charles il 18 marzo 1903 scrive una lettera premonitrice:

«Caro amico, monsignor Livinhac mi trasmette il suo biglietto. Sì, sono in mezzo a questi popoli che hanno ucciso il mio amico, e lo vendico rendendo il bene per il male, cercando di dar loro la vita eterna.

Quel caro Morès, al quale penso, per il quale prego tutti i giorni, mi aiuta in questo. In cielo, in seno alla carità immensa in cui è annegato, non ha altro che preghiere e amore per questi musulmani che hanno versato il suo sangue e forse verseranno il mio. Ma lavoriamo insieme, lui lassù, glorioso, io quaggiù alla stessa opera di salvezza e d’amore. Ci aiuti con le sue preghiere!... Come prego per quelli che hanno amato, che ameranno questo tanto caro Morès! Tutto suo nel Sacro CUORE di GESU’. Charles de GESU’". (BACF n. 145, janvier 2002, p. 5).

Per trovare laici che vivano il Vangelo in mezzo ai musulmani al modo di Priscilla e Aquila, farà tre viaggi in Francia, nel 1909, 1911 e 1913), avviando inoltre un’intensa corrispondenza con Massignon, l’abbé Caron, rettore del Seminario minore di Versailles (a cui avrebbe voluto affidare la responsabilità dell’associazione dei laici), un laico di Lione, Joseph Hours e altri.

All’abbé Caron, l’11 marzo 1909 scrive:

«... Non è soltanto con doni materiali che dobbiamo lavorare alla conversione dei musulmani, è piuttosto provocando lo stabilirsi tra loro, a titolo di coltivatori, di coloni, di commercianti, d’artigiani, di proprietari terrieri, ecc., di eccellenti cristiani di tutte le condizioni, destinati ad essere dei preziosi appoggi dei missionari, ad attirare con l’esempio, la bontà, il contatto, i musulmani alla fede, e ad essere i nuclei ai quali possano aggregarsi, uno ad uno, i musulmani via via che si convertono. ... Dei buoni cristiani che vivono nel mondo, la confraternita farà dei missionari laici, ne porterà ad espatriare per essere missionari laici in mezzo alle pecore più perdute, mostrando loro come convertirli è un dovere per i popoli cristiani, e quanto è bello consacrarvi la vita.

I doveri dei fratelli e delle sorelle che non sono né preti né religiosi, verso i musulmani, sono tanto più gravi in quanto possono spesso per loro più che i preti, religiosi e religiose. Più di loro, possono entrare in relazione, stringere amicizia, mescolarsi con loro, prendere contatto con loro. Visto che i musulmani hanno repulsione verso i cristiani, poiché hanno una religione che ispira loro una fede profonda, i preti, religiosi e religiose causano loro diffidenza, spesso i preti e i religiosi mancano di punti di contatto, di occasioni di mettersi in rapporto con i musulmani, inoltre la prudenza e le regole dei loro istituti impediscono loro talvolta di superare certi limiti d’intimità, di penetrare nel cuore delle famiglie, di entrare in relazioni strette. Chi vive nel mondo ha spesso, al contrario, grandi facilità per entrare in rapporti stretti con i musulmani. Le loro occupazioni: amministrazione, agricoltura, commercio, lavori di vario genere, li mettono, se vogliono, in continua relazione con loro. ...Il ruolo dei fratelli e sorelle che non sono né preti né religiosi non è affatto d’istruire i musulmani sulla religione cristiana, di completare la loro conversione; ma di prepararla facendosi stimare da loro, facendo cadere i loro pregiudizi mostrando come vivono, facendo loro conoscere, attraverso gli atti più che per le parole, la morale cristiana; di disporveli guadagnando la loro fiducia, il loro affetto, la loro familiare amicizia; in modo tale che i missionari trovino un terreno preparato, anime ben disposte, che vadano da loro spontaneamente, o verso le quali possano andare senza ostacoli. E’ al fedeli dei paesi cristiani che incombe il dovere di evangelizzare i non credenti...

... La patria è l’estensione della famiglia, Dio, mettendo le persone della nostra famiglia più vicino a noi degli altri nella vita, ci ha dato dei doveri particolari verso di loro; in modo più largo, è lo stesso dei compatrioti, e di conseguenza delle colonie, che fanno parte della grande famiglia nazionale. ... La conversione dei musulmani è spesso difficilissima. Lo è soprattutto quando il governo locale vi mette degli ostacoli ed è contrario alla religione cattolica. Ciò non deve scoraggiare per niente. .., al contrario, deve far lavorare con più ardore, gli ostacoli mostrando che il successo ‘chiede più sforzo... Chiunque siano i non cristiani, non sono più difficili da convertire che i Romani e i barbari dei primi secoli del cristianesimo; per quanto possa essere opposto alla Chiesa il governo dei loro paesi, non lo è più di Nerone e dei suoi successori. Che i fratelli e sorelle abbiano lo stesso zelo delle anime, le stesse virtù dei cristiani dei primi secoli, compiano le stesse opere. Faranno, come loro, nascosti, dissimulati, furtivamente, il bene che non possono fare altrimenti. L’amore farà trovar loro i mezzi, e Gesù renderà efficaci gli sforzi che Egli ispira. Ridiciamo: "Non bisogna misurare i nostri lavori sulla nostra debolezza, ma i nostri sforzi ai nostri lavori.

Se le difficoltà sono grandi, tanto più affrettiamoci a metterci all’opera e tanto più moltiplichiamo i nostri sforzi... » (Lettre et carnets, Seuil, Paris 1966, p. 205-209).

