L’associazione “San Pancrazio” è stata formalmente costituita nel Gennaio 1993 ed ha sede in via Sartorio Clausi n. 9.
Essa nasce come naturale sviluppo dell’attività portata avanti, a partire dal 1989, da un gruppo di volontari all’interno di alcuni quartieri del Centro Storico di Cosenza.
L'associazione ha come scopo quello di porre in essere occasioni concrete di solidarietà per cercare di superare situazioni di emarginazione e di prevenire l'insorgere di qualunque forma di devianza.
Essa opera nei seguenti campi:
- dispersione scolastica;
- animazione di strada, di quartiere e sportiva;
- accoglienza animazione e integrazione disabili ;
- accoglienza di persone in difficoltà e senza fissa dimora.
Gli obiettivi che essa si pone sono:
- rimuovere i problemi di integrazione scolastica che provocano elevatissime percentuali di selezione, di abbandono e non completamento dell'obbligo attraverso un rapporto sistematico con i ragazzi e le loro famiglie;
- offrire opportunità di partecipazione e di relazione nei quartieri e alternative aggregative e formative a chi vive prevalentemente sulla strada;
- cercare di sollecitare le capacità di autodeterminazione possibile dei ragazzi disabili attraverso l'accoglienza, la relazionalità, la riabilitazione, l'integrazione in semplici attività di lavoro che abbiano valore sociale;
- accogliere chi vive situazioni di disagio per aiutarlo a trovare la propria vocazione e per sorreggerlo nelle scelte conseguenti.
Premessa
Tra le diverse forme di impegno sociale, il lavoro di strada è forse quella più difficile da definire. Si tratta, infatti, di un modo di intervenire sul territorio a cui si fa ricorso per le finalità più diverse.
Ci sono, ad esempio, le unità di lavoro di strada che si occupano in particolare di tossicodipendenza, e che operano nel quadro delle politiche di prevenzione e di “riduzione del danno”.
E ci sono operatori presenti sulla strada per raggiungere altre categorie di persone emarginate, come le ragazze prostituite e i senza-casa.
Nelle ipotesi considerate, ed in altre ancora, il lavoro di strada si configura come un servizio sociale vero e proprio, dai contenuti predefiniti, e che prevede l’utilizzo di figure professionali competenti, accanto agli operatori volontari.
Il nostro obiettivo è quello di mettere in luce un’altra modalità possibile di lavoro di strada, quella cioè che si esprime come esperienza di radicamento nei contesti di periferia. Il lavoro di strada così inteso ha una sua fisionomia originale, che si precisa in relazione alle caratteristiche particolari degli ambienti in cui si opera, e man mano che si aderisce alle realtà concrete, così come esse si presentano. In altre parole, il contenuto di questo tipo di impegno è dato dalla qualità delle relazioni che quanti operano sulla strada intrecciano con le persone che incontrano e tra loro. La prospettiva che orienta tale particolare modalità di presenza sul territorio è il cambiamento sociale, inteso come accoglienza, accompagnamento e promozione di chi vive condizioni di marginalità, e come tentativo di prevenire o di arginare i processi che quelle condizioni generano.
In quegli ambienti, infatti, appare più evidente che le forme di povertà si vanno sempre più scomponendo e moltiplicando. I tentativi più convincenti di lettura e di interpretazione della marginalità sociale ci dicono che alla radice delle diverse forme di povertà, vecchie e nuove, v’è quasi sempre una situazione di crisi delle relazioni di comunità, delle appartenenze primarie. Una crisi, cioè, dei legami personali che più coinvolgono e orientano i sentimenti, gli affetti, l’esistenza intera. Le persone e le realtà organizzate che si impegnano nel lavoro sociale e che più in profondità si radicano nel territorio, soprattutto nelle realtà deboli e periferiche, sono quelle che meglio intercettano questo bisogno di comunità, di accompagnamento, di orientamento, di relazioni, cioè, che restituiscano fiducia e donino senso alla vita.
Per tale ragione, gli interventi orientati a ricostruire o a rafforzare il tessuto di relazioni significative ci sembra che raggiungano proprio il cuore delle vecchie e nuove povertà, ed appaiono perciò come la modalità di partecipazione alla vita della polis di cui oggi c’è grande bisogno nelle periferie delle nostre città.
La riflessione parte da un'esperienza concreta di lavoro sociale sulla strada. Si tratta dell’impegno di un'associazione di volontariato, l’associazione San Pancrazio, che opera dal 1989 nei quartieri del centro storico di Cosenza. Il lavoro sul territorio, in un contesto di periferia, ha permesso a questa associazione di rendersi conto delle diverse forme, vecchie e nuove, in cui il disagio sociale si può manifestare all’interno di un territorio determinato.
1. Il lavoro di prevenzione alla dispersione scolastica. La fase iniziale di conoscenza.
L'obiettivo messo a fuoco dall’associazione sin dall'inizio è stato quello di organizzare un tentativo di resistenza al fenomeno della dispersione scolastica.
C'era il desiderio di mettere radici in un contesto periferico della città (il centro storico, appunto) cominciando a lavorare insieme a coloro che sembravano più esposti al rischio della marginalità e della devianza (i bambini e i ragazzi).
C'era anche la volontà di lavorare sul terreno della prevenzione del disagio sociale, evitando gli interventi assistenzialistici o puramente riparatori.
In quegli anni, inoltre, circolavano i dati di una ricerca sui ragazzi calabresi autori di reati. La ricerca, promossa dall'Osservatorio Meridionale e realizzata con il coinvolgimento di alcuni docenti dell'Unical, mostrava che un'altissima percentuale dei minori finiti nei circuiti della giustizia penale non aveva completato la scuola dell'obbligo. Ciò che accomunava i ragazzi non era tanto la mancanza di lavoro (molti lavoravano, anche se in nero) quanto il fatto di non aver adempiuto l'obbligo scolastico.
Si è progettato così di eseguire una ricerca su tutte le scuole elementari e medie del centro storico, allo scopo di misurare la consistenza della dispersione scolastica in quell'area della città, e di acquisire altre informazioni utili. La ricerca, portata avanti per alcune settimane, è stata condotta considerando tre variabili: le situazioni di abbandono, le ripetenze, i modi di frequenza (il censimento ha riguardato quanti avevano accumulato più di trenta giorni di assenza durante tutto l'anno scolastico). Si è considerata cioè dispersione non solo l'abbandono formale ma anche i percorsi scolastici "accidentati", quelli che possono essere assunti come altrettanti indicatori di situazioni di disagio o di marginalità scolastica. Poiché tali situazioni spesso costituiscono le premesse dell'abbandono vero e proprio, era importantissimo tenerle presenti per avviare un lavoro di prevenzione della dispersione.
L’analisi dei dati raccolti mostrava che la metà circa dei minori nella età dell'obbligo viveva in condizioni di forte disagio a scuola. In alcuni quartieri tale percentuale era di molto superiore.
Successivamente i volontari hanno preso i primi contatti con i ragazzi (censiti attraverso la ricerca) e con le loro famiglie. È risultata decisiva, in questa fase, la collaborazione dell’associazione con la parrocchia, cioè con l’unica realtà presente e radicata nel territorio. Senza la mediazione iniziale di uno dei parroci del centro storico, il lavoro dei volontari non sarebbe mai potuto iniziare, perché sarebbe stato praticamente impossibile per loro entrare nelle case dei ragazzi, interagire con le famiglie e formulare qualsiasi tipo di proposta.
