Secondo incontro del ciclo 2008-2009
2 dicembre 2008
Leggeremo fino al cap. 5. Prima parte del grande discorso; così abbiamo suddiviso il testo. Il maestro prende la parola, sviluppando l’elogio della Sapienza e ponendoci subito dinanzi ad un’alternativa stringente: se siamo invitati a cogliere la sapienza, ossia il rivelarsi di Dio così come se ne parla dai primi versetti di questo poema, siamo coinvolti in una situazione conflittuale di cui bisogna che ci rendiamo conto. Il nostro maestro, in modo onesto e aperto e con la dimostrazione di un atteggiamento molto sereno, ci parla di queste cose. Già abbiamo constatato – e lo verificheremo meglio questa sera – che accogliere l’invito ad entrare in relazione con Dio che si rivela significa, in sostanza, acquisire la piena e matura consapevolezza circa la nostra vocazione alla vita perché è il rivelarsi di Dio che ci restituisce il valore originario e straordinario della vocazione alla vita. Accogliere la “sapienza” significa non soltanto fare i conti con un’alternativa conflittuale, ma constatare come l’empietà sia stupida. Il discorso del nostro maestro non è semplicemente oggettivo di chi ci dice: “guarda le cose stanno così e così, rendetevene conto e poi scegliete”, ma è un discorso – sereno, oggettivo, così misurato come è – proprio estremamente lucido nel denunciare la tristezza dell’empietà. Il rifiuto della “sapienza” è il rifiuto della vita, di quella vocazione che sta all’origine nell’iniziativa di Dio che Lui stesso ha voluto confermare e rilanciare per il suo popolo, per noi, per tutti gli uomini. E’ una prospettiva ecumenica, che abbiamo intravisto fin dall’inizio, che si spalanca dinanzi a noi.
Nei cap. 3 e 4 troviamo una sequenza di quadri che pongono in contrasto due gruppi umani, che noi per intenderci possiamo definire “i giusti” e “gli empi”. Sono quattro quadri ognuno dei quali è composto di due elementi ed è costruito in modo tale da mettere in evidenza il contrasto fra giusti ed empi; fra coloro che scelgono la vita e quelli che scelgono la morte; fra coloro che rispondono alla vocazione alla vita, la “sapienza”, e coloro che invece restano ripiegati su una posizione di rifiuto in rapporto al rivelarsi di Dio per impelagarsi, come già sappiamo, dentro le misure di un orizzonte che è prigioniero della morte.
I giusti e gli empi in contrapposizione.
Sono, dunque, quattro dittici; quattro quadri doppi.
Il primo dittico, cap. 3, dal v. 1 al v. 12. Il primo pannello fino al v. 9 e il secondo nei vv. da 10 a 12.
L’alternativa o la contrapposizione fra giusti ed empi viene elaborata nei quadri costruiti abilmente, con tecnica retorica molto efficace, rielaborati dal nostro maestro in rapporto alla contrapposizione fra realtà e apparenza: qual è la realtà dei giusti e l’apparenza; qual è la realtà degli empi e l’apparenza. Non semplicemente: “chi sono i giusti e chi sono gli empi”, ma: “qual è la realtà e qual è l’apparenza dei giusti e degli empi”.
La morte dei giusti è manifestazione della vita
Vv.1-9. Qui la presenza dei giusti viene osservata e descritta in quanto è sottoposta a gravame e in molti casi all’urgenza, in altri casi ancora allo scandalo, della morte. Ma la morte dei giusti è in realtà una rivelazione riguardante il valore della vita. C’è un’apparenza nella morte dei giusti, che va attentamente scrutata per constatare come in essa si mostri epifanicamente la potenza della vita.
“Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio. (il discorso prosegue rispetto al versetto 24 del cap. 2 che abbiamo letto il mese scorso) Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono”.