Sono particolarmente significative alcune lettere che scrive a un commerciante di Lione, Joseph Hours, proprio perché interessato alla questione, allora nuova, dell’apostolato dei laici. In questo lettere fr. Charles mostra come sia certo dell’esigenza di tutti di cristiani di essere apostoli: «Non è un consiglio - afferma - è un comandamento: il comandamento della carità». Ma con quali mezzi? «Con i migliori - scrive - secondo quelli ai quali si rivolgono: con tutti quelli con cui sono in rapporto, senza eccezione, con la bontà, la tenerezza, l’affetto fratello, l’esempio della virtù, con l’umiltà e la dolcezza che sempre attraggono e sono così cristiane: con alcuni senza mai dir loro una parola su Dio e la religione, pazientando come pazienta Dio, essendo buoni com’è buono Dio, mostrandosi loro fratelli e pregando; con altri, parlando di Dio nella misura in cui sono in grado di accettarlo e, appena hanno in mente di ricercare la verità con lo studio della religione, mettendoli in contatto con un prete scelto molto bene e capace di far loro del bene... soprattutto, bisogna vedere in ogni essere umano un fratello - "Voi siete tutti fratelli, voi avete un solo padre che è nei cieli"». E aggiunge: «E bisogna bandire da noi lo spirito militante: "Io vi mando come agnelli in mezzo al lupi", dice GESU’….

Che distanza c’è tra la maniera di fare e parlare di Gesù e lo spirito militante di coloro che, cristiani o cattivi cristiani, vedono dei nemici da combattere invece di vedere dei fratelli malati che bisogna curare, dei feriti stesi per la strada con i quali essere buoni Samaritani». E ancora: «I non-cristiani possono essere nemici di un cristiano, un cristiano è sempre tenero amico di ogni essere umano; egli ha per ogni essere umano i sentimenti del cuore di GESU’». Continua che bisogna: «Farsi tutto a tutti per darli tutti a GESU’ (1 Cor 9, 22) avendo con tutti bontà e affetto fraterni, prestando tutti i servizi possibili, prendendo con loro contatto affettuoso, essendo fratelli amabili con tutti, per condurre a poco a poco le anime a GESU’ praticando la mitezza di GESU’». A questo scopo è necessario: «Leggere e rileggere incessantemente il santo Vangelo per avere sempre dinanzi alla mente gli atti, le parole, i pensieri di GESU’, in modo da pensare, agire come GESU’, e non gli esempi e i modi di fare del mondo, nel quale ricadiamo così alla svelta appena stacchiamo gli occhi dal Modello divino» (3 maggio 1912, cf. Cahiers Charles de Foucauld n. 14).

Tra il 1897 e il 1898, nell’eremo di Nazareth, fr. Charles scrive una quantità di meditazioni sul Vangelo, tra le altre una che sembra preannunciare la sua morte: "E avendo chinato il capo, rese lo spirito" - Mio Signore Gesù, sei morto e morto per noi!… Se avessimo veramente fede in questo, come desidereremmo morire e morire martiri come desidereremmo morire nelle sofferenze invece di temerle, come niente al mondo ci spaventerebbe, poiché il peggio che possono al più farci gli uomini è di farci perire in grandi tormenti e una tale morte, ricevuta in conformità alla tua volontà e al tuo amore, è una grazia perfetta, un sacriflcio perfetto, un’imitazione tre volte benedetta da te,. mio divino Gesù... Quale che sia ilmotivo per cui ci uccidono, se noi, nell’anima, riceviamo la morte ingiusta e crudele come un dono benedetto della tua mano, se noi te ne ringraziamo come di una dolce grazia, come di una beata imitazione della tua fine, se noi te la offriamo come un sacrificio offerto con grande buona volontà, se noi non resistiamo per obbedire alla tua parola: "non resistete al male" (Mt 5, 39) e al tuo esempio : "S’è lasciato non soltanto tosare ma sgozzare, senza lamentarsi" (Is 53, 7), allora, quale che sia il motivo che hanno di ucciderci, morremo nel puro amore e la nostra morte ti sarà un sacrificio di molto gradevole odore; e se non è un martirio nel senso stretto della parola, e agli occhi degli uomini, lo sarà ai tuoi occhi e sarà una perfettissima immagine della tua morte e una fine piena d’amore che ci condurrà dritti in cielo... Poiché, se non abbiamo in questo caso offerto il nostro sangue per la nostra fede, l’avremmo con tutto il cuore offerto e sparso per amore di te... Fammi, divino Bambin Gesù, ai piedi di cui mi inginocchio - sta scrivendo in tempo di Natale -, dinanzi alla tua piccola mangiatoia, la grazia infinita, se tuttavia è la tua volontà, di darmi la morte del martire, e presto, e nell’attesa fammela ardentemente desiderare, in te, con te e per te... » (Dio solo. Fede-Speranza-Carità (1897.98), Città Nuova, Roma 1973, 183-185).

Poco dopo la morte di fr. Charles, a sua sorella Marie de Blic arriva una lettera di Musa, fatta scrivere in Arabo, con queste parole: « ... La salvezza sia grande sulla nostra amica Marie così nominata! Da quando ho saputo della morte del nostro amico, vostro fratello Charles, i miei occhi si sono chiusi; tutto è oscuro per me; ho pianto e ho versato molte lacrime, e sono in grande lutto. La sua morte m’ha addolorato tanto. (... ) se a Dio piace. quelli che hanno ucciso il marabutto, li uccideremo finché la nostra vendetta non sia completa.(... ) Charles il marabutto non è morto solo per voi altri, è morto anche per tutti noi. Dio gli doni la misericordia, e che ci incontriamo con lui in paradiso!» (ß, 466).