Provo ora a mettere in fila alcune tra le questioni messe a fuoco dai volontari in occasione di questi primissimi contatti con le realtà familiari.
a. Si è constatato che esiste un legame stretto tra disagio scolastico e disagio familiare. Le famiglie incontrate erano quasi tutte indebolite da situazioni di evidente precarietà strutturale, o colpite da forme di vero e proprio degrado. Le interlocutrici dei volontari sono state soprattutto le madri dei ragazzi (e sarà così anche negli anni a seguire…); i padri sono figure abbastanza evanescenti: vivono poco in casa, quando non sono in carcere o separati, e quando vi abitano non rappresentano per i figli un punto di riferimento sul piano educativo. Si è intuito che il problema di quelle famiglie non è fondamentalmente di natura economica, al contrario di quanto si poteva immaginare. Le condizioni abitative erano e sono scarse, però si coglievano i segni di un livello di consumi e di un tenore di vita complessivo che andava abbondantemente oltre l'essenziale.
b. Conversando con le famiglie dei ragazzi, e in particolare con le madri, per i motivi di cui si è detto, i volontari hanno notato che il loro atteggiamento nei confronti della scuola non era sereno. Era un atteggiamento fatto di sfiducia e di resistenza. La scuola veniva percepita come una istituzione distante e, soprattutto, inutile. A che serve mandare i figli a scuola, spendere i soldi per farli studiare se poi è comunque difficile trovare un lavoro? Era questa l'obiezione che veniva mossa più di frequente a coloro che si rivolgevano alle famiglie dei ragazzi in odore di abbandono per incoraggiarle a mandarli a scuola. Spesso accadeva che la sfiducia scivolasse verso forme di vera e propria resistenza, tutte le volte in cui i genitori non solo non incoraggiavano, ma addirittura più o meno apertamente puntavano a dissuadere i figli dal continuare il percorso scolastico, orientandoli anzitempo verso il lavoro.
c. Altri importanti elementi vengono colti quando i volontari hanno cominciato a girare casa per casa insieme ad una assistente sociale che si era offerta di aiutarli. Questa operatrice aveva un approccio molto professionale con le persone che di volta in volta venivano incontrate. Si intuiva però che proprio questo fosse il suo limite. Essa entrava nelle case e, mentre osservava con attenzione gli ambienti domestici, formulava tante domande, una dietro l'altra. E ascoltava poco. Dopo ogni visita rifletteva insieme ai volontari su quello che avevano visto e ascoltato, e puntualmente arrivava alla stessa conclusione: bisognava allontanare il bambino da casa sua. Il suo ragionamento era semplice, schematico: c'è un bambino che vive una condizione di forte disagio personale, di cui la scarsa integrazione scolastica costituisce una spia; il contesto familiare è problematico e non appare in grado di aiutare il bambino a superare le sue difficoltà; le condizioni abitative sono per giunta precarie; la soluzione migliore è allora quella di allontanare il bambino dalla sua famiglia. All’assistente sociale sfuggivano però due importanti aspetti della questione: i bambini e i ragazzi incontrati sembravano tutti legati alle rispettive famiglie con un affetto viscerale, anche nelle situazioni più difficili. Il rimedio consistente nella rottura, sia pure temporanea, di questo legame, sembrava peggiore del male. L'altro aspetto della faccenda era che se l’associazione avesse ragionato così per tutti i bambini e i ragazzi avrebbe dovuto promuoverne la "deportazione" in blocco. I volontari decisero perciò di continuare questo giro tra le famiglie da soli. Essi ritengono che questo passaggio sia stato di grande importanza. Hanno imparato che nelle situazioni di disagio sociale si possono percorrere due vie: quella del pregiudizio che paralizza o quella del radicamento. L'una è alternativa all'altra. Il pregiudizio paralizzante è quello dall'assistente sociale di cui si è detto. Al pari di lei, ognuno sta nelle situazioni, analizza i fatti e cerca di spiegarseli alla luce di quadri interpretativi precostituiti, che sono i criteri alla luce dei quali vive e guarda il mondo. L’effetto paralizzante si produce quando quei criteri interpretativi si cristallizzano in forme rigide che impediscono l’incontro e la comunicazione con gli altri e che, di conseguenza, bloccano ogni possibilità di avviare una relazione di aiuto. L'altra via possibile, esattamente speculare alla prima, è quella del radicamento, che si fonda sull'ascolto. Radicarsi vuol dire stare e ascoltare, aderendo profondamente e cordialmente ai fatti concreti, alle situazioni che la gente vive. Vuol dire non aver fretta di capire tutto subito e di intervenire per modificare le situazioni in base a quanto si ritiene giusto o sbagliato. Vuol dire provare a rendersi conto dei problemi sociali e delle cause che li provocano scegliendo un angolo di visuale particolare, che è la prospettiva dal basso, cioè il punto di vista di chi vive la sofferenza sulla propria pelle. La prima via, quella del pregiudizio paralizzante, ha spesso come esito la denuncia, che (determina un oggettiva distanza e) generalmente, una volta che si sia resa esplicita, rende impraticabile qualsiasi possibilità di condivisione. La via del radicamento si esprime nella fatica di costruire lentamente relazioni, abitando la periferia, vivendola il più possibile dal di dentro.
Non è da escludere la possibilità che l’azione di radicamento così intesa favorisca, o determini direttamente, la nascita di servizi sociali per le persone insieme alle quali si lavora. La tessitura quotidiana, paziente, silenziosa di relazioni di vicinanza e accompagnamento rappresenta il cuore del cosiddetto “agire di comunità”. Questa dimensione relazionale può rimanere ad un livello più o meno spontaneo ed informale, oppure può sfociare, come si diceva, nella organizzazione di veri e propri servizi alle persone. Quel che importa sottolineare è che nelle esperienze di radicamento sulla strada l’aspetto relazionale-comunitario e quello del servizio, quando sono presenti entrambi, non possono essere scissi: essi sono tratti di un unico percorso. Dei due elementi, però, il primo, quello relazionale-comunitario, rimane fondamentale, in quanto definisce la forma ed il contenuto del secondo.
Si è fatto cenno prima all'importanza della collaborazione dell’associazione con le comunità parrocchiali, cioè con l'unica realtà radicata nel territorio. Il tema del collegamento ha un'importanza centrale. Nella esperienza che stiamo ricostruendo sono stati fatti e si continuano a fare molti tentativi per cercare di lavorare collegati con altri gruppi della città, della regione, di altre regioni, con le istituzioni. Ci sarebbe molto da raccontare. Per il momento ci limitiamo a formulare la seguente affermazione: per lavorare in periferia con l'intenzione di radicarsi non ci si può muovere da soli. Bisogna imparare a cercare il collegamento con altre realtà e, nello stesso tempo, aprirsi a tutti gli apporti necessari favorendo le più ampie solidarietà possibili.
2. L'avvio dell'esperienza.
La prima fase di raccolta di dati e informazioni sulla dispersione scolastica e, in seguito, dei primi approcci con i bambini e i ragazzi interessati dal problema e con le loro famiglie si è chiuso con la decisione di provare in qualche modo ad intervenire. L’associazione ha pensato così di organizzare un doposcuola presso i locali della parrocchia disponibile e di invitare i ragazzi che aveva incontrato in precedenza. Per avviare l’iniziativa i volontari si sono rivolti inizialmente ad un gruppo di amici insegnanti, una ventina circa, e insieme a loro, e ad altri amici che si erano offerti di collaborare, hanno fatto una serie di riunioni organizzative, per spiegare il senso della loro iniziativa e per sondare il tipo di disponibilità di ognuno di essi. I volontari erano convinti, in base ad un ragionamento semplice, che in questa fase di avvio il contributo degli insegnanti contattati poteva essere determinante, dovendo appunto affrontare situazioni di marginalità scolastica.
In seguito, è stato invitato un certo numero di bambini e ragazzi, per spiegare loro quanto si stava cercando di organizzare.
Tutto ciò che è accaduto nel corso delle prime settimane di sperimentazione ha assunto una importanza notevole per gli sviluppi successivi dell’iniziativa. Passando attraverso un evidente insuccesso, i volontari hanno ricevuto altri due fondamentali insegnamenti. Il primo: hanno scoperto che i profili di competenza nel lavoro sociale hanno un'importanza relativa, a volte decisiva, ma non assoluta. Il secondo: hanno preso coscienza di un'altra importante dimensione del radicamento sociale (accanto a quella dell'ascolto, nel senso che prima si diceva), la dimensione della presa a carico come modalità di presenza e di intervento.