“Le anime dei giusti, invece… (notate che le anime sono le “psikè”, sono le vite; le anime sono quelle che, a modo nostro, possiamo definire “la vocazione alla vita”. Quando parliamo dell’anima non sappiamo mai bene cosa intendiamo. E d’altra parte questo termine è tradotto in greco così, ma in ebraico ha poi altri significati. Fatto sta che qui non sono in questione le anime che stanno appese a qualche nuvoletta, ma è la vocazione alla vita dei giusti) … sononelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero”. Dunque i giusti muoiono. Certo. “Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura,la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace”. Vedete come il nostro maestro, laddove riscontra la morte dei giusti, ci tiene a far presente che, sotto il dato apparente, noi siamo in grado di scoprire una realtà che è rivelazione per noi di quella vocazione alla vita che non è prigioniera della morte; per cui laddove i giusti muoiono – e quindi scalpore, angoscia, dispiacere, turbamento, scandalo – “essi sono nella pace” e la pace è la pienezza di tutti quei doni che portano a compimento la vocazione alla vita. Pace: anche questo è un termine dotato di una ricchezza di significato che supera la nostra immediata comprensione. In ogni modo qui quella vocazione alla vita che è attraversata dalla morte, in realtà realizza una potenza, esprime, attua, realizza (questo è il termine che mi sembra più opportuno) una potenza di vita che corrisponde all’iniziativa originaria di Dio. Dove noi cogliamo l’apparenza della morte è una vocazione alla vita che si realizza. E insiste: “Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé”. Vedete come “sono nelle mani di Dio” diceva il v. 1: è Dio che si rivela, è Dio che avanza, è una manifestazione di Lui, della sua presenza; di Lui che si compiace, che porta a compimento quella vocazione che ha donato agli uomini. Dice il v. 6: “li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno”. Guardate che il giorno del giudizio, qui nel v. 7, è il tempo della visita, lo ricordavamo il mese scorso; un altro modo di parlare del rivelarsi di Dio, del Dio che avanza, della sua presenza che affiora e si impone, di Lui come protagonista: “Nel giorno della visitarisplenderanno”. E questa luminosità dei giusti è colta con grande commozione dal nostro maestro: l’apparenza è quella della morte, la realtà è quella della pace, diceva poco prima; e adesso è percepita nella luminosità che i giusti, morendo, sono in grado di emanare. “Nel giorno della visita”, in quanto visitati da Dio, “risplenderanno come scintille nella stoppia, correranno qua e là. Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli”; per dire che i giusti che muoiono in realtà esercitano un influsso operativo di cui noi non riusciamo nemmeno a immaginare le conseguenze, tanto quell’influsso sarà efficace, poderoso, travolgente: tutto dipende dal fatto che è il Dio vivente che avanza, si mostra, e conferisce a quella che nei giusti è l’apparenza della morte la realtà di una vita che corrisponde alla sua intenzione originaria. E quindi “Governeranno le nazioni, avranno potere sui popoli
e il Signore regnerà per sempre su di loro.
Quanti confidano in lui comprenderanno la verità;
coloro che gli sono fedeli
vivranno presso di lui nell'amore,
perché grazia e misericordia
sono riservate ai suoi eletti”. Una piccola osservazione. Bisogna fare attenzione: dove leggiamo “coloro che gli sono fedeli vivranno presso di lui nell'amore”, istintivamente pensiamo a un premio che sarà conferito a questi giusti in un altro mondo, in un’altra storia e in un’altra condizione; appunto le anime appese a qualche nuvoletta oppure gli angioletti che giocano con le stelle. In realtà lui qui sta parlando di quella vocazione alla vita che si realizza nella storia umana, nelle cose del mondo; laddove l’apparenza è la morte, in realtà è l’opera di Dio che avanza ed è la potenza della vocazione alla vita che i giusti hanno accolto che si esprime in modo travolgente e vittorioso.
La vita degli empi è schiava della morte
Viceversa, vv. 10-12, il secondo pannello del dittico: “Ma gli empi per i loro pensieri riceveranno il castigo…”. Anche qui, fate attenzione perché non è il castigo che arriverà “poi”, questo è un altro discorso. Qui è proprio la tristezza, lo svuotamento della vita; è l’infelicità della cosiddetta vita degli empi; cosiddetta perché in questo caso è la vita che è apparente; nel caso precedente era apparente la morte. Qui è la vita degli empi che è apparente, perché gli empi per i loro pensieri riceveranno il castigo. In base ai loro progetti, propositi, intenzioni, a tutto il loro mondo interiore, a come hanno impostato e gestito la vita, sono intrappolati dentro meccanismi di morte (di castigo, dice qui la nostra traduzione della Bibbia). “… essi che han disprezzato il giusto e si son ribellati al Signore”. L’alternativa tra empi e giusti è sempre anche un’alternativa tra empi e la Sapienza, il rivelarsi di Dio, la presenza del Signore che viene, visita, opera e vuole realizzare le sue intenzioni. Hanno disprezzato il giusto perché il giusto muore; hanno in realtà manifestato così quanto sia infelice la loro vita. E insiste: “Chi disprezza la sapienza e la disciplina è infelice. Vana la loro speranza e le loro fatiche senza frutto, inutili le opere loro”. Anche in questo caso, a proposito dei giusti, il nostro maestro sembra commuoversi perché avverte – e ce ne rendiamo conto attraverso le espressioni con cui si rivolge a noi – proprio il disgusto drammatico per questa vita sprecata; eppure una vita nella quale gli empi hanno faticato tanto e tanto, e hanno intrapreso le loro attività, gestito le relazioni, elaborato giudizi, programmi e quindi verifiche. Tutto dentro a quello schema interpretativo delle cose che in realtà coincide con la loro autocondanna a morte. “Vana la loro speranza”, di una fatica inutile, una fatica vuota, “le loro fatiche senza frutto, inutili le opere loro”, perché comunque le opere nel caso degli empi non mancano; non sono dei fannulloni, non sono dei perditempo, degli inetti. E poi aggiunge anche: “Le loro mogli sono insensate, cattivi i loro figli, maledetta la loro progenie”. Non intendete un versetto come questo o altri di questo stesso tenore a modo di una maledizione: “vedrai che ti capiterà questo”; che poi, come sappiamo, qualche volta non capita. Non è che per forza i figli degli empi devono essere dei mascalzoni; non succede, non è così automatico e nella Bibbia il dato per cui gli empi sono fortunati, benestanti, prosperosi, approvati, uomini di successo, nella loro generazioni e nelle generazioni successive alla loro, è rilevato a più riprese. Pensate, c’è tutto il libro di Giobbe che mette questo dato in risalto che è così rilevante nell’opinione pubblica per cui non c’è poco da scherzare. Dunque qui non si tratta di invocare una maledizione sugli empi a cui gli empi non potranno sfuggire. Il nostro maestro vuole aiutarci a guardare dentro l’apparenza, sotto l’apparenza; a scrutare più in profondità, ad andare oltre a quell’apparenza di vita prosperosa, benestante, accompagnata da riconoscimenti, approvazioni, successi; in realtà è una vita disgraziata. Infelici loro, che sventura!
Nella tribolazione il germe del futuro
Si inserisce qui il secondo dittico. Non voglio perdermi in chiacchiere, anche se rileggere questi testi mi ricorda che questo è uno dei cavalli di battaglia di Corradino. Bisognerebbe ritrovare i suoi scritti.
Vv. 13-19. Pochi versetti, due pannelli. Primo pannello fino al v. 15, secondo pannello dal v. 16. Si tratta di superare quei luoghi comuni per cui noi confondiamo molto spesso l’apparenza con la realtà e viceversa. E un luogo comune frequentemente riscontrato nell’opinione pubblica è che la sterilità è una disgrazia. Luogo comune che ha una sua oggettività. Molte volte nella rivelazione biblica il dato della sterilità viene rilevato con un forte disagio, il senso di un disastro che compromette la vocazione alla vita, elimina il futuro, cancella qualunque possibilità di trasmettere il dono ricevuto: un binario morto la sterilità. Qui il nostro maestro vuole andare più a fondo e dice: per discernere tra la vocazione alla vita che si realizza e la vocazione alla vita che invece è impedita l’essenziale è come affronti la prova della sterilità, come stai nella sterilità, nel momento in cui la vita, nei suoi dati oggettivi, ti chiude in quel vicolo cieco. Ma Dio non è chiuso nel vicolo cieco della sterilità umana. E quello che lì per lì si impone come un dato che dimostra il fallimento, in realtà è una prova mediante la quale Dio sta chiamando, sta operando; è Lui che avanza, che viene, che vince, che si rivela, che realizza la sua intenzione originaria.
“Beata la sterile non contaminata, la quale non ha conosciuto un letto peccaminoso”.Oggettivamente la sterilità comporta uno stato d’inferiorità, poi qui si aggiunge anche il caso dell’eunuco. V. 13: “avrà il suo frutto – la sterile – alla rassegna delle anime”. La rassegna qui è ancora la “visita”. “Anche l'eunuco – l’eunuco è sterile, senza futuro –la cui mano non ha commesso iniquità…”. Vedete che qui il punto di riferimento non è il dato oggettivo della condizione fisica, ma è come quella donna sterile o quell’eunuco stanno nella prova. E la prova diventa feconda di avvenire dal momento che quella situazione oggettiva è affrontata in obbedienza a Dio, nella relazione con Dio, nell’accoglienza della vocazione alla vita che viene da Lui. “Anche l'eunuco, la cui mano non ha commesso iniquità e che non ha pensato cose malvagie contro il Signore, riceverà una grazia speciale