Il gruppo dei bambini e dei ragazzi conosciuti veniva accolto tutti i pomeriggi nei locali messi a disposizione da uno dei parroci della zona. Si è registrata all'inizio una partecipazione massiccia. Gli insegnanti coinvolti, che rappresentavano il grosso del gruppo dei volontari, tenevano fede all'impegno preso con buona sistematicità. Nel corso delle settimane successive è accaduto però che il numero dei ragazzi è pian piano diminuito. All'inizio non si è data molta importanza a questo fatto. Si pensava che un calo fosse fisiologico. Si è ritenuto perciò che fosse importante continuare secondo i programmi iniziali, puntando innanzitutto ad offrire una testimonianza di fedeltà all'impegno preso. In seguito, i volontari si sono resi conto che il lavoro andava completamente ripensato. Si sono accorti che bisognava mettere in discussione proprio quanto si era dato per scontato: la presenza degli insegnanti. Era successo che questi ultimi, senza volerlo, avevano stabilito un tipo di interazione che riproduceva dinamiche identiche a quelle che i ragazzi vivevano la mattina nelle rispettive classi e che a loro creavano tanti problemi. Presentandosi ogni pomeriggio presso il punto di accoglienza con l'obiettivo esplicito, dichiarato, di fare studiare i ragazzi, i volontari insegnanti tendevano a stabilire modalità di comunicazione eccessivamente formali. Questa cosa si è chiarita ancora meglio quando si sono accostati all’associazione dei giovani scouts, chiedendo di poter condividere l’esperienza. L'intervento di questi giovani, insieme a quello di un obiettore di coscienza in servizio civile, si è tradotto in un contributo di enorme importanza. La loro presenza è servita a migliorare soprattutto il piano delle relazioni con i bambini e i ragazzi insieme ai quali si voleva lavorare. Si è passati da relazioni più formali a modalità di interazione più spontanee ed amichevoli; invece di aspettarli di pomeriggio presso la sede del doposcuola, li si raggiungeva là ove essi vivevano abitualmente, sulla strada, e si cercava di stare insieme a loro il più possibile. Il lavoro di radicamento sociale nel territorio è cominciato veramente quando è maturata la consapevolezza che non si trattava tanto di mettere in piedi un doposcuola efficiente, collocando le competenze giuste al posto giusto, ma di cominciare a guardare i bambini e i ragazzi in un altro modo, come se fossero fratelli più piccoli di cui bisognava in qualche modo assumere la responsabilità.
3. La scoperta della centralità della relazione.
La questione prioritaria non era quella di affinare tecniche di intervento sofisticate - le quali spesso servono solo ad occultare la mancanza di radicamento nel territorio e di progetto - ma quella di vivere il più possibile con i bambini e i ragazzi incontrati. Ed è così che nel corso dei primi due anni questa iniziativa di presenza sociale in alcuni quartieri si va sempre più caratterizzando come lavoro di strada.
Si sta sulla strada per raggiungere i bambini là ove essi vivono, in modo tale da stabilire con essi relazioni di amicizia e di fiducia. È per questa via che la presenza dei volontari nei quartieri è diventata, nel giro di alcuni mesi, una presenza riconoscibile, familiare.
Nello stesso tempo, l’associazione non rinuncia all'obiettivo dell'accompagnamento scolastico. Il lavoro di strada ha sempre ruotato, ed è così ancora oggi, attorno all'attività pomeridiana di doposcuola. I due percorsi, quello della tessitura di relazioni personali forti sulla strada e quello dell'accompagnamento scolastico, sono intrecciati fra loro sin dall'inizio. È la relazione personale di amicizia che rende possibile l'avvio di un percorso educativo e di accompagnamento.
Sono all'inizio bambini e ragazzi lasciati liberi di vivere per strada senza controllo. Trascorrono in casa pochissimo tempo. Hanno enormi difficoltà a vivere una dimensione di gruppo, anche piccolo. Un gruppo, sia pure informale, funziona se c'è la condivisione di regole anche minime. I ragazzi con cui i volontari operano non sono abituati a relazionarsi tra loro e con altri in questo modo. Vivendo per strada hanno sviluppato linguaggi, comportamenti, modi di stare assieme che non sono facilmente compatibili con le esigenze e le dinamiche di un gruppo.
Il lavoro pomeridiano si è presentato perciò sin dall'inizio molto difficile. Si avvertiva l'esigenza di dare qualità alla trama delle relazioni che si andavano stringendo, ovvero di orientare i legami di amicizia incanalandoli in un percorso di accompagnamento. Si trattava di chiedere ai bambini e ai ragazzi di faticare, proprio a loro che tutte le volte in cui erano sollecitati ad un impegno sistematico ponevano in atto una resistenza attiva e tetragona alla fatica.
Pertanto i volontari hanno rinunciato presto all'idea di farli lavorare in gruppo. L'unico modo per guadagnare un po’ di attenzione prolungata e di impegnarli era quello di prendere ognuno di essi dentro una relazione uno-ad-uno. Riuscivano a lavorare nella misura in cui l'attenzione dell'adulto era tutta per loro. Si sono intuiti anche i limiti di questo tipo di interazione. Ci si è resi conto che questo modo di procedere poteva e può innescare circuiti di dipendenza dall'adulto di riferimento. D'altronde è evidente che sono durissimi i blocchi interiori e gli impedimenti che alimentano quell'atteggiamento di resistenza alla fatica di cui si diceva. I bambini e i ragazzi con cui i volontari dell’associazione vivono sono non scolarizzati, non abituati allo studio quotidiano, senza fiducia nelle proprie possibilità. In molti casi, è la vergogna a farli resistere ad ogni proposta di impegno e a farli reagire anche aggressivamente. Nella scuola essi sono qualificati come portatori di uno svantaggio socio-culturale. Il loro disagio non è riconducibile a nessuna forma di handicap. D'altra parte, osservati nel loro ambiente, si è constatato che gli stessi ragazzi mostrano abilità pratiche e capacità intellettive decisamente fuori dalla norma, mentre sono assolutamente sguarniti rispetto a tutto ciò che è necessario fare per integrarsi nelle rispettive classi. Sono assolutamente carenti cioè rispetto alle condizioni minime per fare scuola al pari degli altri: non sanno leggere e scrivere. Non avendo mai esercitato queste attitudini, hanno accumulato enormi ritardi, di tipo appunto socio-culturale, legati cioè all'ambiente familiare e sociale di provenienza.
Nel quartiere più problematico, che è anche quello in cui si è lavorato di più, è ormai definitivamente passata l'idea per cui la scuola esige un impegno quotidiano di fatica personale: è questo probabilmente il risultato più significativo che l’associazione ha raggiunto.
Molto importante è stata l'interazione continua con le famiglie, che si sono fidate dei volontari, ai quali hanno affidato i propri figli.
4. La collaborazione con le scuole.
Il lavoro di strada con bambini e ragazzi non è, dunque, autocentrato. Al contrario, esso prende significato sociale nella misura in cui si sviluppa nel quadro di una rete - la più ampia possibile - di persone e di realtà organizzate che si incontrano per lavorare insieme, avendo come obiettivo prioritario l'accoglienza e la promozione di chi è più debole. Ne deriva che la collaborazione con le famiglie dei ragazzi e con le altre realtà presenti nel territorio (la parrocchia, altri gruppi, la scuola…) è parte essenziale dell'impegno di radicamento sulla strada.
a) Nell'esperienza di cui ci stiamo occupando, l'occasione per un primo contatto con le scuole del centro storico è stata offerta dalla ricerca sulla dispersione scolastica di cui si è detto sopra. I contatti successivi sono avvenuti per via dell'accompagnamento quotidiano a scuola di alcuni bambini, che altrimenti non avrebbero frequentato. E, soprattutto, per l'esigenza, avvertita sin dall'inizio dell'esperienza, di provare a coordinare il lavoro pomeridiano nei quartieri con il lavoro fatto dai ragazzi di mattina nelle rispettive classi. Ci si rendeva conto del fatto che per intervenire con maggiore incisività sulle difficoltà scolastiche dei ragazzi non bastava più la sola dimensione relazionale: bisognava individuare con chiarezza, ragazzo per ragazzo, le difficoltà che bloccano i meccanismi dell’apprendimento e della comunicazione, e che si pongono come ostacolo alla piena integrazione scolastica. Diventava perciò necessario confrontarsi con più sistematicità con i docenti dei ragazzi.
I volontari hanno cominciato così a conoscere alcuni insegnanti e sono stati invitati a partecipare ai consigli di classe: questo intervento ha permesso loro di fornire agli insegnanti elementi utili per la comprensione della situazione dei ragazzi; ed ha consentito ai docenti di avere degli interlocutori attendibili rispetto ad alcune tra le situazioni più difficili. Conversando con gli insegnanti, in occasione di questi primi incontri, i volontari coinvolti hanno constatato che nessuno di essi aveva informazioni sufficienti sui contesti familiari e sociali di provenienza dei ragazzi di cui si discorreva. Scarsa era la conoscenza dei quartieri e dei problemi che vive la gente che vi abita. In forza di questo primo impatto, la scuola è apparsa abbastanza sradicata dal contesto sociale in cui si trova e presta il suo servizio. L’aspetto positivo di questa fase è che gli insegnanti contattati hanno trovato tutti di estremo interesse gli incontri con i volontari. Nei loro racconti, questi ultimi non sono entrati mai nel merito delle situazioni familiari dei singoli ragazzi, per ovvie ragioni di rispetto nei loro confronti e anche per evitare di suscitare curiosità solo superficiali, ma hanno presentato questioni di carattere generale, riguardanti i quartieri e le famiglie nel loro insieme, cercando di mostrare come in quegli ambienti si era andata stratificando una subcultura che poneva impedimenti oggettivi alla crescita del livello di scolarizzazione.
Il risultato di questo primo tentativo di confronto è stato che tutti gli insegnanti hanno cominciato a guardare i ragazzi in modo diverso, con occhio più benevolo e comprensivo. Nelle scuole con le quali si è collaborato è così diminuita notevolmente la percentuale dei bocciati.
Restavano però importanti questioni irrisolte:
- pochi ragazzi continuavano a studiare dopo la licenza media, e quei pochi si ritiravano (quasi tutti) prima della fine del primo anno di scuola superiore;
- questa prima fase di collaborazione non aveva prodotto cambiamenti visibili sul piano dell'organizzazione complessiva delle scuole con cui i volontari avevano collaborato; rimanevano, e restano ancora, sfasature preoccupanti.
A un certo punto è diventato chiaro che bisognava cominciare a lavorare sulla qualità dell'integrazione scolastica dei ragazzi seguiti. Non era più sufficiente che conseguissero la licenza media: bisognava insegnare loro a leggere e scrivere.
b) Tale consapevolezza ha fatto sì che maturassero, circa otto anni fa, le condizioni per la costituzione di un gruppo di lavoro, formato da volontari dell'associazione stessa e da insegnanti di una delle scuole medie del centro storico. L’obiettivo del gruppo è stato sin dall’inizio quello di avviare un confronto sui problemi che pone la comunicazione con i ragazzi che vivono nella scuola condizioni di marginalità; e, inoltre, quello di sperimentare e verificare iniziative che favorissero la migliore integrazione possibile di ognuno di loro. Si voleva provare a costruire per ognuno di essi un progetto di accompagnamento mirato.
Si è capito subito che il blocco da affrontare e rimuovere era rappresentato da una sorta di "resistenza attiva" all'apprendimento.
Si tratta di una situazione diversa da quella con cui, qualche decennio fa, si misurarono figure come don Lorenzo Milani, Danilo Dolci, Mario Lodi e tutti coloro che hanno riflettuto e sperimentato in maniera seria sui problemi del disagio scolastico. Nei quartieri di periferia, infatti, la marginalità scolastica non è solo la conseguenza di situazioni di povertà economica. Né il problema è quello di “dare la parola” a persone timide, che sanno usare solo pochi vocaboli, e che non sono perciò in grado di comunicare il proprio vissuto, ma che si mostrano comunque disponibili al dialogo e, soprattutto, a faticare insieme. Negli ambienti della marginalità non occorre tanto un lavoro "maieutico", che metta i bambini e i ragazzi in condizione di tirar fuori e comunicare quello che hanno dentro. Interventi di questo tipo, infatti, già presuppongono una disponibilità di fondo alla comunicazione. Disponibilità che negli ambienti suddetti, nella maggior parte dei casi, manca.
Occorreva innanzitutto fare i conti con quella "resistenza attiva" di cui si è detto, e che si manifesta nei modi più diversi.
Per circa cinque anni, alcuni volontari dell’associazione hanno vissuto insieme agli insegnanti che si sono coinvolti nel lavoro di gruppo una interessante esperienza di resistenza al fenomeno della dispersione scolastica.
Il gruppo di lavoro è nato durante l'anno scolastico 94/95 come gruppo informale che già negli anni precedenti, come abbiamo visto, aveva avviato un’esperienza di confronto sulle forme della marginalità scolastica, con l'aiuto di docenti del dipartimento di sociologia dell'Unical. Nell’anno scolastico 95/96 il gruppo ha ottenuto l’approvazione dal Provveditorato agli Studi di Cosenza.
Nella fase iniziale di questa ricerca comune, il gruppo ha posto in evidenza una serie di questioni:
- quasi tutti i ragazzi di quella scuola che avevano abbandonato la scuola anzitempo finivano nei circuiti del lavoro nero;
- l’insuccesso scolastico non era rappresentato solo dalla selezione ma anche dal passaggio dei ragazzi da una classe a quella successiva senza l’acquisizione da parte loro di strumentalità e conoscenze sufficienti a rendere possibile una integrazione piena e il proseguimento degli studi;
- l’ansia di apparire, di essere visibili anche in assenza di contenuti, di uscire dall’isolamento e dal senso di inadeguatezza, spingeva spesso i ragazzi ad assumere atteggiamenti di aggressività e di disturbo;
- altri studenti, invece, si assuefacevano alla loro condizione di marginalità, assumendo in classe atteggiamenti estremamente passivi, e i docenti, spesso, non erano coscienti dell’estrema difficoltà in cui si trovavano alcuni ragazzi, costretti a stare dietro un banco, giorno dopo giorno, estranei a gran parte delle attività;
- si notava come in molti casi il disagio scolastico nasceva dall’esperienza (frustrante e fonte di vergogna) dello scarto tra il comprendere e il non possedere la capacità verbale adeguata per dimostrare di aver compreso;
- la quasi totale assenza di una strategia condivisa per il recupero degli alunni difficili si giustificava spesso, da parte degli insegnanti, con l’esigenza di non mettere a repentaglio il percorso dei loro compagni di classe.
Nella fase successiva del lavoro, è stato individuato un certo numero di studenti, tutti seguiti di pomeriggio dai volontari, e si è cercato di individuare i fattori che ne condizionavano l’integrazione e l’apprendimento. Riflettendo insieme sulla situazione – e sulle difficoltà – di ognuno dei ragazzi individuati, i componenti del gruppo si sono resi conto che i motivi che determinavano la loro marginalità scolastica erano di diverso genere.
Accanto a motivi di carattere sociale o psicologico, di cui hanno potuto solo percepire l’esistenza, ma che non erano in grado di analizzare in profondità, essi hanno colto motivi di carattere cognitivo ed educativo che la scuola non poteva ignorare. Alcuni di questi problemi apparivano insormontabili, se si teneva conto del funzionamento ordinario della scuola, come per esempio il numero eccessivo di alunni per classe, il numero eccessivo di classi per docente, classi che venivano formate senza tenere conto dell’età degli alunni ma solo del loro livello di apprendimento.
Quello che certamente si poteva fare era ragionare insieme, all’interno del gruppo di lavoro, sulle difficoltà scolastiche di ognuno dei ragazzi di cui ci si voleva occupare.
Per riflettere sulla situazione di ognuno il gruppo si è servito di una scheda che ha utilizzato per la rilevazione di informazioni che sembrava utile registrare per l’analisi delle diverse tipologie di insuccesso, e per tentare di avviare la costruzione di processi mirati ed interventi specifici di recupero e integrazione scolastica. In base alle informazioni raccolte, ci si è accorti che:
- la maggior parte dei ragazzi presi in esame dimostrava buone capacità nell’area logico-matematica;
- la scuola non riusciva a porsi come gruppo coeso, in grado di incidere positivamente sul processo di apprendimento, ma ogni docente adottava istintivamente un suo modo di rapportarsi al problema;
- era evidente la difficoltà, da parte degli insegnanti, di individuare strumenti operativi da utilizzare concretamente per intervenire sui processi di comunicazione con i ragazzi più in difficoltà;
- erano inutili le misure disciplinari, come le sospensioni, i richiami del Preside, la convocazione dei genitori, se non c’era condivisione piena (e, soprattutto, comportamenti omogenei) da parte di tutti i componenti il mondo della scuola; tali misure riuscivano solo ad accelerare la fuga dalla scuola dei ragazzi più difficili.