per la sua fedeltà, una parte più desiderabile nel tempio del Signore(dove ufficialmente gli eunuchi non potevano entrare); poiché il frutto delle opere buone è glorioso e imperitura la radice della saggezza”. La fecondità della vita non dipende da questi dati che si impongono per la loro concretezza. Quando la vita, quella vita provata, è vissuta nella beatitudine dell’onestà, della coerenza, dell’adesione al Dio vivente, diventa feconda. Il luogo comune sta nel ritenere la sterilità come una maledizione; non è così, dice il nostro maestro. Viceversa – l’altro pannello del quadro – luogo comune è ritenere la fecondità come benedizione, che poi è un discorso ribadito in lungo e in largo nell’Antico e Nuovo Testamento. Non si può molto discutere sul fatto che sia una benedizione, però lui dice che anche questo è un luogo comune perché si tratta di considerare come la fecondità sia luogo di una prova, di una verifica, laddove non si tratta semplicemente di registrare il dato oggettivo, ma si tratta di rispondere a quella vocazione alla vita che viene da Dio, che è la sua stessa Sapienza nell’atto di rivelarsi. E dice così: “I figli di adulteri(ma sono i figli in un contesto adulterino) non giungeranno a maturità”. Affermazione che non è il caso di prendere nel suo significato empirico perché poi può succedere che i figli nati in un contesto adulterino crescano e affrontino la vita, un loro cammino di maturazione per cui diventano bravissime persone, ma questo è un altro discorso. Il concetto è che non ci si può nascondere sotto l’apparenza di quella benedizione che è la fecondità, così come lo è la longevità: entrambe sono situazioni nella quali si viene messi alla prova. Fecondità o longevità possono diventare una specie di paravento difensivo per coccolare la propria arroganza, la propria presunzione mentre non servono a cancellare i segni di un’esistenza disonorata. Si vive male. V. 17: “Anche se avranno lunga vita– ecco la longevità – non saran contati per niente e infine la loro vecchiaia sarà senza onore. Se poi moriranno presto non avranno speranza né consolazione nel giorno del giudizio, poiché di una stirpe iniqua è terribile il destino”. Questi hanno generato figli? Molti figli? Una fecondità esuberante, ma “di una stirpe iniqua è terribile il destino”. E in questo caso la moltitudine di figli ricade addosso a chi vorrebbe vantarsi della propria fecondità come un motivo di sofferenza inconsolabile: un destino terribile.
Vera e falsa fecondità
Terzo dittico, cap. 4, vv. 1-6.
Siamo alle prese con un’alternativa che è ricalcata
sulla precedente. “Meglio essere
senza figli e avere la virtù,
(è il caso precedentemente considerato della
sterilità; qui l’accento è posto su questa
“virtù”)
perché nel ricordo di questa
c’è immortalità”. E’ la virtùche
dall’interno della vita diventa il vero motivo che trasmette
vita ad altri; la fecondità biologica a questo riguardo,
senza essere minimamente disprezzata, diventa secondaria.
“Meglio essere senza figli e avere
la virtù, poiché nel ricordo di questa c'è
immortalità, per il fatto che è riconosciuta da Dio e
dagli uomini. Presente è imitata; assente è
desiderata”. E’ di quella
virtù che si va poi in cerca; è da quella
virtù che si prende slancio, motivo e suggerimento per
crescere e maturare nella vita: è la virtù che fa
vivere; e, in questo caso, anche laddove non siano generati figli,
è la virtù che diventa motivo valido per promuovere
la vita altrui. “Presente è
imitata; assente è desiderata nell'eternità trionfa,
cinta di corona,
per aver vinto nella gara di combattimenti senza
macchia”. Noi possiamo dire: ma
che cos’è questa virtù? Che cosa intende il
nostro maestro quando parla di virtù?
Più avanti egli dirà alcune cose, ritirerà fuori questo termine e lo svilupperà; per adesso intendiamo “virtù” come la capacità di accogliere la vocazione alla vita, di accogliere quel dono che viene da Dio che è la Sapienza, che è il Suo rivelarsi, che è Lui, perchè accogliere la vocazione alla vita, per il nostro maestro, non è quel timbro messo sul diplomino che si dà ai genitori quando è nato un bambino ed è stato battezzato. Accogliere la vocazione alla vita è accogliere il Mistero di Dio, è la capacità di accogliere Dio, Lui, il Vivente, Lui che avanza, che visita, che si rivela, che viene, che è poi il tema dominante di questo inizio di Avvento.
La virtù è questa capacità di recepire il segnale riguardante la presenza del Visitatore o comunque la sua intenzione di visitarci. Questa virtù, così com’è, è feconda, promuove la vita, fa crescere la vita degli altri. La fecondità, nei suoi dati empirici, rispettabilissimi, non automaticamente è dono della vita; è un paradosso questo un po’ audace perché un nuovo nato sempre promuove la vita, ma il dato discriminante sta in quella che lui chiama la “virtù”.