In base a questi elementi si è cercato di avviare la costruzione di un percorso educativo e di recupero che tenesse conto, valorizzandoli, di tutti i supporti umani e materiali della scuola e del territorio.
Non è possibile, ora, elencare tutte le esperienze effettuate. Può essere però utile ricostruire i percorsi di alcuni dei ragazzi seguiti in quegli anni dentro e fuori la scuola, ognuno dei quali manifestava difficoltà di integrazione scolastica che rientrano in una tipologia abbastanza diffusa. Le tre storie che seguono sono tratte dalla relazione finale che il gruppo stese alla fine dell’anno scolastico 95-96.
La storia di Gianni (prima media).
Gianni è arrivato in prima media non scolarizzato. Nell’area del comportamento si evidenziava una incapacità ad instaurare rapporti tra pari età, in quanto assumeva atteggiamenti aggressivi ed improntati al ricatto ed alla violenza (arrivava a far picchiare i suoi compagni all'uscita della scuola da compagni più grandi), e non riconosceva il ruolo dei docenti con cui si rapportava in maniera provocatoria, impedendo il normale svolgimento delle lezioni. Con la sola docente di matematica, dal carattere forte ed aggressivo, riusciva a calmarsi e a collaborare, anche perché, per i lavoretti che faceva per gli ambulanti della zona, era molto bravo a far di conto. Nel resto dell’area cognitiva, ovviamente, le conoscenze erano veramente poche e non valorizzate, non si riusciva in classe a fargli svolgere alcun compito e l’espressione verbale era sempre e solo in dialetto. Si rifiutava di leggere. Il consiglio di classe, dopo le continue lamentele dei genitori dei compagni, che si sono riuniti in assemblea per chiedere la sua espulsione, e dopo aver tentato di attuare tutte le strategie di recupero (insegnamento individualizzato, creazione di un rapporto affettivo, inserimento in un gruppo di lavoro, ricerca di tematiche a lui più congeniali, richiami in presidenza, brevi sospensioni, convocazioni dei genitori, attività di gioco), nel secondo quadrimestre ha deciso di attuare, con l’approvazione della Preside un tentativo di inserimento attraverso la presenza in classe di un volontario in ogni ora di lezione, ad eccezione dell’ora di matematica. L’alunno, con la presenza del volontario, si è mostrato non solo disciplinato, ma ha incominciato a collaborare, a lavorare e ad intervenire prontamente, dimostrando di avere la capacità capire e di orientarsi nelle varie discipline. Il successo dell’iniziativa aveva spinto il consiglio di classe a porsi il problema di passare dal tutor come supporto sia affettivo che cognitivo all’autonomia operativa e alla presa di coscienza della necessità di autocontrollo e interiorizzazione delle regole di gruppo. Prima operazione è stata quella dell’allontanamento del tutor nell’ora di Inglese. L’alunno ha continuato a lavorare, per cui era riuscito ad assimilare qualche vocabolo isolato e a memorizzare qualche semplice, abituale funzione linguistica. Ci si è chiesti perché la presenza del tutor avesse il potere di modificare il suo atteggiamento. Probabilmente pensava di non saper fare, mentre la presenza del tutor lo ha incoraggiato a lasciarsi andare e a rischiare l’insuccesso o, forse, questa presenza estranea alla scuola ha accorciato le distanze tra il suo mondo di strada ed un’istituzione che sentiva estranea. L’esperienza, però, perché partita in ritardo e perché ha sofferto per la mancanza dei docenti di Lettere e Storia che sono stati sostituiti da una serie di supplenti, che di fatto ha creato discontinuità e disorientamento, non può dirsi riuscita. L’alunno non è riuscito ad acquisire il minimo di competenze di base necessarie a passare nella classe seconda e a stabilire un rapporto stabilmente costruttivo con l’istituzione. E' servita, però, a farci individuare il tipo di percorso da programmare per il prossimo anno, quando il recupero dovrà iniziare da subito, con la presenza di un tutor e con un progetto individualizzato che parta dall’acquisizione delle strumentalità di base, prevedendo momenti di rapporto uno ad uno anche pomeridiani ricorrendo a tutti i supporti materiali ed umani recuperabili. A questo bisogna pensare da subito!
La vicenda di Gianni, al pari delle altre che seguono, evidenzia alcuni tra gli elementi che caratterizzano le situazioni di marginalità scolastica più gravi. Il comportamento aggressivo di Gianni verso i suoi compagni, e il rifiuto di comunicare e - di conseguenza - di lavorare con i suoi insegnanti, fanno risaltare i limiti del funzionamento della scuola che, per il modo stesso in cui è organizzata, non è riuscita ad arginarlo e ad integrarlo.
In una situazione del genere, la presenza all'interno della classe di una figura "familiare", cioè immediatamente riconoscibile da parte dei ragazzi, rende oggettivamente meno formale il quadro delle relazioni, aiutandoli ad affrontare i blocchi nella comunicazione con i loro insegnanti.
La storia di Andrea (seconda media).
Andrea presentava in prima media notevoli difficoltà di inserimento in classe. Aveva grossi problemi di socializzazione (dovuti al suo carattere violento e imprevedibile), scarso rispetto per le cose e le regole scolastiche (nei primi mesi di scuola lo si poteva sistematicamente trovare stravaccato per terra dietro la porta dell’aula, perché sbattuto fuori dal docente di turno esasperato), difficoltà di verbalizzazione marcate (si esprimeva solo in dialetto). Leggeva in maniera stentata ed aveva una grande sfiducia nelle sue possibilità di comprensione e produzione. Mostrava però una discreta abilità nell’area matematica (perché in possesso della capacità di far di conto e perché intravedeva nel professore una figura paterna e autorevole a cui far riferimento). Grazie alla collaborazione con i volontari operanti sul territorio che lo hanno seguito di pomeriggio, Andrea si è via via lasciato coinvolgere, anche se con momenti di regressione in cui più attenta e presente è stata l’attività di recupero messa in atto, superando il suo egocentrismo ed i suoi atteggiamenti di sfiducia in se stesso e nella scuola, e riuscendo, così, a stabilire un rapporto affettivo con i compagni ed i docenti. Tutto ciò gli ha permesso di interiorizzare le fondamentali regole della vita di gruppo ed alcuni contenuti essenziali. Alla fine dell'anno, seppure con dubbi ed incertezze, il consiglio di classe ha deciso di passarlo in seconda, ritenendo di non poter tradire lo sforzo, l’impegno e le aspettative del ragazzo che incominciava ad intravedere nella scuola il luogo della sua formazione ed emancipazione. Su questa decisione ha avuto un certo peso anche la considerazione che nel quartiere in cui Andrea vive alla bocciatura segue l’abbandono e all’abbandono l’ingresso nei circuiti del lavoro nero o della micro-criminalità. La scelta si è rivelata giusta. In seconda Andrea ha perseverato nell’impegno, i momenti di incapacità ad autogestirsi si sono diradati, ha vissuto un incidente di sospensione, dovuto allo stress di una situazione familiare traumatica, come una punizione meritata e pesante ma formativa, è migliorata la sua capacità di lettura e di comprensione, ha lavorato con i compagni senza creare tensioni, ha cominciato a svolgere i compiti assegnatigli. Certo la sua capacità di comunicazione orale, anche se sempre più spesso si esprime in italiano, e di produzione scritta sono ancora lontani dagli obiettivi prefissati per il resto della classe, ma il desiderio di non vivere una situazione di marginalizzazione e la maturazione globale evidenziata potranno aiutarlo, se non interverranno cause di altro tipo, a raggiungere quella emancipazione a cui lui e noi aspiriamo. L’esperienza fatta con Andrea dimostra come un lavoro coordinato all’interno della scuola e con apporti importanti e sostanziali dei volontari che operano nell’extra-scuola, sulla strada, sia produttivo; senza tutto ciò oggi Andrea non sarebbe nella scuola dell’obbligo.
Nel caso di Gianni l'intervento di tutoraggio in classe si è rivelato positivo ma tardivo. Esso ha avuto il pregio di mostrare una strada percorribile, ma non è servito ad impedire che l'anno seguente il ragazzo abbandonasse definitivamente la scuola. Nel caso di Andrea, invece, la maggiore tempestività ha prodotto, come abbiamo visto, ben altro esito.
La terza storia, che presentiamo qui di seguito, è quella di Luigi. A differenza degli altri due, la sua condizione di disagio nella scuola si esprime attraverso atteggiamenti passivi, rinunciatari. Si tratta di quei comportamenti che non mettono in crisi il funzionamento dell'organizzazione scolastica e che, proprio per questo, fanno meno problema e molto spesso passano inosservati.
La storia di Luigi (terza media).
Sin dalla prima media, Luigi ha assunto in classe un comportamento corretto. È sempre rimasto silenzioso al suo posto, non ha mai creato problemi di tipo disciplinare, ma ha sempre seguito passivamente. In prima e poi in seconda ed ora in terza il consiglio di classe ha sempre ritenuto di doverlo promuovere perché, parole testuali, “questo è quello che può dare”. Ci chiediamo se la scuola abbia fatto per lui tutto quello che avrebbe potuto fare. Un grosso risultato positivo è stato quello della assiduità nella frequenza, infatti, lo scorso anno, nel secondo quadrimestre e quest'anno a novembre, l’alunno aveva iniziato a non frequentare, perché attratto dal lavoro, e grazie alla mobilitazione dei docenti e dei volontari ha compreso il valore della scuola come opportunità di emancipazione ed è ritornato tra i banchi.
Per cogliere le difficoltà in mezzo alle quali il gruppo ha lavorato e le speranze che esso ha coltivato nel corso degli anni, credo sia utile riportare le conclusioni a cui il gruppo stesso è giunto alla fine dell'anno scolastico 95-96:
"Tirare le somme del lavoro svolto non è facile. Quando ci viene chiesto dall’esterno il prodotto finito, la ricetta semplice, chiara, concisa, immediatamente fruibile per la scuola e per i colleghi ci sembra di essere stati presi in contropiede, di aver fallito in una ricerca che pure ci ha visto impegnati, spesso lacerati dall’incertezza o dalla sensazione di impotenza, ma, comunque vivi, disposti a metterci in discussione, a pensare, a provare, giorno dopo giorno, di combattere contro quei mulini a vento ingombranti, almeno uno per classe in tutte le scuole, sempre presenti anche quando fisicamente assenti, che sono i ragazzi che debbono essere guardati a vista, che più sono ripetenti, indisciplinati, refrattari al recupero più condannano se stessi e gli altri alla loro presenza. Riflettendoci, forse, il grande dato di questo lavoro sta proprio qui, nell’aver continuato a cercare, nel non aver voluto liquidare il problema ritenendolo irrisolvibile e delegandolo ad altri. Ma a chi? Spesso siamo stati accusati di tenerci a scuola ragazzi che rendono l’apprendimento difficile agli altri, che creano disturbo e turbano l’atmosfera di serenità e di collaborazione che pure dovrebbe essere elemento imprescindibile di una scuola efficace e funzionale. Non sarebbe più facile sospenderli ogni volta che è possibile o dirottarli verso altri istituti? Certo sarebbe meglio che non ci fossero, così maleducati, troppo ignoranti, quasi sempre poveri, ma ci sono, ed è nostro compito di educatori mettere in atto tutte le strategie, ricorrere a tutte le risorse inventabili per coinvolgerli in un processo di formazione e di emancipazione. Il gruppo, se volete, è stato anche la coperta intorno a cui stringersi per superare i momenti di frustrazione e di impotenza. Il docente lasciato solo in una situazione di ingestibilità, funziona da fattore di accrescimento del disagio, spesso ha voglia di gettare la spugna, di vivere alla giornata senza lasciarsi emotivamente coinvolgere in problemi che vive come irrisolvibili.
"Abbiamo capito che in questi casi la cosa migliore da fare è sostenerci a vicenda, cercare la più grande solidarietà possibile, un aiuto da qualunque parte provenga. Il docente non può, né deve sentirsi solo nella classe; se cerca aiuto nella presidenza, nel territorio, negli esperti questi hanno il dovere di intervenire, devono porsi il problema, ricercare soluzioni, collaborando insieme per individuare una proposta collettiva, sociale, politica, che veda da un lato una presenza più incisiva della scuola e dei servizi, dall’altro la valorizzazione delle risorse presenti nei quartieri. E' una battaglia possibile per la quale vale la pena battersi.
"I volontari hanno dimostrato con l’esperienza fatta con Gianni che, spesso, basta la sola presenza esterna di una persona che si frapponga tra l’alunno “cattivo” e l’insegnante per ridimensionarne l’aggressività o il bisogno di leaderismo; il problema è come far sì che l’alunno acquisisca in maniera stabile l’abitudine all’autocontrollo e alla partecipazione. E' pur vero che questa esperienza, per la sua breve durata, non ha avuto modo di evolversi naturalmente; in questo campo sradicare comportamenti acquisiti richiede tempo, deve prevedere momenti di crescita e di regressione che solo un periodo più lungo e meglio organizzato avrebbe potuto garantire.
"Il gruppo, ritenendo l’esperienza fatta motivata e motivante, si augura di poter proseguire il lavoro nel prossimo anno, per aver modo di verificare, attraverso sperimentazioni meno improvvisate e settoriali - comunque utili perché hanno sedimentato conoscenze e possibilità operative - la capacità di dar vita a progetti organici, mirati e soprattutto condivisi e supportati da tutta la scuola e, se realizzabile, prevedendo un lavoro sulla continuità che veda coinvolti la scuola elementare e la scuola superiore nonché le risorse del territorio che si riusciranno a coinvolgere".
Il documento citato, di cui abbiamo riportato le conclusioni, segna il punto più alto di questa esperienza di collaborazione con le scuole. Durante quegli anni si è capito quanto sia importante intrecciare il lavoro della scuola con quello sul territorio, avendo come obiettivo condiviso quello di arrivare a costruire un progetto educativo di recupero scolastico e piena integrazione per ognuno dei bambini e ragazzi che nella scuola vivono situazioni di marginalità. Questa ricerca, che nel '96 e poi nei due anni successivi ha conosciuto il suo momento migliore, si è in seguito bloccata. L'incontro tra la strada e la scuola era avvenuto grazie all'incrocio di due elementi favorevoli: le sollecitazioni continue di una associazione radicata da anni nei quartieri, a stretto contatto con i bambini, i ragazzi e le loro famiglie; e il forte desiderio di lavorare per il cambiamento della scuola a partire dalle situazioni di frontiera che animava gli insegnanti che erano confluiti nel gruppo di lavoro. Per cinque anni quegli insegnanti hanno scelto di restare in trincea, sperando che la ricerca del gruppo potesse a poco a poco contagiare tutti gli altri insegnanti e produrre effetti di cambiamento anche sul piano della organizzazione e della programmazione didattica complessiva della scuola. In realtà, è accaduto che nel corso del tempo le forme del disagio sociale sono cresciute in maniera esponenziale, riverberandosi nella scuola in maniera sempre più preoccupante. La crescita dei problemi, il permanere delle rigidità organizzative della scuola, la tendenza crescente tra gli insegnanti a coltivare uno stile di lavoro individualistico e scarsamente improntato alla cooperazione e alla progettazione comune, l'intreccio di tutte queste variabili ha prodotto un effetto di logoramento su ognuno degli insegnanti che facevano parte del gruppo, i quali ad un certo punto non hanno più retto la situazione. Tra essi, solo uno è rimasto nella scuola media del centro storico.
Il gruppo dei volontari continua a collaborare con questa scuola media ed anche con le altre scuole (elementari e medie) del territorio frequentate dai bambini e ragazzi con cui essi vivono. Negli ultimi tempi sono state concordate anche delle iniziative interessanti. Ad esempio, da due anni a questa parte alcuni volontari, insieme ad altri insegnanti di scuole superiori e ad alcuni docenti e ricercatori del dipartimento di sociologia dell'Unical, stanno organizzando dei percorsi formativi per gli insegnanti di una delle scuole elementari del centro storico sui temi del disagio scolastico e delle difficoltà di comunicazione e di apprendimento. La speranza è quella di riuscire a promuovere iniziative di ricerca di gruppo, come quella cominciata e poi interrottasi di cui si è detto, nella convinzione che la strada e la scuola devono continuare a cercarsi, incontrarsi e dialogare se si vuol dare una possibilità di piena integrazione scolastica e sociale ai tanti bambini e ragazzi dei quartieri più disgregati.