Secondo pannello, vv. 3-6. “La discendenza numerosa degli empi(qui abbiamo a che fare col dato opposto: discendenza numerosa, ma empi) non servirà a nulla; (non c’è prospettiva, non c’è respiro, non c’è comunicazione, non c’è crescita, non servirà a nulla) e dalle sue bastarde propaggini non metterà profonde radici né si consoliderà su una base sicura. Anche se per qualche tempo mette gemme sui rami, i suoi germogli precari saranno scossi dal vento e sradicati dalla violenza delle bufere. Si spezzeranno i ramoscelli ancora teneri; il loro frutto sarà inutile, non maturo da mangiare, e a nulla servirà. Infatti i figli nati da unioni illegali attestano la perversità dei genitori nel giudizio di essi”. Qui se la prende non con coloro che hanno generato una prole numerosa; non è per questo che sono colpevoli; lui dice che quel che è determinante per generare, per far vivere, per promuovere la vita è quella famosa “virtù”. E denuncia la fiacchezza, l’inconsistenza, l’inconcludenza strutturale, se si può dir così, della condizione umana quando non è aperta alla relazione con il mistero del Dio vivente. E’ laddove l’iniziativa umana vuole imporsi in modo arrogante e presuntuoso, in modo intransigente con anche una prosopopea esterna, con gesti e scenografie che lì per lì sembrano incantare il mondo; ma quando la condizione umana non è aperta, quel che si produce, si trasmette, che apparentemente è espressione della fecondità benedetta, in realtà moltiplica i dati negativi, moltiplica i danni. Poi, naturalmente, come il Dio vivente opera in questo contesto così inquinato di cui gli uomini sono responsabili, è un discorso che è sempre aperto. Ma intanto, vedete, questa apparente fecondità in realtà moltiplica l’inquinamento. E molto drammatica mi sembra l’ultima osservazione, nel v. 6: “infatti i figli nati da unioni illegali– non per colpa dei figli, non perché i figli illegali non possano essere luogo di transito per eventi che producono chissà quali effetti positivi in un altro luogo, in un altro momento – attestano la perversità dei genitori nel giudizio di essi”. Sta dicendo come quella vita senza virtù – questo è il punto – diventa il luogo dell’amarezza, del rimprovero e la stessa fecondità ricade addosso ai cosiddetti empi come una moltiplicazione di resistenze, opposizioni, rifiuti, rimproveri, che poi è un’esperienza comunissima in tutti quanti noi per cui avviene, in un modo o nell’altro, proprio in coloro a cui noi ci rivolgiamo come coloro che dovrebbero esserci debitori per i doni ricevuti; in realtà ce li troviamo dinanzi come ribelli disgustati che hanno da rimproverarci di essere colpevoli di chissà quale danno nei loro confronti. Succede questo perché la questione non è più da impostare nel rapporto tra fecondità e sterilità (fecondità in positivo e sterilità in negativo, discorso che ben contenuto entro i suoi limiti è legittimo), ma la questione sta nell’alternativa tra la virtù e la negazione di essa. E arriverà il momento in cui anche la ribellione dei figli, l’opposizione feroce dei figli che rimproverano i genitori di chissà quali malefatte, diventerà occasione per scoprire quale superiore fecondità è attivata da Dio nella virtù. Il nostro maestro opera in pochi versetti con una capacità di penetrazione che noi riusciamo a cogliere in modo un po’ superficiale perché bisognerebbe sempre andare più a fondo, perché è come una trivella che scava e tira fuori quel che non appare.
Vera e falsa longevità
Dal v. 7 al v. 20, quarto dittico. Vv. 7-16. Anche qui, dice il nostro maestro, bisogna superare i luoghi comuni e luogo comune è che la morte prematura sia un guaio. Viceversa la vita lunga sia motivo di trionfo e di successo. “Il giusto, anche se muore prematuramente, troverà riposo”; dunque, la morte prematura del giusto. “Vecchiaia veneranda non è la longevità(l’anzianità non si misura in base agli anni), né si calcola dal numero degli anni(lo dice espressamente: l’anzianità è sapienziale, dipende da quell’accoglienza alla vocazione alla vita su cui già ci siamo intesi); ma la canizie per gli uomini sta nella sapienza; e un'età senile è una vita senza macchia”. Dunque, si tratta di prendere sul serio quella vocazione alla vita e si tratta di accogliere nella virtù quel dono ed ecco come la vita si fa immacolata ed è questo candore della vita che manifesta quale sia l’anzianità raggiunta. “Divenuto caro a Dio, fu amato da lui e poiché viveva fra peccatori, fu trasferito. Fu rapito, perché la malizia non ne mutasse i sentimenti o l'inganno non ne traviasse l'animo, poiché il fascino del vizio deturpa anche il bene e il turbine della passione travolge una mente semplice. Giunto in breve alla perfezione, ha compiuto una lunga carriera. La sua anima fu gradita al Signore perciò egli lo tolse in fretta da un ambiente malvagio. I popoli vedono senza comprendere”. (Sono versetti molto