5. Conclusioni
Nelle pagine precedenti abbiamo ricostruito alcuni tra i passaggi che ci sono sembrati più significativi di una esperienza concreta di lavoro di strada. In quest'ultimo paragrafo cercheremo di mettere a fuoco gli elementi che possiamo considerare comuni ad ogni esperienza di lavoro di strada che voglia declinarsi come particolare modalità di intervento politico sul territorio.
Cominciamo allora con il sottolineare che lavoro di strada non nasce innanzitutto come un servizio sociale, reso ad una determinata utenza, allo scopo di superare o contenere una situazione di marginalità o di disagio, ma è il frutto della maturazione di una coscienza politica.
Si intende per coscienza politica l'atteggiamento di attenzione responsabile verso tutto e verso tutti, quando tale atteggiamento non rimane allo stato di mera aspirazione, ma si esprime attraverso l’assunzione di concrete responsabilità, in uno spazio e in un tempo determinati, soprattutto nei confronti dei più piccoli e poveri.
Un colpo abbastanza duro al deperimento della coscienza politica così intesa è venuto dalle trasformazioni che ci sono state nel corso degli ultimi anni nel mondo del lavoro sociale. Lo sviluppo dell’impresa sociale, del terzo settore, della cooperazione sono accompagnate da un’ideologia che ha sussunto senza filtri il linguaggio del marketing, del management. Il linguaggio aziendalistico sta esercitando una forza seduttiva impressionante. Basti pensare al fatto che la formazione degli operatori sociali oggi è quasi esclusivamente impostata con riferimento ai criteri della razionalità organizzativa e del mercato.
Il passaggio dal volontariato alla cooperazione, e poi all’impresa sociale, per molti aspetti inevitabile, ha determinato una sottolineatura sempre più marcata del primato della competenza rispetto alla condivisione. Gruppi sempre più numerosi si specializzano per affrontare un tipo di emergenza sociale e lo fanno fino a quando l’interlocutore pubblico garantisce la contribuzione economica, ma accade sempre più spesso che quando si blocca un canale di finanziamento e se ne apre un altro che magari fa riferimento ad un bisogno sociale di tipo diverso, lo stesso gruppo - che per esempio prima si occupava di tossicodipendenti - opera un lavoro di riconversione interna e si dispone a realizzare interventi totalmente differenti. Capita anche questo, con una logica che non è quella della condivisione dal basso ma dell’affinamento delle competenze per intervenire in maniera professionale sui bisogni.
Nella stragrande maggioranza dei casi questi soggetti dell’economia sociale o del terzo settore dipendono totalmente dal pubblico, per cui possono operare solo se l’interlocutore istituzionale garantisce il pagamento di queste prestazioni. Da un lato c’è un soggetto istituzionale che si ritrae sempre di più dalla gestione diretta dei servizi sociali, dall’altro un numero sempre maggiore di soggetti dell’economia sociale che intervengono per gestire questi servizi.
In questo quadro, la "terzietà" del terzo settore non è molto evidente: in realtà si tratta di gestori privati di servizi pubblici, in una situazione di progressiva deresponsabilizzazione del soggetto istituzionale e di pressoché totale dipendenza di queste realtà organizzate (del cosiddetto terzo settore) dal pubblico.
Questo tipo di processo mi sembra che sia l’esatto contrario di un lavoro teso a far maturare una coscienza politica. I gruppi che operano in questo modo non puntano tanto a fare scomparire i bisogni o a promuovere una partecipazione corale, un’assunzione comunitaria delle situazioni di disagio sociale; al contrario, mi sembra che maturino sempre più un atteggiamento autoreferenziale, lavorando per autoriprodursi. L’interesse di questi gruppi è sempre meno rivolto a capire, a ragionare sulle cause che scatenano i problemi, a favorire una molteplicità di apporti. Si cerca invece di intercettare un certo tipo di bisogno, organizzare un servizio e tenere legami con le istituzioni che siano tali da garantirsi i finanziamenti. Tutto questo senza esprimere giudizi o demonizzare nessuno, ma mi pare che questo percorso non incoraggia la mobilitazione, non fa crescere la consapevolezza collettiva di come vanno le cose e soprattutto non favorisce un atteggiamento di responsabilità diffusa.
E forse sviluppa anche tutto un potere, una gerarchia. Penso ad esperienze associative o di cooperazione in cui a questi orientamenti corrisponde una direzione sempre più accentrata. Un potere enorme di chi sa fare i progetti e sa intercettare i flussi di finanziamento. Ormai nelle organizzazioni più strutturate ci sono persone che vengono pagate e che si specializzano solo per fare questo: scrivere progetti di intervento in grado di intercettare i finanziamenti; e poi costoro individuano anche i profili delle persone che devono essere contattate, assunte, formate e messe a lavorare con un processo che è tutto discendente e non di costruzione dal basso di un cammino. E in questo quadro il povero diventa l’utente.
Il lavoro di strada è anche la conseguenza della scelta di abitare la periferia come intervento politico. In ogni città c’è un centro e una periferia. La periferia non è solo una dimensione geografica o urbanistica ma anche, e soprattutto, sociale. Da questo punto di vista, la periferia è il luogo ove si manifestano le situazioni di maggiore disagio sociale, che finiscono con il caratterizzare quel contesto in maniera determinante.
Scegliere di abitare la periferia, come intervento politico, vuol dire calarsi consapevolmente in essa, allo scopo di eliminare o ridurre la frattura tra la periferia e il suo centro e, soprattutto, di condividere dal di dentro le situazioni di maggiore sofferenza.
Il lavoro di strada come intervento politico si presenta inoltre con i caratteri di una
azione dal basso
che presuppone e genera la disponibilità all’esercizio di una presa a carico comunitaria delle situazioni di marginalità sociale e di degrado
e che esige e produce la costruzione di reti sociali con le altre realtà operanti sul territorio e con le istituzioni.
Il lavoro di strada come azione dal basso.
Agire dal basso significa provare a vivere una esperienza di radicamento nel territorio. Ci si radica nelle situazioni di marginalità sociale quando si sceglie di “starci”, mettendoci tempo, passione, la vita propria con la vita altrui. Il radicamento inteso nel senso dello “stare” in una determinata situazione di confine (o di periferia) innesca una esperienza di destrutturazione, per cui si impara a guardare il mondo non solo a partire dai quadri interpretativi che abbiamo in testa, ma anche dal punto di vista di chi patisce in prima persona le situazioni di sofferenza, di disagio, di marginalità.
Don Milani insegnava che le questioni sociali vanno affrontate a partire dalla prospettiva di chi vive sulla propria pelle i bisogni dei più. Ma questo è possibile solo all'interno di un cammino di vicinanza, di compagnia, di radicamento sulla strada, appunto.
Il fatto di stare vicino ad un altro e di provare a vedere le cose dal suo punto di vista non significa che cancelliamo l’alterità tra noi e le persone a cui ci accostiamo, con le quali viviamo e insieme alle quali camminiamo. Ad esempio, il lavoro di strada con i bambini e i ragazzi che abbiamo presentato nelle pagine precedenti è fatto di momenti di animazione pura, di gioco, di attività sportive, ma è fatto anche di proposte impegnative, per cui molti di loro studiano per diverse ore ogni pomeriggio, in un contesto di relazionalità, di amicizia che mi sembra difficilmente riproducibile e sperimentabile di mattina a scuola. Insomma, non si sta tutto il tempo a giocare a pallone per strada come i ragazzi farebbero se fossero lasciati a loro stessi. All’inizio di tutto c’è stata una esperienza di vicinanza, di compagnia, di amicizia. Ci si è accostati a loro, si sono stabilite relazioni, si sono stretti legami che hanno aperto dei varchi soprattutto sul piano della fiducia. In seguito, sono stati proposti dei cammini.
L’altra dimensione del radicamento, accanto a quella dello “stare e guardare le cose dal basso, dalla prospettiva di chi sta ai margini”, è la dimensione dell’ascolto e della condivisione.
Ascoltiamo veramente quando cominciamo ad aprire agli altri lo spazio della nostra vita interiore, per cui li accogliamo e ce li portiamo dentro.
Condividiamo quando proviamo a stabilire relazioni di amicizia che diano fiducia.
L’azione di radicamento sociale, così come solitamente si esprime nel lavoro di strada, e cioè come azione dal basso, va considerata come alternativa rispetto ai modelli di intervento considerati più innovativi, quelli che esaltano cioè l’importanza della capacità progettuale e delle competenze dei soggetti che operano sul territorio.
I mutamenti profondi che ci sono stati nel mondo del lavoro sociale, e ai quali abbiamo accennato, hanno posto in forte risalto proprio i due aspetti di cui dicevamo, quelli cioè della competenza e della progettualità. Si va diffondendo la mentalità per cui intervenire nel disagio sociale significa elaborare dei progetti, reperire delle risorse, realizzare gli interventi e poi verificarli. Il tutto come se si trattasse di avviare e portare avanti un processo di produzione aziendale. Di conseguenza, pare che sfugga la consapevolezza del fatto che il lavoro nelle situazioni di periferia, molto spesso è caratterizzato da un’economia di perdita, più che da una economia dei risultati e dell’efficienza. Nel senso che capita in molti casi di verificare che tra gli sforzi che si producono per provare a fare qualcosa e i risultati che si ottengono non c’è proporzione. Per cui, se si dovesse seguire una logica di tipo aziendalistico nella valutazione di questi interventi, si registrerebbe sempre un saldo passivo.
Soprattutto rispetto alle situazioni di disagio più difficili, è complicato intervenire con la logica del progetto da verificare e poi ricalibrare. Molto spesso l’unico intervento possibile è quello della vicinanza, dell’ascolto, senza che siano chiare in partenza le ulteriori possibilità di intervento.
Penso, per esempio, alle forme nuove del disagio familiare: alle famiglie che si sfasciano, soprattutto quelle più giovani; ai casi di alcolismo o di fragilità psicologica di tante mamme e di tanti papà. Sono tutte situazioni in cui è difficile pensare di poter intervenire individuando una persona che abbia le competenze giuste e magari chiedendole di fare un intervento mirato, in grado di produrre dei risultati a stretto giro. Di fronte a queste situazioni di marginalità diffusa e profonda l'intervento che ci sembra più urgente è quello di qualcun altro che si accosta, provando a ritessere relazioni di amicizia intorno a queste vicende personali e familiari così sfilacciate. Ma questo lavoro di vicinanza, di compagnia, di ritessitura di relazioni è un lavoro lento, che richiede tempi lunghi e, soprattutto, la cui efficacia non è misurabile, né ci sono dei parametri di qualità ai quali fare riferimento per la valutazione di tali interventi. Però si tratta di quelle forme di presenza e di radicamento che danno la possibilità di guardare la realtà dal di dentro.
Queste situazioni limite - che per molti versi sono tragiche, inaccettabili, dolorosissime - ci insegnano inoltre che quanto più ci troviamo di fronte a vicende articolate, complesse, di difficile interpretazione e di difficile soluzione, tanto più risulta chiaro che siamo chiamati in causa noi con la nostra responsabilità. Se è vero che rispetto a queste situazioni possiamo soltanto stare e vivere in atteggiamento di compagnia, di vicinanza, è evidente che è la responsabilità di ognuno ad essere chiamata in gioco, non solo quella dei servizi sociali che non funzionano o quella degli operatori sociali o dei tecnici. E' la responsabilità di tutti che è sollecitata ad attivarsi. In questo senso la marginalità, il disagio sociale soprattutto nelle forme più crude e radicali evidenzia il bisogno di una coscienza politica, di una comprensione diffusa dei problemi che produca un coinvolgimento comunitario nelle situazioni di disagio più difficili.
Il lavoro di strada come azione che presuppone e genera la disponibilità all’esercizio di una presa a carico comunitaria delle situazioni di marginalità sociale e di degrado.
L’impressione è che quanto più ci si radica nelle situazioni di piccolezza e di povertà tanto più si avverte il bisogno di una presa a carico comunitaria dei problemi sociali. L’intervento della persona singola, della singola associazione si mostra sempre più insufficiente rispetto alla gravità dei bisogni che si incontrano, per cui ci si va convincendo che è necessaria una mobilitazione collettiva per far fronte alle situazioni di disagio sociale, soprattutto a quelle più difficili da interpretare e da affrontare. Una partecipazione corale, una presa a carico comunitaria dei problemi richiede una percezione chiara di quali siano i caratteri dei bisogni sociali vecchi ed emergenti.
Gli apporti degli specialisti, dei tecnici, degli studiosi sono certamente utili, ma se restano sganciati dall'esperienza non favoriscono la comprensione profonda dei problemi.
La presa a carico comunitaria esige che il soggetto di questo impegno sia una comunità, un gruppo di persone strette da un vincolo come di parentela o di amicizia; ma richiede pure che questa coscientizzazione sia di tutto il popolo (cioè popolare). Il soggetto che interviene dovrebbe essere un soggetto comunitario e dovrebbe produrre o rafforzare relazioni di tipo comunitario. Se pensiamo alle situazioni concrete che si vivono nell'esperienza di cui ci siamo occupati, ci si accorge che questo non è un modello teorico, ma è proprio l’esigenza che viene fuori con forza dalle vicende in cui i volontari sono coinvolti.
Volendo provare a semplificare il discorso in maniera grezza, anche a costo di banalizzare tutto, si può tranquillamente dire che a fondamento delle situazioni sociali più difficili, più complesse, più laceranti c’è un bisogno di amicizia e di fraternità. E questo viene fuori anche ragionando, per esempio, con i genitori che hanno figli con problemi psichici gravi. Gli specialisti che si occupano di queste forme di disagio riconoscono che la terapia più efficace è rappresentata dalla possibilità di sperimentare relazioni di tipo comunitario. La terapia farmacologica sortisce degli effetti se la persona in difficoltà ha la possibilità di vivere esperienze di accoglienza, di amicizia, di appartenenza che siano nutritive, che diano senso alla vita.
Il lavoro di strada come intervento che esige e produce la costruzione di reti sociali con le altre realtà operanti sul territorio e con le istituzioni.
La presa a carico comunitaria dei bisogni sociali porta sempre con sé l'esigenza di collegarsi con le altre realtà organizzate presenti nei territori della marginalità e del disagio sociale e con le istituzioni competenti. Si tratta di quella dinamica che oggi prende il nome di concertazione (v. L.285/97, L.328/2000). È una attività di progettazione sociale coordinata dalle istituzioni che punta a mettere in rete tutti i soggetti presenti sul territorio ed a coinvolgerli in tutte le fasi dell'intervento sociale. È una modalità sicuramente interessante, ma che presuppone l'esistenza di una struttura organizzativa delle istituzioni che spesso, soprattutto nelle regioni del sud, non è dato riscontrare.
La costruzione di reti sociali implica la consapevolezza che non si può lavorare da soli, e che bisogna cercare di collegarsi per promuovere il dispiegamento delle più ampie solidarietà possibili attorno ai bisogni sociali vecchi e nuovi.
Né può essere mai eluso il confronto con il momento istituzionale. Tale confronto ha come scopo, in ultima analisi, quello di aiutare le istituzioni dall'esterno, o meglio dal basso, a ritrovare qual è l'orientamento di ogni agire istituzionale: intervenire a favore dei più poveri, per assicurare loro dignità e possibilità di integrazione sociale, così come esigono i principi fondamentali della nostra Costituzione. Compito fondamentale dei soggetti istituzionali nel nostro paese è infatti quello di riconoscere e garantire i diritti inviolabili della persona, di esigere l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2), di rimuovere gli impedimenti di ordine economico e sociale che impediscono la piena partecipazione dei cittadini alla vita della polis (art. 3).
Aiutare le istituzioni a ritrovare questo orientamento, questa vocazione "universalistica", continuando a vivere radicati nella periferia e dalla periferia guardare il mondo: è l'aspetto che forse più di ogni altro caratterizza il lavoro di strada come particolare modalità di intervento politico.
Giorgio Marcello
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