conosciuti perché spesso recitati nelle esequie dei defunti). Questa attenzione del Signore nei confronti di colui che è morto prematuramente: è il giusto, l’anziano, nel senso reale e autentico del termine, come il nostro maestro ci spiega; questa approvazione di Dio nei suoi confronti, questo affetto di Dio per lui, questo gradimento che il Signore dimostra nei suoi confronti, una vera e propria paternità di Dio verso quel tale che, stando all’osservazione esterna, è morto prematuramente è incomprensibile e anzi diventa insopportabile sotto lo sguardo di coloro che non vogliono in nessun modo superare il livello superficiale dell’apparenza. “I popoli vedono senza comprendere”, v. 14, mentre lo stesso versetto apre con “La sua anima fu gradita al Signore”. Questa sua vita è gradita al Signore. “I popoli vedono senza comprendere; non riflettono nella mente a questo fatto che la grazia e la misericordia sono per i suoi eletti e la protezione per i suoi santi”. L’opinione pubblica rifiuta di considerare come la paternità di Dio si manifesti nei confronti di quel giusto che è morto prematuramente, nella sua fragilità umana, nella sua semplicità di creatura che non appartiene a se stessa. L’opinione pubblica assume un atteggiamento di rifiuto, un atteggiamento disgustato e protestatario e allora “Il giusto defunto condanna gli empi ancora in vita”; vedete come è proprio questa situazione che, adesso, diventa una provocazione per gli empi che vengono, per così dire, costretti a manifestare il loro disgusto, il loro rifiuto, a esprimere la loro protesta, ed ecco: “Il giusto defunto condanna gli empi ancora in vita; una giovinezza, giunta in breve alla perfezione, condanna la lunga vecchiaia dell'ingiusto”. E’ esattamente quella condanna, a cui gli empi vogliono sottrarsi, che è implicita nella vicenda del giusto morto prematuramente; vogliono sottrarsi alla rivelazione di Dio che nei confronti di quel giusto rivela la sua paternità. Qui c’è uno snodo su cui ci si potrebbe soffermare (ma voglio arrivare rapidamente al cap. 5) che possiamo sintetizzare così: c’è una possibilità di ritorno, di recupero, di conversione per gli empi dal momento in cui accettano la contestazione che ricevono da parte del giusto innocente. Ma finchè gli empi si sottraggono alla contestazione restano intrappolati nella loro visione del mondo quanto mai asfittica, stritolante, in obbedienza a una scelta di morte.
V. 17: “Le folle vedranno la fine del saggio(questo è il secondo pannello del dittico) ma non capiranno ciò che Dio ha deciso a suo riguardo”. Il rifiuto che l’opinione pubblica oppone al giusto laddove è coinvolto in una disgrazia che lo porta fino alla morte; ma è là dove si rivela Dio, la paternità di Dio. Il rifiuto di quel che capita è il rifiuto di accogliere la rivelazione del mistero di Dio, di fare i conti con la paternità di Dio che si rivela; “non capiranno ciò che Dio ha deciso a suo riguardo né in vista di che cosa il Signore l'ha posto al sicuro. Vedranno e disprezzeranno, ma il Signore li deriderà(il sorriso del Signore come nel Salmo 2). Infine diventeranno un cadavere spregevole,
oggetto di scherno fra i morti per sempre.
Dio infatti li precipiterà muti, a capofitto,
e li schianterà dalle fondamenta;
saranno del tutto rovinati,
si troveranno tra dolori
e il loro ricordo perirà”. Qui, nel v. 19, compare un distico che viene citato quasi alla lettera negli Atti degli Apostoli (1-18). Se andate a vedere, così Luca racconta l’evento della morte di Giuda: Giuda suicida, precipitato a capofitto, schiantato dalle fondamenta. E’ interessante constatare che Luca, raccontando i fatti relativi alla passione, morte, risurrezione, ascensione del Signore e tutto quel che ne consegue, dalla prima comunità dei discepoli che è pronta per la prima evangelizzazione, Luca cita il libro della Sapienza. E’ il peccato di Giuda, ma non perché Giuda sia più peccatore di altri o più peccatore di noi: è il peccato dell’empio, è il peccato dell’umanità, la nostra, che rifiuta l’incontro con il Giusto innocente e rifiuta l’incontro con la paternità di Dio che si rivela.
E adesso: “Si presenteranno tremanti al rendiconto dei loro peccati;
le loro iniquità si alzeranno contro di essi
per accusarli”.
Gli empi recitano anche di fronte al loro fallimento
Cap. 5: “Allora il giusto starà con grande fiducia”. Adesso, nel cap. 5, ci troviamo coinvolti in una specie di ambiente giudiziario. Da un lato c’è il giusto, citato al singolare, e in contrapposizione a lui, gli empi. Noi avevamo già ascoltato un discorso degli empi, nel cap. 2, in cui avevano descritto e anche molto elaborato le loro opinioni, convinzioni, propositi, soltanto che adesso gli empi prendono la parola e dichiarano il loro pentimento.
“Allora il giusto starà con grande fiducia
di fronte a quanti lo hanno oppresso
e a quanti han disprezzato le sue sofferenze.
Costoro vedendolo saran presi da terribile spavento,
saran presi da stupore per la sua salvezza inattesa (uno stupore davvero intrattenibile, ingovernabile).
Pentiti, diranno fra di loro,
gemendo nello spirito tormentato”. Ed ecco il discorso degli empi, dal v. 4 al v. 13: è un atto di pentimento, tre strofe. Interessante che gli empi parlino ancora, mentre il giusto tace; tace ancora adesso, anche quando gli empi dichiarano il loro pentimento e parlano assai, in modo assordante, strepitoso, doloroso, scenografico. Anche nello sgomento, anche quando dichiarano di avere sbagliato tutto, di avere sbagliato vita, gli empi fanno spettacolo, mentre il giusto tace.
“Ecco colui che noi una volta abbiamo deriso
e che stolti abbiam preso a bersaglio del nostro scherno;
giudicammo la sua vita una pazzia
e la sua morte disonorevole.
Perché ora è considerato tra i figli di Dio
e condivide la sorte dei santi?”
Noi giudicammo la sua vita una mania, una pazzia e adesso invece è tra i figli di Dio. Ma come mai? Sono sgomenti dinanzi a questo spettacolo che peraltro si impone in maniera inconfutabile.
“Abbiamo dunque deviato dal cammino della verità;”. Sono gli empi che si giudicano da se stessi. Interessante perché non si affidano al giudizio di Dio e in nessun modo prendono sul serio l’incontro con il giusto; non è nemmeno immaginabile che qualcosa di buono possa essere loro donato proprio da quel Giusto che loro hanno rifiutato. E questa è la strettoia dinanzi alla quale gli empi si trovano, dimostrando di essere ancora empi e di esserlo quando si confessano, quando si pentono, quando dichiarano il loro fallimento: sono ancora empi, sono più che mai empi, sono radicalmente empi perché non si affidano al Giusto. “Abbiamo dunque deviato dal cammino della verità;
la luce della giustizia non è brillata per noi,
né mai per noi si è alzato il sole (abbiamo sbagliato vita: è un’affermazione molto seria questa). Ci siamo saziati nelle vie del male e della perdizione;
abbiamo percorso deserti impraticabili,
ma non abbiamo conosciuto la via del Signore(abbiamo percorso strade buie, pensavamo, cercavamo, volevamo raggiungere l’orizzonte luminoso e invece siamo sprofondati in un vicolo cieco all’altro; anche le strade più impervie si sono rivelate per noi strade chiuse dentro uno spazio impraticabile e vediamo solo buio; adesso ce ne rendiamo conto: non abbiamo conosciuto la via del Signore). Che cosa ci ha giovato la nostra superbia(vedete come tecnicamente sono molto lucidi nell’analisi)? Che cosa ci ha portato la ricchezza con la spavalderia?
Tutto questo è passato come ombra (usano delle immagini davvero molto raffinate; il testo è veramente molto curato: gli empi davanti allo spettacolo del loro fallimento; ma ancora, vedete, gli empi recitano)
e come notizia fugace,
come una nave che solca l'onda agitata,
del cui passaggio non si può trovare traccia,
né scia della sua carena sui flutti (immagini che servono a descrivere quella che è stata la loro vita che è passata senza lasciare traccia, un’evanescenza spettacolare); oppure come un uccello che vola per l'aria
e non si trova alcun segno della sua corsa,
poiché l'aria leggera, percossa dal tocco delle penne
e divisa dall'impeto vigoroso,
è attraversata dalle ali in movimento,
ma dopo non si trova segno del suo passaggio” (un frullo d’ali, è passata; dov’è? Nell’aria); “o come quando, scoccata una freccia al bersaglio,
l'aria si divide e ritorna subito su se stessa
e così non si può distinguere il suo tragitto:
così anche noi (ecco la quarta immagine, quella della freccia scagliata contro il bersaglio; ha attraversato l’aria, un sibilo istantaneo e non rimane niente. Gli empi, mentre parlano di queste cose, dimostrano di essere ancora disperatamente aggrappati a se stessi, una disperata compassione di se stessi. E vedete come in nessun modo si rivolgono a quel Giusto che loro hanno rifiutato, che poi sarebbe la stessa cosa che rivolgersi alla paternità di Dio che si è rivelata attraverso la sorte di quel Giusto), “così anche noi, appena nati, siamo già scomparsi, non abbiamo avuto alcun segno di virtù da mostrare;”. Quella famosa “virtù” in noi non ha preso forma. Siamo stati consumati dalla nostra malvagità. E’ vero: si denunciano, si accusano, si condannano da se stessi però, sempre e solo da se stessi, si compiangono. Hanno speso la loro esistenza per consumare se stessi. E’ l’espressione matura del cosiddetto consumismo. “La speranza dell’empio” (è interessante perché si passa dal plurale “empi” al singolare “empio”; fenomeno grammaticale non indifferente perché si passa da quell’entità complessa, articolata, massiccia – la presenza degli empi – alla individuazione dell’empio al singolare, in quanto l’empietà è motivo di isolamento nella condizione umana. L’empietà, anche quando assume una fisionomia monumentale, organizzata, intruppata dentro chissà quale mastodontica consorteria di interessi, motivazioni, linguaggio, propositi, in realtà è sempre riduzione della singola soggettività umana al dramma dell’isolamento più spietato. L’empietà è senza comunione. “La speranza dell'empio (al singolare) è come pula portata dal vento,
come schiuma leggera sospinta dalla tempesta,
come fumo dal vento è dispersa,
si dilegua come il ricordo dell'ospite di un sol giorno”.
Un opposto destino: pienezza di vita e perdizione
“I giusti(notate che nel v. 1 del cap. 5 “il giusto” era al singolare”; il Giusto era singolo, adesso è diventata una moltitudine di “giusti”. E’ lo stesso fenomeno che riscontriamo nel Salmo 1; l’ascolto della Parola che è prerogativa del giusto è fondamento di comunione. In realtà l’alternativa tra giusti ed empi è comunione e solitudine) al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore
e l'Altissimo ha cura di loro (sono i giusti che acquistano dignità regale). Per questo riceveranno una magnifica corona regale,
un bel diadema dalla mano del Signore,
perché li proteggerà con la destra,
con il braccio farà loro da scudo”. E’ esattamente la prospettiva che il nostro maestro vuole suggerirci; è per questo che ci ha invitati, che sta sviluppando il suo discorso, per sostenerci in questa prospettiva che è mirata ad acquisire quel titolo regale proprio della creatura umana in quanto risponde alla propria vocazione alla vita che è il dono di Dio. E’ la regalità della presenza umana, della creatura umana sulla scena del mondo; questo fin dall’inizio, fin dal giardino; regalità della creatura umana anche rispetto agli angeli. “Egli prenderà per armatura (è Dio che interviene qui; lo zelo è la gelosia. Dio avanza in forza di quelle che sono le sue prerogative. E’ la gelosia del suo amore: intransigente, inesauribile, irrevocabile la sua scelta d’amore) “il suo zeloe armerà il creato per castigare i nemici(vedete come l’intero creato è al servizio di Dio, evidentemente, per espellere l’empietà); indosserà la giustizia come corazza
e si metterà come elmo un giudizio infallibile;
prenderà come scudo una santità inespugnabile (è Lui che avanza, il Dio vivente, ed è tutta la creazione, la moltitudine delle creature di Dio, tutte il creato che collabora a questa sua opera di discernimento che è l’opera della salvezza, l’opera di Dio che vuole riportare gli uomini alla pienezza della vita); affilerà la sua collera inesorabile come spada e il mondo combatterà con lui contro gli insensati(mi sembra molto interessante questa convinzione del nostro maestro. Vedete come insiste, come ritorna, sottolinea: tutta la creazione è al servizio di questa rivelazione di Dio, di questa sapienza di Dio che vuole la vita degli uomini. Per questo vuole strappare gli uomini a quello stato di empietà, liberarli da quello stato in cui sono prigionieri della morte. Per colpa loro, naturalmente, se non gliel’avesse consigliato quell’angelo invidioso).
Scoccheranno gli infallibili dardi dei fulmini,
e come da un arco ben teso,
dalle nubi, colpiranno il bersaglio;
dalla fionda saranno scagliati
chicchi di grandine colmi di sdegno.
Infurierà contro di loro l'acqua del mare
e i fiumi li sommergeranno senza pietà(vedete, Dio è all’attacco; è un guerriero e non c’è da spaventarsi per un’immagine del genere; è la sua opera redentiva di liberazione per sottrarre gli uomini all’empietà, per rieducarli nell’accoglienza della vocazione alla vita. Per questo il maestro ci ha invitati: ascoltate, adesso vi parlo di questa sapienza di Dio).
Si scatenerà contro di loro un vento impetuoso,
li disperderà come un uragano.
L'iniquità renderà deserta tutta la terra
e la malvagità rovescerà i troni dei potenti.
Ascoltate, o re…”. Qui adesso ci fermiamo; comincia la seconda parte del discorso, quella centrale, in questo contesto di una grande bufera, una specie di diluvio, un contesto anche di disordine che segna la scena del mondo e dove si svolge la storia umana; i troni dei potenti sono rovesciati. E’ la sapienza di Dio che avanza, è Lui che si rivela, che persegue indefettibilmente i suoi obiettivi, la volontà di vita. “Ascoltate, o re”, cercate di comprendere.